Buone feste
Un diavolo in me
Nel 1884, due anni prima dello Strano caso del Dr Jekyll e Mr Hyde, Stevenson scrisse uno dei suoi racconti più belli, Markheim, in cui, sotto forma di duello tra il bene e il male, anticipa il tema del doppio e della fascinazione del male, visto come energia vitale che spinge ad agire, contrapposto alla passività del bene, tanto che il protagonista trarrà il coraggio di affrontare le sue colpe non per amore del bene, ma per odio verso il male. Una storia di declino morale e resurrezione, che va controcorrente rispetto alle favole natalizie della tradizione e, in particolare, di Dickens, l’uomo che inventò il Natale.
Il protagonista della storia, Markheim, uccide un antiquario la sera di Natale per rapinarlo, approfittando della chiusura festiva e dell’assenza della cameriera. Markheim è una vecchia conoscenza dell’antiquario a cui ha venduto, un pezzo alla volta, la collezione di suo zio, per poi giocarsi il denaro in borsa, inseguendo la chimera di una ricchezza mai raggiunta e che lo ha portato a commettere atti sempre più abbietti, fino all’omicidio. Rimasto in compagnia del cadavere, la sua mente inizia a vacillare, come la fiamma della candela che crea inquietanti giochi di chiaroscuro riflettendosi sul ciarpame della bottega, portandolo a sospettare di non essere solo. A un certo punto, le sue ossessioni sembrano concretizzarsi nella figura di uno strano ‘visitatore’ che non gli era del tutto estraneo: “a volte pensò di conoscerlo, a volte gli sembrò che gli rassomigliasse.” Una proiezione delle sue angosce, il diavolo in persona, o forse un angelo che vuole metterlo alla prova? Tra i due inizia una sorta di duello verbale in cui Markhheim, incalzato dal ‘visitatore’ - “si accontenti di essere quello che è, perché non cambierà mai, e le parole della parte che recita su questo palcoscenico sono già state scritte” - prima cerca di giustificarsi dichiarandosi vittima delle circostanze, come tutti gli uomini, infine, in un sussulto estremo di fierezza, ammette le sue responsabilità e decide di espiare la sua colpa.
“Markheim” fu originalmente scritto per il Pall Mall Gazette nel 1884, ma pubblicato nel 1885 in The Broken Shaft: Tales of Mid-Ocean come una sezione di Unwin's Christmas Annual. Più tardi venne pubblicato nella raccolta The Merry Men and Other Tales and Fables (1887).
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Markheim
di
Robert Louis Stevenson
“Sì,” disse l’antiquario, “le nostre occasioni di guadagno sono di vario genere. Alcuni clienti sono ignoranti, e allora io ne traggo un dividendo grazie alla mia superiore conoscenza. Alcuni sono disonesti,” e a questo punto sollevò la candela, in modo da concentrare la luce sul suo visitatore, “e in questo caso,” continuò, “metto a profitto la mia virtù.”
Markheim era entrato proprio allora dalle strade illuminate dal sole e i suoi occhi non si erano ancora abituati a quel miscuglio di scintillii e tenebre del negozio. A quelle parole taglienti e davanti alla presenza ravvicinata della fiamma, sbatté penosamente le palpebre e distolse lo sguardo.
Il mercante ridacchiò. “Lei viene da me il giorno di Natale,” riprese, “quando sa che sono solo in casa, ho messo gli scuri alle vetrine e ho deciso di chiudere bottega. Ebbene, lei dovrà pagare un prezzo per questo; dovrà pagare per il tempo che perdo, mentre dovrei essere intento a far quadrare i miei libri contabili; inoltre, dovrà pagare per un certo modo di fare particolarmente evidente in lei oggi. Io sono la quintessenza della discrezione e non faccio domande imbarazzanti, ma quando un cliente non riesce a guardarmi negli occhi, allora deve pagare per questo.” Il mercante ridacchiò ancora una volta e poi, ritornando al suo solito tono di voce affaristico, sebbene ancora con una nota d’ironia, “può farmi, come al solito, un preciso resoconto di come è venuto in possesso di questo oggetto?” continuò. “Di nuovo la collezione di suo zio? Uno straordinario collezionista, signore!”
E il piccolo pallido antiquario dalle spalle curve si mise quasi in punta di piedi, guardando al di sopra dei suoi occhiali d’oro, e scuotendo la testa con profondo scetticismo. Markheim restituì lo sguardo con uno di infinita pietà e un tocco di orrore.
“Questa volta,” disse, “siete in errore. Non sono venuto per vendere, ma per comprare. Non ho oggetti di antiquariato di cui disfarmi, la raccolta di mio zio è ridotta agli scaffali, e anche se fosse ancora intatto, ho guadagnato bene giocando in borsa, e dovrei piuttosto rifornirlo, e la mia commissione oggi è di natura alquanto semplice. Sto cercando un regalo di Natale per una signora,” continuò, diventando sempre più disinvolto man mano che si addentrava nel discorso che si era preparato, “e certamente le devo ogni scusa per averla disturbata in questo modo per una faccenda di così poca importanza. Ma ieri ho trascurato la cosa: devo presentare il mio piccolo omaggio a cena e, come lei ben sa, un ricco matrimonio non è cosa da trascurarsi.”
A questo punto ci fu una pausa, durante la quale l’antiquario sembrò soppesare quel discorso con incredulità. Il ticchettio dei molti orologi in mezzo all’anticaglia del negozio, e il debole sferragliare delle carrozze in una strada principale lì vicino, riempirono l’intervallo di silenzio.
“Bene, signore,” disse l’antiquario, “così sia. Lei è un vecchio cliente, dopo tutto, e se, come dice, ha l’occasione di fare un buon matrimonio, lungi da me esserle di ostacolo. Allora, ecco un grazioso oggettino per una signora,” proseguì, “questo specchio con manico – quindicesimo secolo, garantito – inoltre, proviene da una buona collezione, ma mi riservo di dire il nome, nell’interesse del cliente, che era proprio come lei, mio caro signore, il nipote e l’unico erede di un apprezzato collezionista.”
L’antiquario, continuando a parlare con la sua voce fredda e pungente, si era chinato per prendere un oggetto dal suo posto e, mentre era intento a questo, Markheim aveva avuto un soprassalto, un repentino sussulto di molte passioni tumultuose che era balzato fino al suo volto. Passò altrettanto velocemente di come era arrivato e non lasciò tracce se non un lieve tremore della mano che ricevette lo specchio.
“Uno specchio,” disse con voce roca, e poi tacque, e poi lo ripeté con voce più chiara. “Uno specchio? Per Natale? No di certo!”
“E perché no?” gridò l’antiquario. “Perché non uno specchio?”
Markheim lo osservava con un’espressione indefinibile. “Mi chiede perché no?” disse, “allora, guardi qui – dentro lo specchio – si guardi! Le piace quello che vede? No! Nemmeno a me – né a nessun altro.”
L’ometto aveva fatto un salto all’indietro quando Markheim lo aveva così bruscamente messo a confronto con lo specchio, ma ora, notando che in mano non aveva niente di più pericoloso, ridacchiò, “La sua futura signora deve avere dei lineamenti poco aggraziati,” disse.
“Io le chiedo,” disse Markheim, “un dono di Natale e lei mi dà questo – questo maledetto promemoria degli anni, dei peccati e delle follie – questa coscienza a portata di mano! Era questo il suo scopo? Cosa le passava per la mente? Me lo dica. Sarà meglio per lei. Forza, mi parli di lei. Azzardo un’ipotesi, che lei in segreto sia un uomo molto caritatevole.”
L’antiquario osservò attentamente il suo interlocutore. Era molto strano: non sembrava che Markheim stesse ridendo, c’era qualcosa nella sua faccia simile ad un ansioso barlume di speranza, ma nessuna ilarità.
“A cosa si riferisce?” chiese l’antiquario.
“Lei non è caritatevole?” replicò l’altro cupamente. “Non è caritatevole, né pio, né scrupoloso; non ama e non è amato: una mano per prendere il denaro e una cassaforte per custodirlo. Questo è tutto? Santo cielo, buon uomo, questo è tutto?”
“Le dirò io come stanno le cose,” iniziò l’antiquario con tono tagliente e scoppiò di nuovo in una risatina. “Mi sembra che questo sia un matrimonio d’amore e lei abbia bevuto alla salute della signora.”
“Ah!” esclamò Markheim, con una strana curiosità. “Ah, è stato innamorato? Mi racconti.”
“Io,” gridò l’antiquario. “Io innamorato! Non ne ho mai avuto il tempo, né oggi ho il tempo per tutte queste sciocchezze. Volete comprare lo specchio?”
“Perché tutta questa fretta?” replicò Markheim. “E’ molto piacevole stare qui a chiacchierare, e la vita è così breve e incerta che non mi affretterei a rifuggire da nessuna cosa piacevole – no, nemmeno da una senza pretese come questa. Dovremmo piuttosto restare aggrappati, aggrappati a quel poco che ci è concesso, come un uomo sull’orlo di un precipizio. Ogni secondo è un precipizio, se ci pensa – un precipizio alto un miglio – alto abbastanza, se cadiamo, da distruggere in noi ogni traccia di umanità. Pertanto, è meglio chiacchierare piacevolmente. Parliamo di noi: perché dovremmo indossare questa maschera? Scambiamoci le nostre confidenze. Chissà, potremmo diventare amici.”
“Ho solo una cosa da dirle,” disse l’antiquario. “O fa il suo acquisto, o esce dal mio negozio!”
“Giusto, giusto,” disse Markheim. “Basta sciocchezze. Ritorniamo
agli affari. Mi mostri qualcos’altro.”
L’antiquario si chinò di nuovo, questa volta per riporre lo specchio sullo scaffale, nel fare questo, i suoi sottili capelli biondi gli ricaddero sugli occhi. Markheim si avvicinò un po’ di più, con una mano nella tasca del cappotto, si raddrizzò e inspirò profondamente; nello stesso tempo, sul suo volto apparvero tante emozioni diverse tutte insieme – terrore, orrore e determinazione, attrazione e repulsione fisica; e avendo sollevato selvaggiamente il labbro superiore, lasciò intravedere i denti.
“Questo, forse, può andar bene,” osservò l’antiquario, e poi, mentre stava per rialzarsi, Markheim, saltò alle spalle della sua vittima. Il lungo coltello sottile lampeggiò e colpì. L’antiquario si dibatté come una gallina, battendo la tempia sullo scaffale e, poi, cadde a terra come un mucchio di stracci.
Il tempo aveva una miriade di piccole voci in quel negozio, alcune solenni e lente, come s’addiceva alla loro tarda età, altre garrule e veloci. Tutte insieme segnavano i secondi in un intricato coro di ticchettii. Poi, il rumore dei passi di un ragazzo, che correva pesantemente sul marciapiedi, irruppe su queste voci più flebili e scosse Markheim, riportandolo alla realtà. Si guardò intorno con terrore. La candela era sul bancone e la sua fiamma ondeggiava solennemente per via di uno spiffero e, a causa di quell’insignificante movimento, tutta la stanza si riempì di un silenzioso trambusto e iniziò a gonfiarsi come un mare: le ombre alte ondeggiavano, le dense chiazze di tenebra si gonfiavano e scemavano come se stessero respirando, i volti dei ritratti e gli dei di porcellana mutavano e tremolavano come immagini nell’acqua. La porta interna era socchiusa e si affacciò in quella congrega di ombre con un lungo squarcio di luce diurna, simile ad un dito puntato.
Gli occhi di Markheim si spostarono da queste spaventose divagazioni e tornarono al corpo della sua vittima, che giaceva ammucchiato e disteso allo stesso tempo, incredibilmente piccolo e stranamente più meschino che in vita. In quegli abiti poveri da avaro, in quella posa sgraziata, l’antiquario sembrava un mucchio di segatura. Markheim aveva avuto paura di guardarlo, ed ecco! non era niente. Eppure, mentre lo fissava, quel mucchio di vecchi abiti e quella pozza di sangue iniziarono a trovare una voce eloquente.
Doveva rimanere lì, non c’era nessuno che potesse far funzionare quelle complesse giunture o realizzare il miracolo del moto – doveva restare lì finché non lo avessero trovato. Trovato! Sì, e poi? Allora, da quella carne morta si sarebbe levato un grido che avrebbe riecheggiato su tutta l’Inghilterra e avrebbe riempito il mondo con gli echi della persecuzione. Sì, vivo o morto, quello era ancora il nemico. “Il tempo era il nemico, quando si era fuori di senno,” pensò, e la prima parola colpì la sua mente. Il tempo - ora che il crimine era stato compiuto – il tempo, che per la vittima era terminato, era diventato un problema urgente e vitale per lui.
Quel pensiero era ancora nella sua mente, quando, prima uno e poi l’altro, con ritmi e toni dei più vari – uno profondo come la campana dalla torre di una cattedrale, un altro che suonava il preludio di un valzer sulle sue note più acute – gli orologi iniziarono a rintoccare le tre del pomeriggio.
L’improvvisa esplosione di così tante lingue diverse in quella muta camera lo sconcertarono. Iniziò ad agitarsi, andando avanti e indietro con la candela, assediato da ombre in movimento e spaventato fino nell’anima da occasionali riflessi. In molti raffinati specchi, alcuni di stile inglese, altri da Venezia o Amsterdam, vide il suo volto ripetuto e ripetuto, come se fosse un esercito di spie; i suoi occhi lo incrociavano e lo scrutavano, e il suono dei suoi passi, sebbene procedesse con cautela, turbava la quiete circostante.
E mentre continuava a riempirsi le tasche, la sua mente continuava ad accusalo, con odiosa insistenza, dei mille difetti del suo piano criminale. Avrebbe dovuto scegliere un’ora più tranquilla, avrebbe dovuto procurarsi un alibi, non avrebbe dovuto usare un coltello, avrebbe dovuto essere più cauto e limitarsi a legare e imbavagliare l’antiquario, senza ucciderlo. Avrebbe dovuto essere più audace e uccidere anche la serva, avrebbe dovuto fare tutto diversamente: pungenti rimpianti, uno stancante, incessante lavorio della mente per cambiare quello che non poteva essere cambiato, per pianificare quello che adesso non serviva, per essere architetto di un passato irrevocabile.
Nel frattempo, e dietro a tutta questa attività, paure bestiali, simili allo scorrazzare di ratti in una soffitta deserta, misero in tumulto i più remoti angoli della sua mente: la mano del poliziotto si sarebbe pesantemente abbattuta sulla sua spalla e i suoi nervi sarebbero scattati come un pesce preso all’amo; oppure vedeva sfilare davanti a sé, in una galoppante successione, il banco degli imputati, la prigione, il patibolo e la nera bara.
Il terrore per la gente che abitava nella strada gli assediò la mente come un esercito nemico. Era impossibile, pensò, che non fosse arrivata alle loro orecchie una qualche notizia della lotta, suscitando la loro curiosità; e ora, li vedeva, in tutte le case del vicinato, seduti immobili e con le orecchie ritte – gente solitaria, condannata a trascorrere il Natale senza altra compagnia che i ricordi del passato, ed ora improvvisamente distolti da quel tenero esercizio; allegre riunioni di famiglie ridotte al silenzio intorno al tavolo, la madre ancora col dito alzato: diversi per strato sociale, età e stato d’animo, ma tutti, intorno ai loro focolari, intenti a curiosare, ascoltare e intrecciare la corda che doveva impiccarlo.
A volte gli sembrava di non riuscire a muoversi abbastanza silenziosamente; il tintinnio degli alti calici di Boemia suonava acuto come una campana; allarmato dall’intensità dei ticchettii, era tentato di fermare gli orologi. E poi, di nuovo, con un rapido mutamento dei suoi terrori, proprio il silenzio di quel posto gli sembrava fonte di pericolo, una cosa capace di colpire e raggelare chi passasse lì davanti; o avrebbe voluto camminare con più baldanza e trafficare rumorosamente tra gli oggetti del negozio e imitare, con ricercata baldanza, i movimenti di un uomo indaffarato a proprio agio in casa sua.
Ma ora era preso da così diversi timori che, mentre una parte della sua mente era ancora vigile e lucida, un’altra tremava sull’orlo della follia. Un’allucinazione in particolare si insinuò nella sua mente. Il vicino che ascoltava col volto pallido dietro la finestra, il passante che si fermava sul marciapiede a causa di un orribile supposizione – questi potevano alla peggio sospettare, ma non potevano sapere; attraverso le pareti in mattoni e le vetrine chiuse potevano penetrare solo i suoni. Ma qui, in casa, era solo?
Sapeva di esserlo: aveva visto la servetta uscire per andare ad un appuntamento, nei migliori dei suoi poveri abiti, e in ogni nastro e sorriso era scritto ‘sono fuori tutto il giorno.’ Sì, era solo, naturalmente e tuttavia, nella grande casa vuota sopra di lui, poteva sentire chiaramente il fruscio di passi leggeri – era certamente, e inesplicabilmente, cosciente di una presenza. Sì, certamente: la sua immaginazione la seguiva in ogni stanza e in ogni angolo della casa, a volte era qualcosa senza volto, e tuttavia aveva occhi per vedere, e poi ridiventava un’ombra di sé stesso, e poi vedeva di nuovo l’immagine dell’antiquario morto, rianimato dalla malignità e dall’odio.
A volte, facendo un grande sforzo, osservava la porta aperta, che sembrava respingere ancora il suo sguardo. La casa era alta, il lucernario piccolo e sporco, il giorno soffocato dalla nebbia e la luce che filtrava fino al piano terra era incredibilmente fioca e si affacciava a mala pena sulla soglia del negozio. E tuttavia, in quella striscia di luce incerta, non si intravedeva un’ombra tremolante?
Improvvisamente, dalla strada, un gentiluomo molto gioviale iniziò a battere con il bastone sulla porta del negozio, accompagnando i colpi con urla e canzonature in cui l’antiquario era continuamente chiamato per nome. Markheim, completamente raggelato, diede un’occhiata al morto. Ma no! giaceva completamente immobile; era fuggito via, dove quei colpi e quelle urla non potevano raggiungerlo; era annegato in un mare di silenzio e il suo nome, che una volta avrebbe catturato la sua attenzione anche nel fragore di una tempesta, era diventato un suono privo di senso. Poco dopo, il giovale gentiluomo smise di bussare e se ne andò.
Ecco un chiaro indizio che bisognava affrettarsi a completare quello che restava da fare, andare via da quei vicini sospettosi, tuffarsi in un bagno di folla londinese e raggiungere, al calar della sera, quel paradiso di sicurezza e apparente innocenza che era il suo letto. Un visitatore era venuto: in ogni momento ne poteva arrivare un altro e molto più ostinato. Aver commesso il crimine senza raccoglierne i frutti, sarebbe stato un fallimento troppo odioso. Ora la preoccupazione di Markheim era il denaro e, come mezzo per arrivarci, le chiavi.
Guardò dietro di sé verso la porta aperta, dove l’ombra ancora indugiava tremolante. Si avvicinò al corpo della sua vittima senza una consapevole ripugnanza, ma con una paura viscerale. Ogni traccia di umanità era sparita. Come un abito imbottito di paglia, braccia e gambe giacevano sparpagliate sul pavimento, mentre il busto era ripiegato. Sebbene fosse così misero e inconsistente a vedersi, tuttavia temeva che avrebbe potuto avere più consistenza al tocco. Prese il cadavere per le spalle e lo rigirò sulla schiena. Era stranamente leggero e flessuoso e le membra, come se fossero state rotte, ricadevano nelle posture più strane.
La faccia era priva di ogni espressione, ma pallida come la cera e con una spaventosa macchia di sangue su di una tempia. Quella fu, per Markheim, l’unica circostanza spiacevole. Lo riportò, all’istante, ad un certo giorno di fiera in un villaggio di pescatori: una giornata grigia, un vento tagliente, la folla lungo la strada, gli squilli di trombe, il rimbombo dei tamburi, la voce nasale del cantastorie e un ragazzo che andava avanti e indietro, nascosto tra la folla e combattuto tra la curiosità e la paura finché, arrivato là dove s’era radunata la maggior parte della gente, vide una baraccone e un grande cartellone con delle immagini, contraddistinte da disegni lugubri e colori vivaci: Brown-rigg e la sua apprendistai; i coniugi Manning e il loro ospite assassinatoii; Weare nella presa mortale di Thurtelliii; e un’altra ventina di crimini famosi.
Era tutto chiaro come un miraggio; era di nuovo quel ragazzino; stava di nuovo guardando, e con lo stesso senso di repulsione fisica, quelle immagini abbiette; era ancora stordito dal cupo suono dei tamburi. Una battuta della musica di quel giorno gli ritornò in mente e a quel punto, per la prima volta, fu sopraffatto da un malore, un attacco di nausea, un’improvvisa debolezza nelle gambe, che dovette respingere e sconfiggere all’istante.
Considerò più prudente confrontarsi con queste considerazione, piuttosto che sfuggirle, guardando coraggiosamente il morto in faccia e costringendo la sua mente a realizzare la natura e la gravità del suo crimine. Appena poco tempo prima quella faccia era stata capace di esprimere i sentimenti più vari, quella bocca pallida aveva parlato, quel corpo era stato animato da energie ubbidienti alla sua volontà ed ora, e a causa della sua azione, quel segmento di vita era stato fermato, come quando l’orologiaio, insinuando un dito, arresta il battito di un orologio.
Così ragionava invano; non riuscì ad elevare la sua coscienza ad un più alto grado di pentimento; lo stesso cuore che aveva tremato davanti alle immagini variopinte dei crimini, osservò la realtà che lo riguardava senza commuoversi. Al massimo, provò un barlume di pietà per uno che era stato invano dotato di tutte quelle facoltà che possono rendere il mondo un giardino meraviglioso, uno che non aveva mai vissuto e che ora era morto. Ma di pentimento no, nemmeno un fremito.
Con ciò, allontanando da sé quei pensieri, trovò le chiavi e si diresse alla porta aperta del negozio. All’esterno, aveva iniziato a piovere intensamente e il rumore dell’acquazzone sul tetto aveva bandito il silenzio. Come una caverna piena di gocciolii, le camere della casa erano infestate da un eco incessante, che si insinuava nelle orecchie e si mescolava al ticchettio degli orologi. E, mentre Markheim si avvicinava alla porta, gli sembrò di sentire, in risposta al suo cauto incedere, i passi di altri piedi su per la scala. L’ombra palpitava ancora vagamente sulla soglia. Rinvigorì i suoi muscoli con una buona dose di coraggio e aprì la porta completamente.
William
Merritt Chase, The Antiquary Shop, 1897
La fioca luce nebbiosa del giorno luccicava debolmente sul pavimento nudo e lungo le scale; sulla lucida superficie dell’armatura sistemata, alabarda in mano, sul pianerottolo, e sulle cornici di legno scuro intagliato intorno ai quadri appesi sui pannelli di legno giallo. Il rumore della pioggia era così forte per tutta la casa che, alle orecchie di Markheim, iniziò a differenziarsi in molti suoni distinti. Passi e sospiri, il calpestio di reggimenti che marciavano in lontananza, il tintinnio di monete contate e lo scricchiolio di porte tenute furtivamente socchiuse, sembravano mescolarsi con il ticchettio delle gocce sulla cupola e il borbottio dell’acqua nei canali di scolo. La sensazione di non essere solo cresceva dentro di lui fino ai confini della follia.
Era assillato e circondato da presenze da ogni lato. Le sentiva muoversi nelle camere sopra; dal negozio, sentì il morto alzarsi in piedi; e mentre iniziava a salire le scale con grande sforzo, passi fuggirono silenziosamente davanti a lui e altri lo seguirono furtivamente. Se solo fosse stato sordo, pensò, come sarebbe stato facile conservare la calma! Ma poi, mettendosi in ascolto con rinnovata attenzione, si benedisse per quel suo senso infaticabile che presidiava gli avamposti e restava una sentinella fedele della sua vita. Girava continuamente la testa; gli occhi, che sembravano uscirgli dalle orbite, scrutavano da ogni lato e in ogni lato erano parzialmente premiati con la coda di qualcosa senza nome che svaniva. I ventiquattro gradini che portavano al primo piano furono ventiquattro agonie.
Sul primo piano le porte erano socchiuse - tre di loro sembravano essere in agguato – scuotendo i suoi nervi come davanti alla bocca di un cannone. Sentì che non avrebbe potuto mai più proteggersi sufficientemente dagli occhi indagatori dei suoi simili, desiderò ardentemente essere a casa, circondato da muri, seppellito fra le coperte e invisibile a tutti ma non a Dio. A quel pensiero, si sorprese un po’, ricordando i racconti di altri assassini e la paura che si diceva avessero provato per la vendetta divina. Ma, almeno per lui, non era così. Egli temeva le leggi della natura, se non altro perché, nel loro corso indifferente e immutabile, potevano conservare qualche prova decisiva del suo crimine.
Temeva dieci volte di più, con un terrore abietto e superstizioso, alcune intermittenze nella continuità dell’esperienza umana, alcune deliberate illegalità della natura. Il suo era un gioco di abilità, che dipendeva dalle regole, calcolando le conseguenze in base alle cause; ma se la natura, come il tiranno sconfitto rovesciò la scacchiera, avesse rotto lo schema della loro concatenazione? La stessa cosa era successa a Napoleone (così dicevano gli scrittoriiv), quando l’inverno cambiò il momento della sua comparsa. Lo stesso poteva succedere a Markheim: le pareti solide potevano diventare trasparenti e rivelare le sue azioni come quelle di api in un alveare di vetro; le robuste assi del pavimento potevano cedere sotto i suoi piedi come sabbie mobili e imprigionarlo nella loro presa; sì, e c’erano incidenti meno pazzeschi che potevano distruggerlo: se, per esempio, la casa fosse crollata imprigionandolo accanto al corpo della sua vittima, o se la casa della porta a fianco avesse preso fuoco e i vigili lo avessero circondato da ogni lato. Queste erano le cose che temeva e, in un certo senso, queste cose potevano essere chiamate le mani di Dio stese contro il peccato. Ma, per quanto riguardava Dio, si sentiva tranquillo: il suo modo di agire era senza dubbio eccezionale, ma altrettanto lo erano le sue giustificazioni, che Dio conosceva; era al suo cospetto, e non tra gli uomini, che si sentiva sicuro di ricevere giustizia.
Dopo essere giunto sano e salvo nel salotto e aver chiuso la porta dietro di sé, si rese conto di avere un attimo di una tregua dai suoi allarmi. La stanza era stata completamente smantellata, inoltre era priva di tappeti e cosparsa di casse da imballaggio e mobili inappropriati: c’erano alcune grandi specchiere, in cui poteva osservarsi da diverse angolature, come un attore sulla scena; molti quadri, con e senza cornici, erano appoggiati con le facce verso il muro e per finire, una bella credenza Sheraton, un armadio intarsiato e un grande letto antico con baldacchino. Le finestre arrivavano fino al pavimento ma, per sua grande fortuna, la parte inferiore delle imposte era stata chiusa, nascondendolo così dai vicini.
Allora Markheim avvicinò una cassa davanti all’armadio e iniziò a cercare tra le chiavi. Era una faccenda lunga, perché ce n’erano molte, inoltre era snervante, perché, dopo tutto, poteva non esserci niente nell’armadio, e il tempo stava volando. Ma la meticolosità di quell’attività lo calmò. Vedeva la porta con la coda dell’occhio - di tanto in tanto la osservava perfino direttamente, come un comandante assediato compiaciuto nel verificare il buono stato delle sue difese. Ma in verità era in pace. La pioggia che cadeva nella strada aveva un suono naturale e piacevole.
Poco dopo, sull’altro lato della strada, le note di un piano suonarono la musica di un inno e le voci di molti bambini intonarono l’aria e le parole. Com’era maestosa e rassicurante, quella melodia! Markheim l’ascoltò sorridendo, appena trovò le chiavi, e la sua mente era affollata da idee e immagini dello stesso tenore: bambini che andavano a messa e la musica solenne di un organo; bambini nei prati, che si bagnavano sulle rive di un ruscello, o gironzolavano fra i rovi di bacche selvatiche, o facevano volare gli aquiloni in un cielo ventoso e attraversato da nuvole. Poi, ad un’altra cadenza dell’inno, di nuovo in chiesa, nella sonnolenza di una domenica estiva, con la voce acuta e gentile del parroco (al cui ricordo sorrise un po’), le colorate tombe giacobitev e le indistinte incisioni dei dieci comandanti sul coro ligneo.
E mentre sedeva così, allo stesso tempo occupato e con la mente altrove, si alzò con un soprassalto. Un brivido gelido, uno infuocato, un violento pulsare del sangue gli attraversarono il corpo e rimase pietrificato e tremante di orrore. Dei passi salivano su per la scala lentamente e con regolarità, una mano si posò sulla maniglia della porta, la serratura scattò e la porta si aprì. La paura teneva fermo Merkheim in una morsa. Non sapeva cosa aspettarsi, se il morto redivivo o i ministri ufficiali della giustizia umana, o un ignaro testimone occasionale, che capitava lì per caso per consegnarlo alla forca. Ma quando una faccia si insinuò nell’apertura della porta, guardò in giro per la stanza, guardò lui, annuì e sorrise come se avesse riconosciuto un amico e poi si ritrasse e la porta si chiuse dietro di lui, perse ogni controllo sulla sua paura e scoppiò in un urlo rauco. A quel suono, il visitatore ritornò.
“Mi ha chiamato?” chiese, cortesemente, e detto questo, entrò nella stanza e chiuse la porta dietro di lui.
Merkhaim rimase a guardarlo con grande attenzione. Forse la sua vista era velata, ma la figura del nuovo venuto sembrava mutare e ondeggiare, come quella degli idoli nel negozio alla vacillante luce della candela; a volte pensò di conoscerlo, a volte gli sembrò che gli rassomigliasse e sempre, come un grumo di terrore incandescente, celava dentro il suo cuore la convinzione che quella cosa non appartenesse né alla terra né a Dio.
E tuttavia quella creatura aveva una strana aria di normalità, mentre osservava Markheim sorridendo, e quando aggiunse: “Sta cercando il denaro, suppongo,” fu nei toni della quotidiana cortesia.
Markheim non rispose.
“Mi sento in dovere di avvisarla che la cameriera ha lasciato il fidanzatino prima del solito e sarà qui tra poco. Se il signor Markheim fosse trovato in questa casa, non c’è bisogno che le descriva le conseguenze.”
“Mi conosce?” gridò l’assassino.
Il visitatore sorrise. “E’ uno dei miei favoriti da molto tempo,” disse, “la osservo da tanto e ho spesso cercato di aiutarla.”
“Lei chi è?” gridò Markheim, “il diavolo?”
“Chi potrei essere,” rispose l’altro, “non può influire in nessun modo sul servizio che mi propongo di renderle.”
“Sì, invece,” gridò Markheim, “assolutamente! Essere aiutato da lei? No, mai non da lei! Non mi conosce ancora, grazie a Dio non mi conosce!”
“La conosco,” rispose il visitatore, con una sorte di gentile severità o meglio, fermezza. “La conosco fino nell’anima.”
“Mi conosce!” gridò Markheim. “Chi potrebbe? La mia vita non è che un travestimento e una calunnia contro me stesso. Sono vissuto per mascherare la mia natura. Tutti lo fanno, tutti sono migliori di questo travestimento che gli cresce addosso e li soffoca. Li vedi trascinati via dalla vita, come quelli che i banditi catturano e avvolgono in un mantello. Se potessero essere padroni di sé stessi, se lei potesse guardarli in faccia, sarebbero completamente diversi, brillerebbero della stessa luce degli eroi e dei santi! Io sono peggiore della maggior parte di tutti loro: il mio io è più dissimulato. Il motivo è noto a me e a Dio. Ma, se ne avessi il tempo, potrei aprirmi!”
“A lei per primo,” rispose l’assassino. “Pensavo che lei fosse intelligente. Pensavo – dal momento che lei esiste – che si sarebbe dimostrato capace di leggere nei cuori. Invece, lei vorrebbe giudicarmi in base alla mie azioni! Ci pensa, le mie azioni! Sono nato e vissuto in una terra di giganti, giganti che mi hanno trascinato per i polsi sin da quando sono uscito dal ventre di mia madre – i giganti delle circostanze. E lei vorrebbe giudicarmi dalle mie azioni! Ma non riesce a guardarmi dentro? Non riesce a capire che il male mi fa orrore? Non riesce a leggere dentro di me la limpida scrittura della coscienza, mai offuscata da capricciosi sofismi, sebbene troppo spesso disattesa? Non riesce a vedermi come un qualcosa che certamente deve essere comune a tutta l’umanità – il peccatore involontario?
“Tutto ciò è espresso in modo molto sentito,” fu la risposta, “ma non mi riguarda. Queste sue argomentazioni vanno oltre la mia competenza, e non mi interessa minimamente da cosa lei possa essere stato trascinato, così da essere stato condotto via dalla giusta direzione. Ma il tempo vola, la serva si attarda mentre osserva le facce della folla e le immagini sui cartelloni, ma continua ad avvicinarsi e, ricordi, è come se la forca stesse camminando verso di lei attraverso le strade del Natale! Devo aiutarla, io che so tutto? Devo dirle dove trovare il denaro?”
“A che prezzo?” chiese Makrkheim.
“Le offro i miei servigi come dono di Natale,” rispose l’altro.
Markheim non poté trattenere un sorriso di amaro trionfo. “No,” disse, “non prenderò niente dalle sue mani; se stessi morendo di sete, e fosse la sua mano a portarmi l’acqua alle labbra, troverei il coraggio di rifiutare. Può essere da sciocchi, ma non farò niente per affidarmi al diavolo.”
“Non ho obbiezioni per un pentimento sul letto di morte,” osservò il visitatore.
“Perché lei non crede nella loro efficacia!” gridò Markheim.
“Non dico questo,” rispose l’altro, “ma osservo queste cose da un diverso punto di vista e quando la vita finisce, il mio interesse viene meno. L’uomo ha vissuto per servirmi, per spargere odio sotto la copertura della religione, o per seminare zizzania nei campi di grano, come fa lei, nel corso di una vita di cieca obbedienza al desiderio. Adesso che la sua dipartita è prossima non può che rendermi un ultimo servizio: pentirsi, morire sorridendo e così rafforzare la fiducia e la speranza nei più timorosi dei miei restanti seguaci. Non sono un padrone così severo. Mi provi. Accetti il mio aiuto. Si goda la vita come ha fatto fino ad ora, se la goda quanto più è possibile, allarghi i gomiti sul tavolo, e quando inizia a scendere la notte e si chiudono le tende, le dico, per rassicurarla, che troverà persino facile ricomporre i dissidi con la sua coscienza e umiliarsi a fare pace con Dio. Vengo proprio adesso da un simile letto di morte, e la stanza era piena di gente sinceramente addolorata che ascoltava le ultime parole dell’uomo e quando guardai nel suo viso, che era stato duro come la selce nei confronti della pietà, scoprii che sorrideva speranzoso.”
“E lei, dunque, suppone che io sia una tale creatura?” chiese Markheim. “Lei pensa che io non abbia aspirazioni più generose se non peccare, peccare e peccare e, alla fine, intrufolarmi in paradiso? Il mio cuore si ribella a questo pensiero. Questa, dunque, la sua esperienza dell’umanità? O forse lei mi attribuisce una tale bassezza solo perché mi ha trovato con le mani rosse? E l’omicidio è un crimine così empio da prosciugare le stese sorgenti del bene?”
“Per me, l’omicidio non è una categoria speciale,” rispose l’altro. “Tutti i peccati sono omicidi, proprio come tutta la vita è guerra. Vedo la vostra specie come marinai affamati su di una zattera, che strappano croste di pane dalle mani di altri affamati e si cibano gli uni delle vite degli. Seguo i peccati oltre il momento in cui sono commessi, e trovo che la loro conseguenza ultima è la morte; ai miei occhi, la graziosa fanciulla che contraria la madre con seducenti grazie sulla questione di un ballo, gronda sangue umano in maniera non meno evidente di un omicida come lei. Dico che seguo i peccati? Seguo anche le virtù: la differenza non è maggiore dello spessore di un’unghia, entrambi sono la falce per il raccolto dell’angelo della morte. Il male, per cui io vivo, non consiste nelle azione ma nel carattere. L’uomo cattivo mi è caro, non per le cattive azioni, i cui frutti, se potessimo seguirli abbastanza a lungo giù per le vertiginose cataratte del tempo, potremmo scoprire che sono più benedetti di quelli delle più rare virtù. E non è perché lei ha ucciso un mercante, ma perché lei è Markheim, che le offro di favorire la sua fuga.”
“Le aprirò il mio cuore,” rispose Markheim. “Il crimine in cui lei mi scopre è il mio ultimo. Lungo la strada fino ad esso ho imparato molte lezioni, esso stesso è una lezione, una lezione di capitale importanza. Fin qui sono stato spinto, sebbene mi ribellassi, a fare quello che non avrei dovuto: ero schiavo della povertà, da lei trascinato e flagellato. Ci sono forti virtù che possono resistere a queste tentazioni, le mie non erano tali: avevo sete di piacere. Ma oggi, e da ciò che ho commesso, traggo ammonimento e ricchezza – sia la forza che una nuova volontà di essere me stesso. Divento libero di agire in ogni cosa a questo mondo, incomincio a vedere me stesso completamente cambiato, queste mani agenti del bene, questo cuore in pace. Mi sovviene qualcosa dal passato: qualcosa di cui avevo sognato la domenica sera al suono dell’organo, qualcosa che avevo pianificato quando spargevo lacrime su nobili libri, e di cui avevo parlato, bimbo innocente, con mia madre. E’ lì che ritrovo la mia vita: ho vagato senza meta per alcuni anni, ma ora, torno a vedere ancora una volta la mia città di destinazione.”
Come incontrarono se stessi (1854). Dante Gabriele Rossetti
“Lei userà questo denaro per giocare in borsa, suppongo.” rimarcò il visitatore, “e là, se non sbaglio, ne ha già perso qualche migliaio.”
“Ah,” fece Markheim, “ma questa volta ho una giocata sicura.”
“Questa volta, di nuovo, perderà,” rispose con calma il visitatore.
“Ah, ma ne serberò la metà!” gridò Markheim.
“Perderà anche quello,” disse l’altro.
Il sudore iniziò ad imperlare la fronte di Merkheim. “E allora, che importa?” esclamò. “Diciamo che perderò il danaro, diciamo che sprofonderò di nuovo nella povertà: sarà una parte di me, e cioè la peggiore, che continuerà fino alla fine ad avere il sopravvento sulla migliore? Il bene ed il male scorrono con forza dentro di me, trascinandomi in entrambe le direzioni. Io non amo una sola cosa, io amo ogni cosa. Posso concepire grandi imprese, sacrifici, martiri; e sebbene sia caduto in un crimine come l’omicidio, la pietà non è estranea ai miei pensieri. Ho pietà dei poveri, chi conosce le loro traversie meglio di me? Ne ho pietà e li aiuto; ho in grande considerazione l’amore, amo le sane risate: non c’è alcuna cosa buona e onesta sulla terra che io non ami. Forse soltanto i miei vizi devono guidare la mia vita, mentre le mie virtù devono restare senza effetto, come un inerte fardello della mente? Non è così, anche il bene ci spinge ad agire.”
Ma il visitatore alzò un dito. “Durante i trentasei anni che lei ha trascorso in questo mondo,” disse, “attraverso molti cambiamenti di fortuna e differenti stati d’animo, ho potuto osservare la sua inesorabile caduta. Quindici anni fa sarebbe trasalito al pensiero di un furto. Tre anni fa sarebbe impallidito solo a sentire nominare la parola ‘omicidio.’ C’è un crimine, c’è una crudeltà o una meschinità, da cui ancora si schermisce? Fra cinque anni la sorprenderò sul fatto! La sua strada conduce sempre più in basso, e niente altro potrà fermarla se non la morte.”
“Le faccio una semplice domanda,” disse l’altro, “e, a seconda della sua risposta, le farò il suo oroscopo morale. Lei è diventato più lasso in molte cose, forse fa bene ad essere così – e in ogni modo, è lo stesso per tutti gli uomini. Ma stabilito questo, lei è più esigente in un aspetto particolare della sua condotta, anche il più insignificante, o va a briglia sciolta in tutto?”
“In un aspetto particolare?” ripeté Markheim, angosciato a questo pensiero. “No,” aggiunse con disperazione, “in nessuno! Mi sono lasciato andare completamente.”
“Allora,” disse il visitatore, “si accontenti di essere quello che è, perché non cambierà mai, e le parole della parte che recita su questo palcoscenico sono già state scritte.”
Markheim rimase zitto per un po’ e fu il visitatore a rompere per primo il silenzio. “Stando così le cose,” disse, “le devo mostrare dov’è il denaro?”
“E la grazia?” gridò Markheim.
“Non ci ha già provato?” rispose l’altro. “Due o tre anni fa non l’ho forse vista partecipare ad una veglia di carità, e durante gli inni, la voce più alta, non era la sua?”
“E’ vero,” disse Markheim, “e vedo chiaramente qual’è il mio dovere. La ringrazio dal profondo della mia anima: ho aperto gli occhi e finalmente mi vedo per quello che sono.”
In quel momento, la nota acuta del campanello risuonò per tutta la casa e il visitatore, come se fosse stato un segnale prestabilito che stava aspettando, cambiò improvvisamente modo di fare.
“La cameriera!” gridò. “E’ ritornata, come l’avevo avvisato, ed ora lei si trova davanti ad un passo ancora più difficile. Il suo padrone, deve dire, sta male, deve farla entrare, con un’espressione sicura ma piuttosto seria – niente sorrisi, nessuna esagerazione, e le prometto il successo! Una volta che la ragazza è dentro e la porta è chiusa, la stessa destrezza che lo ha portato a liberarsi dell’antiquario, la libererà di quest’ultimo pericolo sulla sua strada. Da quel momento in poi, avrà a disposizione tutta la sera – l’intera notte, se necessario – per saccheggiare i tesori della casa, e per mettersi al sicuro. Questo è un aiuto che le arriva sotto la maschera del pericolo. Forza!” gridò “forza, amico, la sua vita è in bilico, forza, agisca!”
Markheim fissò il suo consigliere. “Se sono condannato a commettere cattive azioni,” disse, “c’è ancora un varco aperto verso la libertà – poso cessare ogni azione. Se la mia vita è una cosa malvagia, posso morire. Sebbene io sia, come lei giustamente dice, lo zimbello di ogni piccola tentazione, posso ancora, con un solo gesto decisivo, mettermi oltre la loro portata. E’ possibile che il mio amore per il bene sia condannato alla sterilità, e così sia! Ma ho ancora il mio odio per il male e da questo, con suo grande sconcerto, vedrà che potrò trarre energia e coraggio.”
I lineamenti del visitatore iniziarono a subire un incredibile e bellissimo mutamento: furono illuminati e addolciti da una tenera espressione di trionfo e, pur continuando a brillare, si affievolirono fino a dissolversi.
Ma Markheim non si fermò ad guardare o comprendere quella trasformazione. Aprì la porta e scese le scale molto lentamente, chiuso nei suoi pensieri. Il passato gli si parò dinanzi tristemente: lo considerò per quello che era, brutto e spiacevole come un incubo, casuale come un omicidio involontario – lo scenario di una sconfitta. La vita, così come gli appariva, non lo indiceva più in tentazione, ma in lontananza intravedeva un porto sicuro per il suo veliero.
Arrivato nel corridoio si fermò e guardò nel negozio, dove la candela ancora bruciava accanto al cadavere. C’era uno strano silenzio. Mentre osservava, ricordi del mercante sciamarono nella sua mente. E allora, ancora una volta il campanello suonò con impaziente clamore.
Markheim andò incontro alla cameriera sulla soglia con qualcosa simile ad un sorriso.
“Sarà meglio che vada a chiamare la polizia,” disse, “ho ucciso il suo padrone.”
FINE
i Elizabeth Brownrigg (1720 - 1767) fu un’assassina inglese. La sua vittima, Mary Clifford, era una delle sue cameriere, che morì a causa di ferite multiple poi infettatesi. In seguito alle testimonianze oculari e ai referti medici, la Brownrigg fu impiccata a Tyburn il 14 Settembre 1767.
ii Marie Manning, nata de Roux (Ginevra, 1821 – Londra, 13 novembre 1849), è stata un'assassina svizzera che assieme al marito Frederick George Manning uccise il suo amante Patrick O'Connor.
Tra i presenti all'esecuzione vi era lo scrittore Charles Dickens che scrisse al Times deprecando il deplorevole spettacolo di una folla che, mangiando e bevendo, cinicamente e senza pietà partecipava alla morte bestiale dei due condannati come a una divertente esibizione.
iii William Weare era un giocatore d'azzardo e un avvocato del Lyon's Inn . Il suo assassino era John Thurtell (1794-1824), un promotore sportivo, pugile dilettante , un ex ufficiale della Royal Marine e figlio del sindaco di Norwich . Thurtell doveva a Weare un debito di gioco di £ 300, una somma immensa all'epoca (equivalente a £ 24.500 nel 2015), che credeva che Weare avesse guadagnato imbrogliando. Qualunque sia la verità, quando Weare ha chiesto i soldi, Thurtell ha deciso di ucciderlo piuttosto che pagare.
ivForse si riferisce a Victor Hugo che nel grande romanzo storico I Miserabili (1862), attribuisce la sconfitta di Napoleone a Waterloo (giugno 1815) alla pioggia che aveva reso impraticabile il terreno impedendogli di manovrare l’artiglieria pesante. Gli storici, comunque, attribuiscono la sconfitta ad una serie di errori e ritardi di Napoleone e all’intervento decisivo della cavalleria prussiana.
v Tombe scolpite e dipinte a colori vivaci risalenti al XV e XVI secolo, cioè il regno dei Tudor e degli Stuart.