mercoledì 30 dicembre 2015

Cuori perduti







Elegante affabulatore, insuperabile nel creare atmosfere stranianti, Montague Rhodes James (Goodneston, 1862 – Eton, 1936), storico, medievalista, docente universitario a Cambridge e ad Eton, scrittore di fiabe, è forse il più noto autore di ghost-stories e, al contempo, un innovatore del genere. Anche se le sue creature hanno radici nelle tradizioni popolari e bibliche, esse agiscono nella realtà quotidiana, coinvolgendo allo stesso modo l'uomo semplice e l'erudito. Spesso tozze, pelose, animalesche o apparentemente innocue come un rotolo di flanella, non sono mai benevole e cercano vendetta o rivalsa sui vivi. L'unico modo per esorcizzarle è comprendere il loro mistero, spesso nascosto in un antico manoscritto comprensibile solo all'erudito di turno, che diventa così un vero detective dell'occulto.
Spronato dagli amici, James scriverà un racconto all’anno, in occasione di ogni vigilia di Natale, raccogliendo e pubblicando la sua produzione in quattro volumi: Ghost Stories of an Antiquary (1904), More Ghost Stories of an Antiquary (1911), A Thin Ghost and Others (1919), and A Warning to the Curious and Other Ghost Stories (1925).
Cuori perduti (1895), è uno dei due racconti pubblicati prima del '900 (l'altro è L'album del canonico Alberico, vedi mio post del 27/10/13). Nella storia si mescolano sapientemente i tipici ingredienti dei racconti di James: esoterismo, antichi riti e religioni, manoscritti più o meno apocrifi, fantasmi alla ricerca di vendetta sui vivi. Il punto di vista è quello del giovane protagonista, Stephen Elliott, un orfano di dodici anni ospite del suo anziano e ricco parente, Mr. Abney, che ama accogliere nella sua casa giovani vagabondi, tutti misteriosamente scomparsi. L'atmosfera è particolarmente inquietante, proprio perché i protagonisti, sia nell'al di qua che nell'al di là, sono bambini, sprezzantemente definiti 'corpora vilia' dall'erudito e misterioso Mr Abney che se ne serve per i suoi folli esperimenti.

Consigli per la lettura:
Tutti i racconti di fantasmi. Ediz. integrale
James Montague R., cur. Pilo G., Fusco S., 2012, Newton Compton






Cuori perduti

di
M.R. James






Per quel che sono riuscito ad accertare, fu nel settembre dell'anno 1811 che una carrozza da posta si fermò davanti alla porta di Aswarby Hall, nel cuore del Lincolnshire. Il ragazzino che era l'unico passeggero della carrozza e che saltò giù appena quella si fermò, si guardò intorno con gran curiosità nel breve intervallo che intercorse fra il momento in cui aveva suonato il campanello e quello in cui la porta principale si aprì. Quel che vide fu una casa alta, squadrata, in mattoni rossi, costruita durante il regno della regina Anna1; vi era stato aggiunto un porticato con colonne di pietra nel più puro stile classico del 1790; la casa aveva numerose finestre, alte e strette, con piccoli pannelli di vetro incastrati in spesse cornici di legno bianco. La facciata era coronata da un frontone in cui si apriva una finestra rotonda. A destra e a sinistra c'erano due ali, collegate al blocco centrale da insolite gallerie invetriate supportate da colonnati. Queste ali ospitavano semplicemente le stalle e i servizi della casa. Ognuna era sormontata da una cupola ornamentale con una banderuola dorata.

martedì 15 dicembre 2015

Un albero di Natale


Alla ricerca del Natale perduto






Nella triste Inghilterra della rivoluzione industriale, che lasciava ai lavoratori ben poco tempo per festeggiare, il Natale era un giorno di lavoro come gli altri. Furono proprio i racconti di Dickens, in particolare A Chistmas Carol (1843), a riaccendere la gioia del Natale, che era una festività in declino da quando Oliver Cromwell, (vincitore della rivoluzione puritana culminata nel 1649 con la decapitazione del re) cercò di eradicare le tradizioni natalizie del medioevo a causa delle loro implicazioni pagane. Infatti, il 25 dicembre coincide con le celebrazioni del solstizio invernale, i Saturnalia nel mondo latino e Yule nella tradizione nordica. La tradizione della famiglia riunita intorno all'albero di Natale, invece, fu portata dalla Germania in Inghilterra dal Principe Alberto, marito della regina Vittoria. Altra tradizione importata dal principe Alberto fu quella dei canti natalizi, che ravvivò la tradizione medievale dei Waits, gruppi di cantori e musicisti dilettanti che si esibivano per le strade nel giorno di Natale.
Il nome di Dickens divenne così strettamente connesso al Natale, che quando morì una piccola venditrice ambulante chiese: “Mr. Dickens morto? Allora anche Papà Natale è morto?”




Dopo il successo di A Christmas Carol, Dicken rispettò il suo appuntamento con i lettori, pubblicando quasi tutti gli anni un nuovo racconto natalizio. Nel 1850 pubblicò A Christmas Tree nella sua rivista Household Words. Il racconto è stato tradotto in italiano solo nel 1981 e pubblicato da Vanni Scheiwiller col marchio «All'insegna del pesce d'oro», oggi introvabile, in una preziosa edizione bilingue illustrata dalle inquietanti incisioni di Mirando Haz (pseudonimo di Amedeo Pieragostini), che ben riescono a cogliere il lato più oscuro e visionario di questo racconto. Racconto pieno di invenzioni, suggestioni e tocchi di humor nero, sicuramente uno dei più originali di Dickens, eppure uno dei meno conosciuti, forse perché il suo messaggio è meno rassicurante e ottimista di quello che il pubblico vittoriano avrebbe gradito. Anche lo stile della narrazione risulta complesso e sofisticato, una sorta di reverie che mi ha ricordato la Recherche di Proust.
Il racconto inizia nel più convenzionale dei modi: è il giorno di Natale e il narratore lo ha trascorso insieme ad “un'allegra compagnia di bambini riuniti intorno a quel grazioso giocattolo tedesco, l'albero di Natale.” Il narratore guarda l'albero con gli occhi dei bambini, incantati dallo sfavillio delle luci e dal tripudio di giocattoli appesi ai rami dell'albero: “C'era di tutto e di più.” Di ritorno a casa, i suoi pensieri ritornano indietro: Comincio a ripensare alle cose che tutti noi meglio ricordiamo fra quella appese ai rami dell'albero di Natale della nostra giovinezza, sul quale ci siamo arrampicati fino alla vita reale.” Anche l'albero assume una direzione retrograda: “... perché scopro che, grazie ad una sua singolare caratteristica, questo albero sembra stagliarsi giù verso la terra.” E la luminosa punta dell'albero, riaccende in lui i ricordi della sua infanzia. Dapprima i giocattoli, naturalmente. Ma i giocattoli appesi all'albero della memoria, che lancia intorno a sé un'ombra inquietante, nascondevano anch'essi un lato oscuro; e così l'acrobata lo fissava con i suoi infidi “occhi d'aragosta”, dalla tabacchiera sbucava un demoniaco pupazzo in toga nera, che lo perseguitava perfino nei sogni. Ma la cosa che più lo terrorizzava era una “spaventosa maschera” che con in suoi occhi vacui e i suoi lineamenti immobili evocava quella “... remota suggestione e la paura di quel cambiamento universale che è destinato a scendere sul volto di tutti noi e renderlo immobile.” Solo un profondo conoscitore dell'animo infantile poteva intuire le profonde malinconie e le oscure paure dei bambini di fronte ai misteri della vita e della morte.
Ma sull'albero ci sono anche le favole care all'infanzia, da Cappuccetto Rosso alle Mille e una Notte, e i toy theatres, (teatrini di carta venduti in appositi kit da ritagliare e incollare) dove venivano rappresentate storie edificanti e lacrimevoli che hanno lasciato in eredità all'adulto l'amore per il teatro vero. Ed ecco avanzare sull'albero i Waits, con i loro canti natalizi ispirati al Vangelo. Ed è nella sequenza di scene ispirate alla vita di Gesù, che il narratore sembra ritrovare il genuino spirito natalizio, fatto di amore e carità.
Ma subito dopo al sacro si contrappone il profano dei racconti d'inverno intorno al focolare “- o meglio, storie di fantasmi -” E qui Dickens, che ha spesso usato il soprannaturale nei suoi racconti, si diverte a fare una lunga casistica delle tipiche situazioni da ghost stories prendendo bonariamente in giro gli amanti di questo genere. Ma è Natale, si sa, e anche questo fa parte della tradizione.
Ora il racconto volge alla fine, e il narratore scruta tra i rami più bassi, mentre l'albero inizia a svanire. Il suo pensiero ritorna a “occhi che io ho amato e che sono volati via per sempre.” Ma il ricordo della figura salvifica di Gesù, già evocata dai canti dei Waits, ritorna ad illuminare il Natale con la luce della speranza, spariscono le ombre e ritornano i giochi dei bambini intorno all'albero, “Possano essere per sempre innocenti e benvenuti, sotto i rami dell'albero di Natale, che non ha più ombre tetre!” E il narratore stesso, si augura di rivolgersi al Cristo “...col cuore di un bambino, e con la confidenza e la fiducia di un bambino!”
Ed è nelle parole del Cristo che Dickens ritrova lo spirito più genuino del Natale, “Fate questo in memoria della legge dell'amore e della gentilezza, pietà e misericordia. Fate questo in memoria di me!”







Un albero di Natale
di
Charles Dickens (1850)



Ho trascorso la sera ad osservare un'allegra compagnia di bambini riuniti intorno a quel grazioso giocattolo tedesco, l'albero di Natale. L'albero era piantato al centro di un grande tavolo rotondo e torreggiava sopra le loro teste. Risplendeva della luce di una moltitudine di candeline, ed era tutto uno scintillio di oggetti brillanti. C'erano bambole dalle guance rosa, che facevano capolino da dietro le grandi foglie verdi, e c'erano dei veri orologi (quantomeno, le lancette si muovevano e potevano essere caricati all'infinito) che dondolavano da innumerevoli rami, c'erano tavolini francesi tirati a lucido, sedie, lettini, armadi, orologi a corda, e vari altri pezzi di arredamento (tutti di latta, meravigliosamente costruiti a Wolverhampton), appollaiati tra i rami, come ad apparecchiare una casa di fata; c'erano omini dai faccioni allegri, dall'aspetto molto più gradevole di tanti uomini in carne ed ossa e non c'era da meravigliarsi, perché staccando loro la testa, si scopriva che erano pieni di di prugne candite; c'erano violini e tamburi e tamburini; libri, scatole da lavoro, scatole di colori, scatole di dolciumi, scatole prospettiche e tutti i tipi di scatole; c'erano ninnoli per le ragazze più grandi, di gran lunga più brillanti dell'oro e dei gioielli degli adulti; c'erano cestini e puntaspilli di tutti i tipi; c'erano fucili, spade e stendardi; c'erano magici girotondi di streghe di cartapesta; c'erano trottoline, trottole, porta aghi, pulisci penna, bottiglie di sali, carte di conversazione, porte-bouquet; frutta vera, resa artificialmente scintillante da involucri dorati; mele, pere e noci finte, piene zeppe di sorprese; in breve, come sussurrò deliziato un grazioso bambino di fronte a me a un altro grazioso bambino, suo amichetto del cuore, “C'era di tutto e di più.” Questa eterogenea collezione di oggetti bizzarri, che pendeva dall'albero in grappoli di magica frutta e i cui bagliori riflettevano gli sguardi luminosi provenienti da ogni parte – alcuni di quegli occhi di diamante persi in ammirazione arrivavano a malapena al tavolo, mentre altri si struggevano di timido stupore in braccio alle loro graziose madri, zie e bambinaie – era una vivida realizzazione delle fantasie infantili e mi hanno indotto a pensare che gli alberi e tutte le cose che esistono su questa terra hanno i loro fantastici ornamenti in quel tempo evocato con tanta nostalgia.