“Non so con quali armi si combatterà la Terza guerra mondiale,
ma la Quarta sì: con bastoni e pietre.”
Albert Einstein
Un umano ed un alieno si fronteggiano, completamente nudi e disarmati, su di un misterioso pianeta azzurro. A portali su quell’emisfero blu, arido e bollente, è stata una misteriosa quanto onnipotente Entità, che li ha scelti come campioni delle loro specie: essi si scontreranno in duello, e il vincitore decreterà la salvezza della propria flotta astrale e la totale distruzione di quella avversaria, altrimenti le due specie saranno egualmente condannate: i vinti all’estinzione, i vincitori a regredire ad uno stato primitivo. L’esito del duello non sarà deciso dalla forza fisica ma dalla volontà di sopravvivere e dalla capacità di sfruttare le poche risorse che quell’ambiente estraneo, quell’inferno blu, è in grado di offrire.
Fredric Brown (Cincinnati, Ohio, 1906-72) firma Arena (o Il duello) un grande classico della fantascienza, dal quale nel 1967 Gene L. Coon trarrà (molto liberamente) l'omonimo episodio di Star Trek.
Certo all’epoca Brown non poteva immaginare che la fine del conflitto sarebbe stata decretata dalla bomba atomica sganciata su Hiroshima il 6 agosto dell’anno successivo, il 1945, ma le modalità di combattimento descritte nel racconto mi hanno riportato alla mente le parole di Albert Einstein, che pure fu uno dei padri dell’atomica, ma ciò non gli impedì di essere un convinto pacifista e di mettere in guardia l’umanità contro la fatale eventualità di una guerra atomica, che avrebbe riportato l’umanità alla preistoria.
🚀Sul sito Savage Tales è possibile visionare le diverse versioni comics del racconto di Brown e quella di Star Treck
Arena
di
Frederic Brown
Carson aprì gli occhi e si trovò a guardare in alto attraverso il baluginio di una penombra blu. Faceva caldo, e lui era disteso sulla sabbia e uno spuntone roccioso che sporgeva dalla sabbia gli feriva la schiena. Si rotolò su di un lato, lontano dalla roccia, e poi si tirò su a sedere. “Sono impazzito,” pensò. “Impazzito… o morto… o qualcosa del genere.” La sabbia era blu, un blu brillante. E non c’era niente di simile sulla Terra o su qualunque altro pianeta. Sabbia blu sotto una volta blu, che non era il cielo e neanche una stanza, ma un’area circoscritta… in qualche modo sapeva che era circoscritta e limitata anche se non riusciva a vederne la sommità.
Raccolse un po’ di sabbia nella mano e la lasciò scorrere tra le dita. Scivolò giù sulla sua gamba nuda. Nuda? Era completamente nudo, e il suo corpo, a causa di quel caldo snervante, era bagnato di sudore ed era ricoperto di sabbia blu dovunque la sabbia lo avesse toccato. Nelle altre parti il suo corpo era bianco. Pensò: allora questa sabbia è proprio blu. Se sembrasse blu solamente a causa della luce blu, allora anche io dovrei essere blu. Ma sono bianco, perciò la sabbia è blu. Sabbia blu: non esiste la sabbia blu. Non c’è nessun posto come il posto in cui mi trovo. Il sudore gli colava negli occhi. Faceva caldo, più caldo che all’inferno. Soltanto che l’inferno – l’inferno degli antichi – avrebbe dovuto essere rosso, non blu.
Ma se quel posto non era l’inferno, allora cos’era? Soltanto Mercurio, tra tutti i pianeti, era bollente come questo e questo non era Mercurio. E Mercurio era a circa quattro miliardi di miglia lontano da… Da dove? Allora gli ritornò in mente dove si trovava prima: nel piccolo ricognitore monoposto, fuori dall’orbita di Plutone, in ricognizione di appena un milione di miglia su di un fianco dell’Armata terrestre che era lì in formazione di battaglia per intercettare gli Esterni. Quell’improvviso suono stridente del campanello di allarme quando il ricognitore nemico – la nave esterna – era arrivata nel raggio d’azione dei sui rilevatori! Nessuno sapeva chi fossero gli esterni, che aspetto avessero o da che parte della galassia provenissero, se non che questa fosse all’incirca nella direzione delle Pleiadi.
All’inizio, c’erano state delle sporadiche incursioni contro le colonie terrestri e gli avamposti, battaglie isolate tra le pattuglie terrestri e piccoli gruppi di navi aliene; battaglie a volte vinte e a volte perse, ma che non si erano mai concluse con la cattura di un vascello nemico. Né mai un membro delle colonie attaccate era sopravvissuto per descrivere gli Esterni usciti dalle navi, ammesso che ne fossero usciti. Una minaccia non troppo seria, all’inizio, perché le incursioni non erano state numerose o devastanti. E prese singolarmente, le navi erano risultate leggermente inferiori per armamento rispetto ai migliori veicoli da combattimento terrestri, anche se alquanto superiori per velocità e manovrabilità. Un margine di velocità, in effetti, sufficiente a dare agli Esterni la scelta di fuggire o combattere, a meno che non fossero circondati.
La battaglia delle battaglie, sul piatto c’era il predominio del sistema solare, da giocarsi alla pari. L’ultima e unica possibilità, perché la Terra e tutta le sue colonie sarebbero state alla completa mercé degli Esterni se questi avessero avuto il sopravvento… Oh, sì. Bob Carson ricordava adesso. Ricordava il rumore stridente del campanello d’allarme e il suo salto verso il pannello di controllo. Il suo frenetico armeggiare con la cintura mentre si assicurava al sedile. Il puntino nel visore che diventava sempre più grande. La bocca secca. La spaventosa consapevolezza che era giunto il momento per lui, almeno, anche se le flotte principali erano ancora fuori portata l’una dell’altra. Eccolo, il suo primo assaggio della battaglia! Entro tre secondi, o meno, sarebbe stato il vincitore, o ridotto in cenere.
Un solo colpo bastava per un veicolo monoposto con armamento leggero e poco corazzato come un ricognitore. Freneticamente – mentre le sue labbra accennavano la parola ‘Uno’ - lavorò ai controlli per mantenere quel puntino sempre più grande al centro del reticolo di puntamento del suo visore. Mentre le mani erano occupate in questa manovra, il piede destro era sospeso sul pedale che avrebbe fatto fuoco. Un singolo colpo di una potenza concentrata come l’inferno che che doveva centrare il bersaglio a tutti i costi… altrimenti. Non ci sarebbe stato tempo per un secondo colpo. “Due.” Non si rese nemmeno conto di averlo detto. Il puntino nel visore adesso non era più un puntino.
Distante soltanto qualche migliaio di miglia, nell’ingrandimento della piastra appariva come se fosse soltanto a qualche centinaio di metri. Era un piccolo ricognitore veloce, grande quasi quanto il suo. Una nave aliena, benissimo! “Tr...” Il piede toccò il pedale che rilasciava la scarica. E allora l’Esterno aveva virato bruscamente ed era sparito dal mirino. Carson pigiò freneticamente i comandi, per inseguirlo. Per un decimo di secondo, lo scafo alieno fu completamente fuori dal suo visore e poi, mentre il naso del suo ricognitore virava per inseguirlo, lo vide di nuovo, che puntava dritto verso il suolo. Il suolo? Era un’illusione ottica di qualche tipo.
Doveva esserlo: quel pianeta – o qualunque cosa fosse – che adesso occupava completamente il visore, non poteva essere lì. Assolutamente no. Non c’era nessun pianeta più vicino di Nettuno, lontano tre miliardi di miglia, con Plutone sul lato opposto rispetto al remoto punto luminoso del sole. I suoi rilevatori! Non avevano mostrato prima, né tanto meno adesso, alcun oggetto di dimensioni planetarie, nemmeno delle dimensioni di un asteroide. Non poteva essere lì, quel qualunque-cosa-fosse verso cui si stava tuffando, soltanto qualche centinaio di miglia sotto di lui.
Nella sua improvvisa preoccupazione di evitare lo schianto, dimenticò la nave esterna. Fece esplodere i razzi frenanti anteriori, e perfino quando l’improvviso cambiamento di velocità lo scagliò contro le cinture di sicurezza, azionò i retrorazzi a destra per una virata d’emergenza. Li azionò fino in fondo e continuò a tenere premuto i comandi, sapendo che aveva bisogno di tutta la potenza della nave per evitare di schiantarsi e che una brusca virata gli avrebbe fatto perdere i sensi per un momento. E così fu. Poi più niente.
La gravità sembrava un po’ più alta che sulla Terra. Non molto di più. Una pianura sabbiosa si stendeva tutto intorno, qua e là alcuni scheletrici arbusti formavano dei cespugli. Anche gli arbusti erano blu, ma di diverse tonalità, alcuni più chiari della sabbia blu, altri più scuri. Da sotto il cespuglio più vicino sbucò una creaturina simile ad una lucertola, salvo che aveva più di quattro zampe. Anche quella era blu. Un blu brillante. Appena lo vide, corse a rintanarsi sotto il cespuglio. Carson guardò di nuovo in alto, cercando di decidere cosa ci fosse sopra la sua testa.
Non
era esattamente un soffitto, ma aveva la forma di una cupola. Era
tremolante e difficile da guardare. Ma decisamente, curvava giù fino
a terra, fino alla distesa di sabbia blu, tutto intorno a lui. Non
era molto lontano dall’essere al centro di quella cupola. A spanne,
si trovava ad un centinaio di metri dalla parete più vicina, ammesso
che fosse una parete. Era come se una semisfera blu di un qualcosa
con una circonferenza di circa duecentocinquanta metri fosse stata
rovesciata su una piatta distesa sabbiosa. E tutto era blu, ad
eccezione di un oggetto. Lontano da lui, a ridosso di una parete
curva, c’era un oggetto rosso. Era più o meno sferico, e sembrava
avere un diametro di circa un metro.
“Vagando tra gli spazi e le dimensioni,” così risuonavano le parole nella sua mente, “e in questo spazio e in questo tempo, trovo due popoli che stanno per sterminarne uno e così indebolire l’altro al punto che questo regredirebbe senza poter realizzare il proprio destino, ma decadrebbe e ritornerebbe alla polvere bruta da cui era sorto. E io dico che questo non deve succedere.”
“Chi… cosa sei?” Carson non lo disse ad alta voce, ma la domanda fu formulata nel suo cervello.
“Non comprenderesti fino in fondo. Io sono...” Ci fu una pausa, come se la voce cercasse – nel cervello di Carson – una parola che non conosceva.
“Io sono la fine dell’evoluzione di una razza così vecchia che il tempo non potrebbe essere espresso in parole che abbiano senso per la tua mente. Una razza che si è fusa in una singola entità, eterna. Un’entità come quella in cui la tua razza primitiva potrebbe evolversi...” - di nuovo alla ricerca di una parola - “in futuro. Così potrebbe la razza che tu chiami, nella tua mente, Esterni. Così intervengo nella battaglia imminente, la battaglia tra flotte di potenza tanto eguale che ne risulterebbe la distruzione delle due razze. Una deve sopravvivere. Una deve progredire ed evolversi.”
“Una?” pensò Carson. “La mia o...”
“E’ in mio potere fermare la guerra, rimandare gli Esterni alla loro galassia. Ma ritornerebbero, oppure, prima o poi, la vostra razza li seguirebbe fin là. Soltanto restando in questo spazio-tempo, intervenendo costantemente, potrei impedire di distruggervi a vicenda, e io non posso rimanere. Così devo intervenire adesso. Eliminerò una flotta, senza perdite per l’altra. In questo modo, una civiltà sopravviverà.”
Un incubo. Questo doveva essere un incubo, pensò Carson.
Ma sapeva che non lo era. Era troppo folle, troppo improbabile, per non essere vero. Non osò chiedere… quale? Ma i suoi pensieri lo chiesero per lui.
“Sopravviverà la più forte,” disse la voce.
“Questo non posso - e nemmeno vorrei – cambiarlo. Io intervengo al solo scopo di rendere definitiva questa vittoria, non...” di nuovo si mise a cercare - “non una vittoria di Pirro per una razza stremata.
“Dalla periferia della futura battaglia ho preso due individui, tu ed un Esterno. Vedo nella tua mente, che nella vostra storia passata, fatta di nazionalismi, lotte fra campioni per decidere la sorte di due popoli non erano sconosciute.
“Tu ed il tuo avversario siete qui contrapposti l’uno all’altro, nudi e disarmati, in situazioni egualmente sconosciute ad entrambi, egualmente spiacevoli per entrambi. Non ci sono limiti temporali, perché qui il tempo non esiste. Il sopravvissuto sarà il campione della sua razza. Quella razza sopravviverà.”
“Ma...” la protesta di Carson era troppo confusa per poter essere espressa, tuttavia la voce rispose.
“Sarà un combattimento leale. Le condizioni sono tali per cui la disparità di forza fisica non ne condizionerà del tutto l’esito. C’è una barriera. Poi capirai. L’intelligenza e il coraggio saranno più importanti della forza. Principalmente il coraggio e cioè la volontà di sopravvivere.”
“Ma, nel frattempo, le flotte...”
“No, siete in un altro spazio-tempo. Perché finché resterete qui, il tempo nell’universo che conoscete si fermerà. Vedo che ti stai chiedendo se questo posto è reale. Lo è e non lo è. La mia esistenza è mentale e non fisica. Mi hai visto sotto forma di pianeta, avrebbe potuto essere un granello di sabbia o un sole. Ma per te questo posto adesso è reale. Quello che ti succederà qui sarà reale. E se morirai qui, la tua morte sarà reale. Se morirai, sarà la fine della tua razza. Ti basti sapere questo”
E poi la voce sparì.
Era di nuovo solo, ma non del tutto. Perché, nel sollevare lo sguardo, Carson vide che la cosa rossa, la sfera di orrore che, ora lo sapeva, era l’Esterno, stava rotolando verso di lui.
Rotolando...
Sembrava che non avesse gambe o braccia visibili, niente lineamenti. Rotolava sulla la sabbia con la liquida rapidità di una goccia di mercurio. Ed emanava, in una maniera che non riusciva a capire, un’ondata nauseante di odio. Carson si guardò freneticamente intorno. Una pietra, che giaceva sulla sabbia a pochi passi da lui, era la cosa più vicina ad un’arma. Non era grande, ma aveva i bordi appuntiti, come una scheggia di selce. Rassomigliava un poco ad una selce blu. La raccolse e si accovacciò per fronteggiare l’attacco. Si avvicinava velocemente, più velocemente di quanto lui potesse correre.
Non
c’era tempo per pensare a come affrontarla; in ogni modo, come
poteva pianificare un duello con una creatura di cui non conosceva la
forza, le caratteristiche e il modo di battersi? Rotolando così
velocemente, rassomigliava più che mai ad una sfera perfetta. Dieci
metri. Cinque. E poi si fermò. O meglio, fu fermata.
Improvvisamente, il lato di fronte a lui si appiattì, come se fosse
andato a sbattere contro un muro invisibile. Rimbalzò, in effetti,
rimbalzò all’indietro. Allora, rotolò di nuovo in avanti, ma più
lentamente. Si fermò di nuovo, nello stesso punto. Ci riprovò,
spostandosi lateralmente di qualche metro.
C’era una barriera, lì, di qualche sorte. Allora, nella mente di Carson, di colpo tornò quel pensiero proiettato dall’Entità che li aveva portati lì: ‘La disparità di forza fisica non ne condizionerà del tutto l’esito. C’è una barriera.’ Un campo di forze, naturalmente. Non il campo netziano, noto alla scienza terrestre, perché quello emetteva un bagliore ed un crepitio. Questo era invisibile, silenzioso. Era un muro che correva da un lato all’altro di quella semisfera capovolta; Carson non ebbe bisogno di accertarsene personalmente.
Lo stava facendo quella creatura rotolante, avanzando lateralmente lungo la barriera, alla ricerca di una breccia che non c’era. Carson avanzò a tentoni per una mezza dozzina di passi, con la mano sinistra tesa davanti a sé, finché toccò la barriera. Era liscia e cedevole, come un foglio di gomma piuttosto che una lastra di vetro. Era calda al tatto, ma non più calda della sabbia sotto i suoi piedi. Ed era completamente invisibile, anche a distanza ravvicinata. Lasciò cadere la pietra, vi appoggiò entrambe le mani e spinse. Sembrava che cedesse, appena un’inezia, ma non oltre, nemmeno quando spinse con tutto il suo peso. Era come un foglio di gomma con un’anima di acciaio.
Elasticità limitata e poi una ferma resistenza. Si sollevò sulla punta dei piedi e arrivò quanto più in alto possibile, e la barriera era ancora lì. Vide il Rotolante tornare indietro, dopo essere arrivato ad un’estremità dell’arena. Carson fu di nuovo investito da quella sensazione di nausea e si allontanò dalla barriera mentre passava. L’altro non si fermò.
Ma la barriera finiva al livello del suolo?
Carson si inginocchiò e scavò una buca nella sabbia: era soffice leggere e facile da scavare. E alla profondità di mezzo metro la barriera era ancora lì. Il Rotolante stava ritornando. Naturalmente, non era riuscito a trovare un varco su nessuno dei due lati. Deve esserci un varco, pensò Carson, altrimenti questo duello non ha senso.
Adesso il Rotolante era tornato e si era fermato dall’altro lato della barriera, a solo due metri di distanza. Sembrava che lo stesse studiando, anche se, per quanto si sforzasse, Carson non riusciva a scoprire segni esteriori di organi sensoriali su quella cosa. Niente che rassomigliasse a occhi o orecchie, o almeno a una bocca. Ma c’era, come poté osservare, una serie di solchi, forse un dozzina in tutto, e vide due tentacoli uscire da due di quei solchi e affondare nella sabbia come a testarne la consistenza. Avevano un diametro di circa tre centimetri e forse erano lunghi mezzo metro.
I tentacoli erano retrattili ed erano alloggiati nei solchi, salvo quando venivano usati. Si ritrassero quando la cosa iniziò a rotolare e sembrava che non avessero niente a che fare con il suo metodo di locomozione. Quello, per quanto poté capire Carson, sembrava essere implementato da un qualche spostamento – come, non riuscì ad immaginarlo – del suo centro di gravità. Rabbrividì, mentre guardava quella cosa. Era aliena, orribilmente diversa da ogni cosa sulla Terra o da ogni altra forma di vita trovata sugli altri pianeti solari. Istintivamente, si rese conto che anche la sua mente era aliena come il corpo. Se riusciva a proiettare quell’ondata di odio quasi tangibile, forse poteva anche leggergli nella mente, almeno per quello che serviva al suo scopo.
Carson raccolse ostentatamente la pietra che era stata la sua unica arma, quindi la lanciò di nuovo a terra con un gesto di rifiuto e alzò davanti a sé le mani vuote, con il palmo in su. Parlò ad alta voce, sapendo che, sebbene le sue parole non avrebbero avuto senso per la creatura di fronte a lui, pronunciandole avrebbe focalizzato i suoi pensieri sul contenuto.
“Non possiamo fare pace fra di noi?” disse, e la sua voce risuonava strana in quel silenzio.
“L’Entità che ci ha portato qui ci ha detto quali saranno le conseguenza inevitabili se le nostre razze si combatteranno – l’estinzione per una e la decadenza e la totale regressione per l’altra. L’esito della battaglia tra i due schieramenti, ha detto l’Entità, dipende da quello che faremo qui.
Perché non possiamo concordare una pace eterna – la tua razza nella sua galassia, noi nella nostra?”
Carson cacciò ogni pensiero dalla sua mente per ricevere una risposta. Che arrivò, e lo fece barcollare all’indietro, fisicamente. Balzò alcuni passi indietro, preso da un orrore cieco a causa dell’intensa sete di sangue contenuta nelle rosse immagini proiettate contro di lui. Per un momento, che sembrò un’eternità, dovette lottare contro l’impatto di quell’odio, combattendo per liberare la sua mente e scacciare i pensieri alieni a cui aveva dato accesso. Gli veniva da vomitare. La sua mente, gradualmente, ritornò libera. Respirava a fatica e si sentiva molto debole, ma riusciva a pensare. Si fermò a studiare il Rotolante.
Era rimasto immobile durante il duello mentale che aveva quasi vinto. Poi rotolò lateralmente per qualche metro, fino al più vicino arbusto blu. Tre tentacoli schizzarono fuori dai loro solchi e iniziarono ad analizzare il cespuglio.
“O.K.,” disse Carson, “è guerra, allora.” E accennò un sorriso. “Se ho capito bene la tua risposta, la pace non ti interessa.” E, poiché, dopo tutto, era giovane e non riuscì a resistere all’impulso di drammatizzare, aggiunse, “Fino alla morte!” Ma la sua voce, in quel silenzio assoluto, suonò sciocca perfino a lui. Ma si rese subito conto che quel combattimento sarebbe stato fino alla morte, non solo la sua o di quella sferica cosa rossa che egli chiamava il Rotolante, ma la morte dell’intera razza dell’uno o dell’altro: la morte dell’umanità, se avesse fallito.
Quel pensiero lo rese immediatamente molto umile e molto spaventato. Con una certezza perfino superiore alla fede, sapeva che l’Entità che aveva organizzato quel duello aveva detto la verità riguardo alle sue intenzioni e ai suoi poteri.
Il futuro dell’umanità dipendeva da lui.
Era una cosa spaventosa da realizzare. Doveva concentrarsi sul da farsi. Ci doveva essere un modo per oltrepassare la barriera, o per uccidere attraverso la barriera. Mentalmente? Si augurò che non fosse l’unico modo, perché, ovviamente, il Rotolante aveva poteri telepatici più forti di quelli sottosviluppati della razza umana. O forse no? Era stato capace di scacciare i pensieri del Rotolante fuori dalla sua mente, il Rotolante poteva scacciare i suoi? Se la sua capacità di proiettare i pensieri era più forte, forse il suo meccanismo di ricezione era più vulnerabile.
Si mise a fissarlo e si sforzò di concentrare e focalizzare tutti i suoi pensieri sull’alieno. “Muori,” pensò. “Stai per morire, stai morendo. Sei...” Provò diverse variazioni e immagini mentali. Il sudore gli imperlava la fronte e si trovò a tremare per l’intensità dello sforzo. Ma il Rotolante continuava a studiarsi il cespuglio, completamente indifferente, come se Carson gli avesse recitato le tabelline. Quel sistema non funzionava. Aveva le vertigini per il caldo soffocante e per lo strenuo sforzo di concentrazione. Si sedette sulla sabbia blu e dedicò tutta la sua attenzione allo studio del Rotolante.
Studiandolo bene, forse, avrebbe potuto valutare la sua forza e scoprire le sue debolezze, imparare le cose che sarebbero state utili conoscere quando, e se, si fosse arrivati ad uno scontro ravvicinato. Quello continuava a spezzare ramoscelli. Carson osservava attentamente, per cercare di capire quanta fatica gli ci volesse. Più tardi, pensò, avrebbe potuto trovare un cespuglio simile dalla sua parte della barriera, spezzare ramoscelli di eguale spessore e arrivare ad una comparazione tra la forza fisica delle sue braccia e delle sue mani e quei tentacoli.
I ramoscelli si spezzavano con difficoltà; il Rotolante stava avendo il suo daffare con ognuno di essi. Ogni tentacolo, come poté vedere, si biforcava all’estremità in due dita, ognuna terminava con un’unghia o meglio, un artiglio. Gli artigli non sembravano essere lunghi o pericolosi, non più delle sue unghie, se le avesse lasciate crescere un poco. No, nel complesso, non sembrava che fosse difficile affrontarlo fisicamente. A meno che, naturalmente, quel cespuglio non fosse fatto di una materia particolarmente dura. Carson si guardò intorno, non lontano c’era un altro cespuglio, proprio dello stesso tipo. Ne strappò un ramoscello. Era fragile, facile da rompere. Naturalmente, il Rotolante avrebbe potuto fingere a bella posta, ma non lo credeva. D’altro canto, in che punto era vulnerabile? Come avrebbe potuto ucciderlo, se ne avesse avuto l’occasione? Riprese ad osservarlo. La pelle che lo ricopriva sembrava molto dura, gli sarebbe servito qualcosa da usare come arma. Raccolse di nuovo il pezzo di roccia. Era lungo circa trenta centimetri, stretto, con un’estremità abbastanza appuntita. Se si scheggiava come una selce, ne poteva ricavare un coltello adatto allo scopo.
Il Rotolante continuava ad analizzare i cespugli. Rotolò di nuovo, fino a quello più vicino, ma di un altro tipo. Una piccola lucertola blu, con molte zampe come quella che Carson aveva visto dalla sua parte della barriera, sfrecciò da sotto il cespuglio. Il rotolante schioccò fuori un tentacolo e la catturò, poi la tirò su. Fece uscire un altro tentacolo e iniziò a strappare le zampe della lucertola, con la stessa freddezza con cui aveva strappato i ramoscelli del cespuglio. La creaturina si dibattè freneticamente emettendo un acuto squittio che fu il primo suono che Carson avesse udito lì.
Carson si sforzò di continuare a guardare: tutto quello che riusciva ad imparare sul suo avversario, poteva risultare prezioso, perfino venire a conoscenza della sua inutile crudeltà – specialmente, pensò con improvvisa enfasi, venire a conoscenza della sua inutile crudeltà. Questo avrebbe reso piacevole uccidere quella cosa, se e quando se ne fosse presentata l’occasione. Con metà delle zampe strappate, la lucertola smise di squittire. Il suo corpicino molle giacque nella stretta del Rotolante, che non proseguì con le restanti zampe ma, con fare sprezzante, lanciò la lucertola morta lontano da sé, in direzione di Carson. La lucertola descrisse un arco nell’aria e atterrò ai suoi piedi. Era riuscita ad attraversare la barriera!
La barriera, allora, non c’era più!
Carson si rimise in piedi in un lampo, il pugnale stretto fermamente nella mano, e si lanciò in avanti. Doveva sistemare la cosa qui e ora!
Sparita la barriera… ma non era sparita!
Lo scoprì nel modo peggiore, correndoci contro a testa bassa e rimanendo quasi inebetito per il colpo. Rimbalzò indietro e cadde. Mentre si metteva a sedere, scuotendo la testa per schiarirsi le idee, vide qualcosa arrivare attraverso l’aria nella sua direzione e si gettò lungo disteso sulla sabbia, girandosi di lato. Riuscì a scansarsi quasi del tutto, ma ci fu un improvviso e acuto dolore nel polpaccio della gamba destra. Rotolò all’indietro, ignorando il dolore, e scattò in piedi. Era stata una pietra, come vide, a colpirlo.
E il Rotolante ne stava raccogliendo un’altra, facendola oscillare ben stretta tra due tentacoli tesi all’indietro, pronto a lanciare di nuovo. Il sasso volò attraverso l’aria verso di lui, ma riuscì a spostarsi di lato. Il Rotolante, apparentemente, riusciva a lanciare in linea retta, ma con poca forza e poco lontano. La prima pietra lo aveva colpito solo perché era seduto e non l’aveva vista arrivare finché non lo aveva quasi raggiunto. Appena sfuggito a quel secondo debole tiro, Carson spinse il suo braccio destro all’indietro e scagliò la pietra che era ancora nella sua mano. Se le pietre, pensò eccitato, possono attraversare la barriera, allora si può giocare in due a lanciarsele. Non poteva mancare una sfera larga un metro a soli quattro metri di distanza, e non la mancò.
La pietra volò via sibilando attraverso l’aria e ad una velocità diverse volte superiore a quella dei proiettili che aveva lanciato il Rotolante. Colpì in pieno il bersaglio, ma di piatto invece che di punta. Ma colpì con un tonfo fragoroso e, naturalmente, fece male. Il Rotolante stava per prendere un altro sasso ma cambiò idea e, invece, preferì allontanarsi da lì. Prima che Carson riuscisse a prendere e a lanciare un’altra pietra, il Rotolante si era allontanato di una quarantina di metri dalla barriera e correva veloce.
Il suo secondo tiro mancò il bersaglio di oltre un metro e il terzo tiro risultò corto. Il Rotolante era fuori dalla portata di qualsiasi proiettile abbastanza pesante da fare danni. Carson ghignò. Quel round era stato suo. Smise di ghignare e si chinò per esaminare il polpaccio. Il bordo frastagliato della pietra aveva fatto un taglio lungo diversi centimetri. Sanguinava parecchio, ma non credeva che fosse andata così a fondo da colpire un’arteria. Se avesse smesso di sanguinare spontaneamente, tanto meglio. Se no, era nei guai. Una cosa, comunque, aveva precedenza sul taglio: scoprire la natura della barriera. Avanzò di nuovo verso di essa, questa volta a tentoni, con le mani tese davanti a lui. Tenendoci premuta una mano contro, vi scaglio una manciata di sabbia con l’altra mano. La sabbia passò, la mano no.
Materia organica contro materia inorganica? No, perché la lucertola morta era passata e una lucertola, viva o morta, era certamente materia organica. Vita vegetale? Spezzò un rametto e lo spinse nella barriera. Il rametto passò, senza alcuna resistenza, ma quando le dita che stringevano il rametto arrivarono alla barriera, furono fermate. Non poteva ad attraversarla, né poteva i Rotolante. Ma pietre e sabbia e una lucertola morta… E una lucertola viva invece? Andò a caccia sotto i cespugli finché ne trovò una e la catturò. La lanciò contro la barriera e quella rimbalzò indietro e zampettò via sulla sabbia blu. Questo gli diede una risposta, almeno per quel che ne sapeva al momento.
Lo schermo era una barriera per gli esseri viventi. Materia organica morta o inorganica potevano attraversarlo. Ciò assodato, Carson controllò di nuovo la gamba ferita. L’emorragia stava diminuendo e pertanto non aveva bisogno di occuparsene, bloccandola un un laccio emostatico. Ma doveva trovare dell’acqua, ammesso che ce ne fosse, per pulire la ferita.
Acqua… il solo pensiero gli fece capire che aveva una sete terribile. Doveva trovare dell’acqua, nel caso lo scontro si prolungasse troppo a lungo. Zoppicando leggermente, iniziò a fare il giro della sua metà di arena.
Guidandosi con una mano appoggiata alla barriera, camminò verso destra finché giunse alla parete ricurva dell’emisfero. Era visibile, di un opaco colore grigio-blu, visto da vicino, e la sua superficie aveva la stessa consistenza della barriera centrale. La testò gettandoci contro una manciata di sabbia, e la sabbia raggiunse la parete e sparì dopo averla attraversata. Anche il guscio semisferico era un campo di forze, ma opaco, invece che trasparente come la barriera. Lo seguì finché ritornò alla barriera, e camminando a ritroso giunse al punto di partenza.
Nessuna traccia d’acqua. Estremamente preoccupato, iniziò una serie di zig-zag, avanti e indietro tra la barriera e la parete, coprendo meticolosamente lo spazio intermedio. Niente acqua. Sabbia blu, cespugli blu e un caldo insopportabile. Niente altro. Doveva essere la sua immaginazione, si disse, il motivo per cui stava soffrendo così tanto per la sete. Da quanto tempo si trovava lì? Naturalmente, non da molto, almeno secondo il suo concetto di spazio-tempo. L’Entità gli aveva detto che all’esterno il tempo restava fermo, mentre lui si trovava lì dentro. Ma le sue funzioni fisiologiche continuavano ad andare avanti anche lì, come sempre. Secondo i segnali del suo corpo, da quanto tempo si trovava lì? Tre o quattro ore, forse. Certamente non abbastanza a lungo da soffrire la sete.
Eppure ne stava soffrendo, la sua gola era secca e inaridita. Probabilmente, quell’intenso calore ne era la causa. Era caldo, una cinquantina di gradi, forse. Un caldo asciutto, immobile, senza il minimo movimento d’aria. Zoppicava piuttosto vistosamente ed era sfinito quando completò l’inutile esplorazione del suo settore. Notò che il Rotolante rimaneva immobile e sperò che fosse esausto quanto lui. L’Entità aveva detto che le condizioni lì erano egualmente insolite e difficili per entrambi. Forse il Rotolante veniva da un pianeta dove cento gradi erano la norma, forse stava congelando mentre lui arrostiva. E forse anche l’aria era troppo densa per l’altro e troppo rarefatta per lui.
Infatti, la fatica di quell’esplorazione lo aveva lasciato senza fiato. Si rese conto che l’atmosfera lì non era molto più densa che su Marte. Niente acqua. Ciò significava tempi stretti, per lui, in ogni modo. A meno che non fosse riuscito a trovare una maniera per attraversare quella barriera o uccidere il suo nemico da dove si trovava, alla fine lo avrebbe ucciso la sete. Questo gli fece provare una sensazione di disperata urgenza, ma si costrinse a sedersi un momento per riposare, per pensare. Cosa si poteva fare lì? Niente, eppure tante cose. Le diverse varietà di cespugli, per esempio, non sembravano promettenti, ma doveva esaminarli per eventuali usi.
E la sua gamba… doveva fare qualcosa per quella, anche senza l’acqua per pulirla. Doveva poi raccogliere munizioni sotto forma di pietre e trovarne una da cui ricavare un buon coltello. Adesso la gamba gli faceva proprio male, così decise che doveva venire per prima. Un tipo di cespuglio aveva le foglie… o cose piuttosto simili alle foglie. Ne stappò una manciata e decise, dopo averle esaminate, di correre il rischio. Le usò per rimuovere la sabbia, lo sporco ed il sangue rappreso, poi fece un tampone di foglie fresche e lo legò sulla ferita con i viticci dello stesso arbusto. I viticci risultarono incredibilmente resistenti e robusti.
Erano sottili e flessibili, non riuscì a spezzarli e dovette segarli via con l’estremità affilata della selce blu. Alcuni di quelli più grossi erano lunghi più di trenta centimetri, e immagazzinò nella sua memoria, per una futura occorrenza, il fatto che un mazzo di quelli grossi, una volta intrecciati, avrebbe formato una corda molto utile. Forse sarebbe riuscito a pensare ad un uso per quella corda. Poi, si costruì un pugnale. La selce blu si scheggiava facilmente. Da un frammento lungo trenta centimetri, si modellò un’arma rozza ma letale. E con i viticci del cespuglio, si fece una cintura di corda dove infilare il suo pugnale di selce, per averlo sempre con sé, pur mantenendo le mani libere.
Ritornò
a studiare i cespugli. Ce ne erano altri tre tipi. Uno era senza
foglie, secco, friabile, piuttosto simile ad un rinsecchito
rotolacampo. Un altro era di un legno tenero, friabile, quasi fosse
marcio. Dall’aspetto e dalla consistenza sembrava che potesse fare
da eccellente accendifuoco. Il terzo tipo sembrava il più simile al
legno. Aveva delle foglie fragili che avvizzivano al tocco, ma gli
steli, sebbene corti, erano dritti e robusti. Era orribilmente,
insopportabilmente caldo. Zoppicò fino alla barriera, la toccò per
assicurarsi che fosse ancora lì. C’era. Per un po’ si fermò ad
osservare il Rotolante: si teneva a distanza di sicurezza dalla
barriera, fuori dalla portata di un eventuale lancio di pietre.
Andava in giro là in fondo, indaffarato in una qualche attività. Non riuscì a capire in che cosa. Una volta smise, si avvicinò alquanto e sembrò concentrare la sua attenzione su di lui. Carson, dovette di nuovo combattere per respingere un’ondata di nausea. Gli tirò una pietra, il Rotolante indietreggiò e ritornò alla qualunque cosa stesse facendo prima. Almeno, riusciva a tenerlo a distanza. E, pensò amaramente, gli serviva proprio a molto. Tuttavia, trascorse un paio di ore a raccogliere pietre adatte ad essere lanciate e ne fece diversi mucchi vicino al suo lato della barriera.
Ora la gola gli bruciava. Gli era difficile pensare a niente altro che all’acqua. Ma era necessario pensare al da farsi: attraversare la barriera, da sotto o da sopra, arrivare a quella sfera rossa e ucciderla, prima che quel luogo di calore e di sete uccidesse lui. La barriera toccava la parete su entrambi i lati, ma quanto si estendeva verso l’alto e quanto al di sotto della sabbia? Per un momento, la mente di Carson fu troppo confusa per pensare a come potesse scoprire almeno una delle due cose. Sedendo pigramente, sulla sabbia bollente – e nemmeno ricordava di essersi seduto – vide una lucertola blu strisciare da sotto il nascondiglio di un cespuglio verso il nascondiglio di un altro. Arrivata sotto il secondo cespuglio, si mise ad osservarlo.
Carson sogghignò, ricordando la vecchia storia dei coloni dei deserti di Marte, presa da una storia più vecchia della Terra: “Ben presto ti sentirai così solo che ti troverai a parlare con le lucertole e poi, non molto dopo, scoprirai che lucertole ti rispondono...” Avrebbe dovuto concentrarsi, naturalmente, su come uccidere il Rotolante, ma invece sorrise alla lucertola e disse, “Salve.” la lucertola fece qualche passo verso di lui. “Salve,” gli rispose quella. Carson, per un attimo, rimase senza parole, poi rovesciò la testa e scoppiò in una fragorosa risata. La gola neppure gli fece male mentre rideva: non aveva tanta sete, in fin dei conti. Perché no? E perché l’Entità che aveva concepito quell’incubo di un posto non avrebbe dovuto avere senso dell’umorismo, insieme agli altri poteri che possedeva? Lucertole parlanti, equipaggiate per rispondere nella mia lingua, se gli parlo… un tocco di classe.
Sorrise alla lucertola e disse, “Vieni qui.” Ma la lucertola si voltò e corse via, scorrazzando da un cespuglio all’altro finché scomparve.
Doveva andare dall’altra parte della barriera. Non poteva attraversarla, né scavalcarla, ma era proprio sicuro che non poteva passarci sotto? E a pensarci bene, a volte non si trova l’acqua scavando? Tutto dolorante, Carson zoppicò fino alla barriera e iniziò a scavare, tirando su la sabbia una doppia manciata alla volta. Era un lavoro lento perché la sabbia ricadeva dentro dai bordi e più andava a fondo, maggiore doveva essere il diametro della buca. Quante ore gli ci vollero, non lo sapeva, ma ad un metro e mezzo più in giù, colpì un letto di roccia: una roccia arida, senza traccia di acqua. Il campo di forze della barriera andava giù dritto fino allo strato roccioso. Strisciò fuori dalla buca e giacque ansimante, poi alzò la testa per guardare oltre la barriera e vedere cosa stesse facendo il Rotolante.
Stava
costruendo qualcosa con i rami dei cespugli, legati insieme con i
viticci, una struttura dalla forma strana, alta circa un metro e
venti e approssimativamente quadrata. Per vedere meglio, Carson si
arrampicò sul mucchio di sabbia che aveva scavato e rimase lì a
guardare. C’erano due lunghe leve che sporgevano dal lato
posteriore, una terminava con un aggeggio a forma di tazza. Sembrava
una specie di catapulta, pensò Carson. Di sicuro, il Rotolante stava
mettendo nella tazza una pietra bella grande. Per un po’, uno dei
tentacoli fece andare su e giù l’altra leva, poi girò leggermente
la macchina, aggiustando il tiro, e la leva con la pietra volò in
alto e in avanti.
La pietra curvò sopra la testa di Carson, così in alto che non dovette nemmeno accucciarsi, ma constatò la distanza che aveva percorso e fischiò piano. Lui non avrebbe potuto lanciare una pietra di quel peso che a poco più della metà della distanza. E nemmeno ritirandosi in fondo alla sua sezione di arena avrebbe potuto mettersi fuori dalla portata di quella macchina, se il Rotolante l’avesse spostata più vicino alla barriera. Un’altra pietra sibilò in alto, questa volta non così lontano. Muovendosi da un lato all’altro lungo la barriera, così che la catapulta non potesse intercettarlo, gli lanciò contro una dozzina di pietre. Ma vide che non sarebbe servito a niente. Dovevano essere pietre leggere, altrimenti non sarebbe riuscito a lanciarle così lontano. Se colpivano la catapulta, rimbalzavano senza far danno.
Il Rotolante non ebbe alcuna difficoltà a scansarsi da quelle che gli cadevano vicino. Inoltre, il braccio si stava stancando terribilmente. Gli faceva male dappertutto. Zoppicò fino in fondo all’arena. Nemmeno quello servì a niente, le pietre arrivavano fino là dietro, solamente, ad un intervallo più lungo, come se ci volesse più tempo per caricare il meccanismo, qualunque fosse, della catapulta. Stancamente, si trascinò di nuovo dietro la barriera. Cadde diverse volte e riuscì a malapena a rimettersi in piedi e a proseguire. Sapeva di essere ormai vicino al limite della sua resistenza.
Tuttavia, non osava smettere di muoversi finché, e a meno che, non fosse riuscito a mettere fuori uso quella catapulta. Se si fosse addormentato non si sarebbe mai svegliato. Una delle pietre lanciate dalla catapulta gli fece balenare un’idea. Colpì uno dei mucchi di pietre che aveva sistemato vicino alla barriera per usarli come proiettili e fece sprizzare delle scintille.
Scintille! Fuoco!
L’uomo primitivo aveva fatto fuoco provocando delle scintille e con uno di quei cespugli friabili come esca… Un arbusto di quel tipo cresceva vicino a lui. Lo sradicò e lo portò vicino al mucchio di pietre poi, pazientemente, batté una pietra contro l’altra finché una scintilla cadde sul legno secco del cespuglio. Prese fuoco così velocemente che gli bruciacchiò le sopracciglia e si ridusse in cenere nel giro di pochi secondi.
Ma adesso aveva afferrato l’idea e, in pochi minuti, aveva acceso un fuocherello al riparo del cumulo di sabbia che aveva fatto quando scavava. Gli arbusti friabili lo innescarono, gli altri cespugli, che bruciavano più lentamente, mantennero una fiamma costante. I robusti viticci non bruciavano velocemente, questo gli permise di maneggiare e lanciare facilmente le bombe incendiarie, formate da un fascio di rametti intorno ad una piccola pietra che lo appesantiva e poi legato con un cappio di viticci per rotearlo. Ne fece una mezza dozzina prima di dargli fuoco e lanciare la prima. Andò troppo in là e il Rotolante iniziò una rapida ritirata, tirandosi dietro la catapulta. Ma Carson aveva le altre pronte e le lanciò in rapida successione.
La quarta si incuneò nella struttura della catapulta e servì allo scopo. Il Rotolante cercò disperatamente di spegnere il divampare dell’incendio gettandovi della sabbia, ma i suoi tentacoli artigliati riuscivano a prenderne soltanto una cucchiaiata alla volta e i suoi sforzi furono inefficaci. La catapulta bruciò. Il Rotolante si mise al sicuro allontanandosi dal fuoco e sembrò concentrare la sua attenzione su Carson. Percepì di nuovo quell’ondata di odio e nausea – ma più debolmente: forse il Rotolante si stava indebolendo, oppure Carson aveva imparato a proteggersi contro gli attacchi mentali. Gli fece uno sberleffo e poi, con una pietra, lo rimandò indietro a mettersi in salvo di corsa. Il Rotolante andò in fondo alla sua metà di arena, e ricominciò a raccogliere arbusti. Probabilmente, voleva fare un’altra catapulta. Carson verificò che la barriera fosse ancora operativa e poi si trovò seduto lì accanto, sulla sabbia, improvvisamente troppo debole per stare in piedi. La sua gamba, adesso, pulsava ritmicamente e la sete lo tormentava in maniera insopportabile.
Ma tutto ciò impallidiva di fronte allo sfinimento fisico che si era impossessato di tutto il suo corpo. L’inferno doveva essere proprio così, pensò, l’inferno in cui credevano gli antichi. Combatté per restare sveglio, eppure restare sveglio sembrava inutile, perché non c’era niente che potesse fare fino a che la barriera rimaneva impenetrabile e il Rotolante era fuori tiro, in fondo all’arena. Cercò di ricordare quello che aveva letto nei libri di archeologia riguardo ai metodi di combattimento usati nei tempi andati, prima del metallo e della plastica. All’inizio c’erano stati i proiettili di pietra, pensò. Bene, quelli li aveva già. Arco e frecce? No, aveva provato il tiro con l’arco una volta e conosceva la sua incapacità perfino con una moderna arma sportiva in duracciaio, fatta per essere precisa.
Non potendo costruire altro in quel posto che strumenti messi insieme alla meno peggio, dubitava che potesse tirare una freccia più lontano di quanto riuscisse a lanciare una pietra. Una lancia? Beh, quella si poteva fare. Sarebbe stata inutile da lontano, ma poteva servire da vicino, se mai fosse riuscito ad avvicinarsi. Costruirne una avrebbe impedito alla sua mente di divagare, come stava iniziando a fare. Era ancora vicino ad uno dei mucchi di pietre. Si mise a cercare finché ne trovò una che rassomigliasse grosso modo ad una punta di lancia. Con una pietra più piccola iniziò scheggiarla per modellarla, ricavando delle sporgenze affilate ai lati in modo che, se fosse penetrata, non potesse uscire fuori, proprio come un arpione. Un arpione era meglio di una lancia, forse, per quel pazzo duello.
Una volta che fosse riuscito ad infilarlo nel Rotolante, e fosse legato ad una corda, avrebbe potuto tirare il Rotolante contro la barriere e la lama di pietra del suo coltello lo avrebbe raggiunto attraverso la barriera, anche se le sue mani non potevano. Fu più difficile costruire l’asta che la punta, ma incidendo e incastrando i rami più robusti dei quattro cespugli e avvolgendo le giunture con i viticci più resistenti e sottili, ottenne un’asta robusta lunga circa un metro e mezzo, e legò la punta di pietra in una tacca incisa in una delle estremità. Era un’arma rozza ma robusta. Con i viticci si fece una corda lunga lunga sette metri. Era leggera e non sembrava resistente, ma sapeva che avrebbe retto il suo peso e abbondantemente. Legò un’estremità all’asta dell’arpione e l’altra al suo polso destro.
Almeno, se lanciando l’arpione attraverso la barriera avesse sbagliato il tiro, avrebbe potuto recuperarlo. Provò a mettersi in piedi, per vedere cosa stesse facendo il Rotolante, e scoprì che non ce la faceva ad alzarsi. Al terzo tentativo, arrivò a mettersi in ginocchio e poi cadde di nuovo lungo disteso. “Devo dormire,” pensò. “Se adesso ci dovesse essere una resa dei conti, sarei perduto. Potrebbe venire qui e uccidermi, se lo sapesse. Devo recuperare un po’ di forze.” Lentamente, dolorosamente, strisciò lontano dalla barriera. Il tonfo di qualcosa che cadeva sulla sabbia vicino a lui, lo svegliò da un sogno confuso e terribile ad una realtà ancora più confusa e terribile e aprì di nuovo gli occhi in quella luce blu sopra la sabbia blu. Quanto aveva dormito? Un minuto? Un giorno? Un’altra pietra cadde più vicino e gli gettò addosso la sabbia. Si mise a sedere spingendosi da dietro con le braccia.
Si girò e vide il Rotolante alla barriera, a una ventina di metri da lui. Quando si sedette, l’alieno rotolò via velocemente, senza fermarsi finché fu il più lontano possibile. Si rese conto di essersi addormentato troppo presto, mentre si trovava ancor nel raggio di tiro del Rotolante. Vedendolo giacere immobile, quello aveva osato avvicinarsi alla barriera. Fortunatamente non aveva capito quanto lui fosse debole, o avrebbe potuto restare lì e continuare a lanciare pietre. Ricominciò a trascinarsi, questa volta si costrinse ad andare avanti il più lontano possibile, finché la parete opaca dell’involucro esterno dell’arena fu ad appena un metro. Poi, le cose scivolarono via un’altra volta...
Quando si svegliò, niente era cambiato intorno a lui, ma questa volta sapeva di aver dormito a lungo. La prima cosa di cui divenne consapevole fu l’interno della sua bocca: era secco e incrostato. La lingua era gonfia. Mentre riprendeva completamente coscienza, si rese conto che c’era qualcosa che non andava. Si sentiva meno stanco, la fase di estremo sfinimento era passata. Ma c’era il dolore, un dolore atroce. Fu solo quando tentò di muoversi che si accorse che veniva dalla sua gamba. Sollevò la testa e guardò in basso per controllare. Era gonfia sotto il ginocchio e il gonfiore era evidente anche fino a metà gamba. I viticci dei cespugli che aveva legato intorno al tampone protettivo di foglie, ora gli tagliavano la carne.
Mettere il coltello sotto quei legacci infossati sarebbe stato impossibile. Fortunatamente, il nodo finale si trovava sopra la tibia dove i viticci tagliavano meno in profondità che altrove. Alla fine, dopo molta fatica, fu in grado di disfare il nodo. Uno sguardo sotto il tampone di foglie gli rivelò la situazione peggiore: infezione e avvelenamento del sangue. Senza medicine, senza nemmeno acqua, non c’era niente che potesse fare, eccetto morire quando l’avvelenamento si fosse sparso per tutto il corpo. Sapeva di non avere speranza, a quel punto, e di essere condannato e con lui l’umanità. Sapeva che quando lui fosse morto lì dentro, fuori nell’universo anche tutti i suoi amici, l’umanità intera, sarebbero morti.
La Terra e i pianeti colonizzati sarebbero diventati la casa di quei rossi alieni rotolanti, gli Esterni. Fu quel pensiero che gli diede il coraggio di iniziare a strisciare di nuovo, quasi alla cieca, verso la barriera, spingendosi sulle braccia e sulle mani. C’era una possibilità su un milione che, arrivato lì, avrebbe avuto abbastanza forza per lanciare il suo arpione una sola volta, e con effetto mortale, se il Rotolante si fosse avvicinato alla barriera o la barriera fosse sparita. Gli ci vollero anni, gli sembrò, per arrivarci. La barriera non era sparita. Era invalicabile come quando l’aveva toccata la prima volta. Il Rotolante non era alla barriera.
Sollevandosi sui gomiti, riuscì a vederlo in fondo alla sua parte di arena, mentre lavorava su di una struttura di legno che era il duplicato finito a metà della catapulta che lui aveva distrutto. Adesso l’alieno si muoveva lentamente. Senza dubbio, anche lui si era indebolito. Carson dubitò che gli sarebbe mai servita quella seconda catapulta. Pensò che sarebbe morto prima che fosse finita. La mente gli vacillò per un attimo, perché si scoprì a battere i pugni contro la barriera preso da una futile rabbia, e si costrinse a fermarsi. Chiuse gli occhi e provò a calmarsi. “Salve,” disse una voce. Era una vocina sottile.
Aprì gli occhi e girò la testa. Era una lucertola. “Va via,” avrebbe voluto dire Carson. “Va via, tu non sei veramente qui, oppure sei qui ma non stai parlando realmente. Sto di nuovo immaginando le cose.” Ma non riuscì a parlare, la gola e la lingua erano oltre ogni possibilità di profferire parola a causa della loro secchezza. Chiuse di nuovo gli occhi. “Ferita,” disse la voce. “Uccidi. Ferita… uccidi. Vieni.” Aprì di nuovo gli occhi. La lucertola blu dalle dieci zampe era ancora lì. Corse un poco più avanti lungo la barriera, tornò indietro, ripartì di nuovo e di nuovo tornò indietro. Ovviamente, voleva che Carson la seguisse lungo la barriera. Lui chiuse di nuovo gli occhi. La voce persisteva. Sempre quella tre parole senza senso. Ogni volta che apriva gli occhi, correva via e tornava indietro. “Ferita. Uccidi. Vieni.”
Carson grugnì. Dal momento che non ci sarebbe stata pace a meno che non seguisse quella cosa, si trascinò dietro di essa. Un altro suono, un acuto squittio, gli arrivò alle orecchie. C’era qualcosa che giaceva nella sabbia, contorcendosi e squittendo. Una cosa piccola, blu, che rassomigliava ad una lucertola. Vide che era la lucertola a cui il Rotolante aveva strappato le zampe, tanto tempo fa. Non era morta, era ritornata in vita e si contorceva e urlava nelle sua agonia. “Ferita,” disse l’altra lucertola. “Ferita. Uccidi. Uccidi.” Carson capì. Sfilò il coltello dalla cintura e uccise quella creatura torturata. La lucertola viva corse via. Carson ritornò alla barriera.
Vi appoggiò contro le mani e la testa e rimase a guardare il Rotolante, laggiù in fondo, che stava lavorando alla nuova catapulta. “Potrei arrivare fin là,” pensò, “se potessi passare. Se potessi passare, potrei ancora vincere. Anche lui sembra indebolito. Potrei...” E allora ci fu un altro attacco di disperazione, quando il dolore sopraffece la volontà e lui desiderò di essere morto, invidiando la lucertola che aveva appena ucciso, perché non doveva più vivere e soffrire. Stava spingendo la barriera con il palmo delle mani quando notò le sue braccia, quanto fossero magre e ossute... Doveva veramente essere rimasto lì a lungo, per essere diventato così magro. Ci fu un momento di completa isteria, poi venne il tempo della calma e della riflessione.
La lucertola che aveva appena ucciso aveva attraversato la barriera, ancora viva. Era arrivata dalla parte del Rotolante, il Rotolante le aveva strappato le zampe e poi l’aveva lanciata sprezzantemente contro di lui, ed era arrivata attraverso la barriera. Non era morta, soltanto priva di sensi. Una lucertola viva non poteva attraversare la barriera, ma una priva di sensi sì. La barriera, allora, non era una barriera per la carne viva, ma per quella cosciente. Era uno schermo mentale, un ostacolo mentale. Con quel pensiero in testa, Carson iniziò a strisciare lungo la barriera per mettere in atto la sua ultima disperata scommessa, una speranza così remota che solo un uomo morente avrebbe osato provarci.
Si mosse lungo la barriera fino alla montagnola di sabbia, alta poco più di un metro, che aveva ammucchiato mentre tentava – quanti giorni fa? - di scavare sotto la barriera o di arrivare all’acqua. La montagnola si trovava proprio a ridosso della barriera, e uno dei due versanti, quello più in là, era per metà su di un lato della barriera e per metà sull’altro. Dopo aver preso con sé una pietra dal mucchio lì vicino, si arrampicò in cima alla duna e si distese contro la barriera, così che se la barriera fosse stata tolta, sarebbe rotolato giù lungo il breve versante, in territorio nemico. Controllò per essere sicuro che il coltello fosse nella cintura di corda, che l’arpione fosse nell’incavo del braccio e che la fune di sette metri fosse legata intorno ad esso e al suo polso. Poi, con la mano destra sollevò la pietra con cui voleva colpirsi alla testa.
La fortuna avrebbe dovuto assisterlo con quel colpo: avrebbe dovuto essere abbastanza forte da renderlo incosciente, ma non abbastanza forte da renderlo incosciente troppo a lungo. Ebbe la sensazione che il Rotolante lo stesse osservando, così lo avrebbe visto rotolare giù attraverso la barriera e sarebbe venuto a controllare. Lo avrebbe creduto morto, sperava… pensò che probabilmente l’alieno aveva tratto le sue stesse conclusioni sulla natura della barriera. Si colpì.
Il dolore gli fece riprendere conoscenza, un dolore improvviso, acuto sul fianco e che era diverso dal dolore alla testa e alla gamba. Riflettendo sulla situazione prima di colpirsi, aveva anticipato proprio quel dolore, ci aveva perfino sperato, e si era preparato contro l’eventualità di svegliarsi con un movimento improvviso.
Aprì gli occhi in maniera impercettibile, appena una fessura, e vide che la sua previsione era stata corretta. Il Rotolante si stava avvicinando. Era lontano pochi metri, il dolore che lo aveva svegliato era la pietra che che gli aveva tirato per vedere se era vivo o morto. Continuò a restare immobile. L’altro si fece più vicino, era a circa quattro metri, e si fermò di nuovo. Carson respirò a malapena. Per quanto gli era possibile, stava tenendo la sua mente sgombra da ogni pensiero, per evitare che le abilità telepatiche del Rotolante rilevassero segni di coscienza in lui. E con la mente svuotata in quel modo, l’impatto dei pensieri alieni sulla sua mente fu devastante. Provò un orrore assoluto per l’estraneità e la diversità di quei pensieri, che trasmettevano cose che lui percepiva ma non riusciva a capire o ad esprimere, perché nessun linguaggio terrestre aveva le parole, nessun cervello terrestre aveva le immagini adatte a loro.
La mente di un ragno, pensò, o la mente di una mantide religiosa, o di un serpente delle sabbie marziano, se dotate di intelligenza e messe in rapporto telepatico con menti umane, paragonate a questo, sarebbero sembrate cose comuni, familiari. Capiva adesso che l’Entità aveva avuto ragione: l’Uomo o il Rotolante, l’universo non era luogo che potesse ospitarli entrambi. Si avvicinava. Carson attese finché fu lontano soltanto mezzo metro, finché allungò i suoi tentacoli…
Dimentico del dolore adesso, si sedette, sollevò e lanciò l’arpione con tutta la forza che gli rimaneva. Mentre il Rotolante, colpito in profondità dall’arpione, fuggiva via, Carson tentò di mettersi in piedi e di inseguirlo.
Non ci riuscì, cadde, ma continuò a strisciare. L’alieno arrivò alla fine della fune e lui fu strattonato in avanti per quella legata intorno al polso. Lo trascinò ancora per qualche metro e poi si fermò. Carson continuò ad avanzare verso di lui, aggrappandosi una mano dopo l’altra lungo la corda. L’alieno rimase fermo, mentre i suoi tentacoli cercavano invano di tirare via l’arpione. Sembrava sussultare e tremare e poi capì che non poteva fuggire, perché stava rotolando indietro verso di lui, sfoderando i suoi tentacoli artigliati. Lo affrontò con il coltello di pietra stretto nella mano. Lo pugnalò ancora e ancora, mentre quagli orribili artigli gli strappavano via pelle, carne e muscoli. Pugnalò e squarciò, e finalmente l’altro non si mosse più.
Un campanello stava suonando, e gli ci volle un po’, dopo che ebbe aperto gli occhi, per capire chi fosse e dove fosse. Era legato al sedile del suo ricognitore e il visore davanti a lui mostrava soltanto spazio vuoto. Nessuna nave degli Esterni e nessun pianeta impossibile. Il campanello era il segnale della piastra di comunicazione, qualcuno voleva che accendesse il ricevitore. Soltanto il mero riflesso condizionato gli fece allungare la mano e tirare la leva. La faccia di Brander, il capitano della Magellano, la nave madre della sua squadra di ricognitori, lampeggiò nello schermo. La sua faccia era pallida e i suoi occhi neri brillavano per l’eccitazione. “Magellano a Carson,” esclamò. “Ordine di rientrare. La battaglia è finita. Abbiamo vinto!” e sparì dallo schermo: Brander doveva impartire il suo ordine agli altri ricognitori.
Lentamente, Carson impostò i comandi per il ritorno. Lentamente, con fare incredulo, si slegò dal sedile e andò sul retro per prendere da bere dal serbatoio dell’acqua fredda. Per una qualche ragione, era incredibilmente assetato. Ne bevve sei bicchieri. Si appoggiò contro la fiancata, cercando di riflettere.
Era successo?
Era in buona salute, vigoroso, incolume. La sua sete era stata più che altro mentale, la gola non si era seccata. Si tirò su la gamba del pantalone e controllò il polpaccio. C’era una lunga cicatrice bianca, ma una cicatrice perfettamente guarita, non c’era mai stata prima. Aprì la cerniera sul davanti della sua camicia e vide che il petto e l’addome erano ricoperti da cicatrici sottili, quasi invisibili, perfettamente guarite.
Era successo!
Il ricognitore, guidato dal pilota automatico, stava già varcando il boccaporto della nave madre. Fu agganciato e spinto nel suo alloggiamento individuale, e un momento dopo un ronzio indicò che il comparto stagno era pieno d’aria. Carson aprì il portello, uscì fuori e oltrepassò le due porte del comparto stagno.
Si diresse subito nell’ufficio di Brander, entrò e salutò. Brander sembrava ancora stupefatto. “Salve, Carson,” disse. “Che ti sei perso, che spettacolo!” “Cosa è successo, signore?” “Non lo so, esattamente. Abbiamo sparato una salva, e tutta la loro flotta si è polverizzata! Qualunque cosa fosse, è saltata da una nave all’altra in un lampo, colpendo perfino quelle a cui non avevamo mirato e che erano fuori dalla nostra portata! L’intera flotta disintegrata sotto i nostri occhi, e da noi non è stata graffiata nemmeno la vernice di una sola nave!
“Non
possiamo nemmeno attribuircene il merito. Deve essere stato qualche
componente instabile del metallo usato dagli alieni, e il nostro
colpo di avvistamento lo ha semplicemente disintegrato. Ragazzo,
peccato che ti sia perso tutto il divertimento!” Carson accennò
appena un debole sorriso, perché ci sarebbero voluti giorni prima di
riuscire a superare l’impatto emotivo della sua esperienza, ma il
capitano non stava guardando.
“Sì, signore,” disse.
Il buon senso, più che la modestia, gli suggerì che sarebbe stato etichettato come il peggior bugiardo dello spazio se avesse detto di più.
“Sì, signore, peccato che mi sia perso tutto il divertimento...”
FINE