Parenti serpenti
Un episodio della vita privata di una contessa irlandese (Passage in the Secret History of an Irish Countess, 1839), noto anche come La storia segreta di una Contessa irlandese, è un racconto di Joseph Sheridan Le Fanu (Dublino 1817-1873), considerato, a buon diritto, il capostipite del racconto gotico vittoriano. Venne pubblicato la prima volta nel Dublin University Magazine, per poi entrare a far parte dei Purcell Papers (1880), dove furono raccolti i suoi primi dodici racconti, scritti tra il 1838 e il 1840, che pretendono di essere il lascito letterario di un prete cattolico del XVIII secolo chiamato Padre Purcell.
Indossati i panni fittizi di questo prete, l’autore ci introduce nell’enigmatico mondo della contessa D. La donna, ormai anziana, vedova e senza figli, gli scrive per rivelargli gli oscuri eventi che funestarono la sua giovinezza e che potranno essere rivelati solo dopo la sua morte.
Rimasta orfana, viene affidata alla tutela dello zio paterno, che nel testamento era stato indicato dal fratello come unico erede nel caso la contessina fosse morta senza eredi. Su quest’ultimo, tuttavia, grava il sospetto di uno misterioso omicidio avvenuto nel suo castello, un edificio vetusto e decadente dove il nobiluomo si era rifugiato dopo aver perso la maggior parte dei suoi beni ai tavoli da gioco di mezza Europa. Al suo arrivo, tuttavia, le ansie della giovinetta vengono fugate dall’accoglienza amabile dello zio e dalle calorose esternazioni di affetto della quasi coetanea cugina Emily, che diverrà poi sua fedele compagna e confidente. Ben diverso l’atteggiamento del cugino Edward, giovane scavezzacollo che inizia a tormentarla con un rozzo corteggiamento e un’imbarazzante proposta di matrimonio. Quando la ragazza espone allo zio il suo disappunto per le attenzioni moleste del cugino, si rende conto che la sua gentilezza è solo una finzione e che il suo obbiettivo è quello di entrare in possesso dell’eredità della nipote, con qualunque mezzo. La ragazza finalmente realizza di essere caduta in una trappola mortale e che dovrà lottare per la sua salvezza contando solo su di sé, salvezza che otterrà a caro prezzo e che le costerà il rimpianto e i rimorsi di una vita.
La storia si sviluppa come un lungo flashback in forma epistolare, scelta narrativa che permette all’autore di scavare nella psicologia della protagonista con un linguaggio immediato ed enfatico, dove l’irrazionale e l’inconscio hanno il sopravvento sulla razionalità. L’orrore dei racconti di Le Fanou, infatti, non scaturisce da plateali effetti speciali, come nei primi racconti gotici, ma dalle reazioni emotive dei protagonisti alla realtà esterna, vista attraverso il filtro delle loro angosce e paure. Il suo interesse per il soprannaturale, tuttavia, non esclude una profonda attenzione alla storia del suo paese, come testimonia la nostalgia e la tristezza per l’aristocrazia cattolica espropriata d’Irlanda, i cui castelli in rovina sono il segno della presente decadenza.
Curiosità:
📎Questo racconto porrà le basi da cui Le Fanu trarrà ispirazione per il famoso romanzo gotico Uncle Silas (1851).
📎Il testo fa anche parte di quel sottogenere poliziesco conosciuto come “enigma della camera chiusa”, in cui l'indagine si svolge intorno a un delitto compiuto in circostanze apparentemente impossibili - come quello scoperto in una camera chiusa dall'interno - e si può considerare un primissimo esempio di questa particolare forma narrativa, usata qualche anno dopo da Edgar Allan Poe ne I delitti della Rue Morgue (1841).
Un episodio della vita privata di una
contessa irlandese
Quinto estratto dal lascito del defunto reverendo Francis Purcell, di Drumcoolagh.
Di
Joseph Sheridan Le Fanu
Il seguente documento è scritto con una grafia femminile e fu senza dubbio inviato al mio mai troppo compianto amico dalla dama la cui storia di gioventù esso serve ad illustrare, la contessa D… Ella non è più. E’ morta da lungo tempo, vedova e senza figli e, come tristemente predice la sua lettera, non le è sopravvissuto nessuno a cui a cui questo racconto possa risultare ‘ingiurioso o perfino doloroso.’ Strano! Due famiglie ricche e potenti, quella in cui era nata e quella in cui si era sposata, hanno cessato di esistere… si sono definitivamente estinte.
A coloro i quali sanno ogni cosa della storia delle famiglie irlandesi, quelle che esistevano meno di un secolo fa, i fatti che seguiranno suggeriranno subito I NOMI dei principali protagonisti, per gli altri la loro pubblicazione sarebbe inutile… per noi, forse, se non quasi certamente, dannosa. Pertanto, ho alterato quei nomi che potrebbero, se rivelati, metterci in una difficile posizione, gli altri, che appartengono a personaggi minori di questa strana storia, li ho lasciati inalterati.
Mio caro amico,
mi avete chiesto di fornirvi informazioni dettagliate circa gli strani eventi che segnarono la mia giovinezza ed io, senza alcuna esitazione, ho intrapreso questo compito, sapendo che, mentre sono in vita, una delicata considerazione per i miei sentimenti vi impedirà di dare pubblicità alle mie dichiarazioni, e consapevole che, quando non ci sarò più, non sopravviverà nessuno a cui questo racconto possa risultare ingiurioso o perfino doloroso.
Mia madre morì quando ero molto piccola e di lei non ho alcun ricordo, nemmeno il più labile. Alla sua morte, la mia educazione e i miei costumi furono lasciati unicamente alla guida del mio genitore vivente e, per quanto una rigida attenzione alla mia istruzione religiosa e una solerte ansia evidenziata dall’avermi procurato i migliori insegnanti per perfezionarmi in quegli adempimenti che il mio rango e la mia ricchezza sembravano richiedere, fossero utili, egli si liberò completamento da questo incombenza.
Mio padre era ciò che viene considerato un eccentrico, e il modo in cui si comportava con me, sebbene sempre cortese, derivava meno dall’affetto e dalla tenerezza piuttosto che da un senso di obbligo e di dovere. Infatti, raramente parlavo con lui, se non durante i pasti, e anche allora le sue maniere erano silenziose e brusche. Le sue ore di svago, che erano molte, le trascorreva nel suo studio o in passeggiate solitarie; in breve, sembrava che egli non avesse altro interesse per la mia felicità o la mia educazione se non una coscienziosa attenzione a liberarsi da ogni obbligo che il suo dovere sembrava reclamare.
Poco prima della mia nascita si era verificata una circostanza che aveva contribuito molto a formare e a rafforzare il carattere solitario di mio padre… e cioè il fatto che un sospetto di OMICIDIO era caduto sul fratello minore, sebbene non sufficientemente definito da condurre ad un’imputazione, tuttavia abbastanza forte da comprometterlo di fronte alla pubblica opinione.
Questo dubbio disonorevole e tremendo gettato sul buon nome della famiglia, mio padre lo patì profondamente e amaramente e tuttavia non gli impedì di essere assolutamente convinto dell’innocenza di suo fratello. Poco dopo, egli provò la sincerità e la solidità di questo convincimento in un modo che provocò i cupi eventi qui di seguito. Prima, tuttavia, che io mi accinga a parlarne, dovrei descrivere le circostanze che avevano suscitato questo sospetto, sia perché esse sono di per sé abbastanza strane, sia per i loro effetti, intimamente connessi con la mia storia personale successiva.
Mio zio, sir Arthur T...n, era un uomo gaudente e prodigo e, tra gli altri vizi, era rovinosamente dipendente dal gioco. Questa sfortunata propensione continuò a trascinarlo, quasi fino all’esclusione di ogni altra occupazione, anche dopo che la sua fortuna ne aveva sofferto così pesantemente da rendere una inevitabile riduzione delle sue spese per niente impensabile. Egli era, comunque, un uomo orgoglioso e pieno di sé, e non poteva tollerare che l’assottigliarsi dei suoi introiti diventasse materia di soddisfazione e trionfo per coloro con cui si era confrontato fino a quel momento, e la conseguenza fu che non frequentò più quei costosi luoghi di dissipazione e si ritirò da quel mondo di gaudenti, lasciando ai suoi sodali il compito di scoprire le sue ragioni come meglio potevano.
Egli, tuttavia, non abbandonò il suo vizio preferito, perché, sebbene non potesse più adorare la sua divinità nei costosi templi dove precedentemente aveva scelto di intrattenersi, tuttavia scoprì che era assolutamente possibile portare intorno a sé un numero di devoti della dea fortuna sufficiente a soddisfare i suoi scopi. La conseguenza fu che Carrickleigh, che era il nome della residenza di mio zio, non fu mai senza uno o più dei visitatori che vi ho descritto.
Accadde che in una occasione fosse visitato da un certo Hugh Tisdall, un gentiluomo dai costumi licenziosi, ma di considerevole ricchezza e che, durante la prima giovinezza, aveva viaggiato con mio zio sul Continente. Il periodo della sua visita fu d’inverno e, di conseguenza, la casa era quasi deserta, ad eccezione dei suoi soliti abitanti, cosa altamente gradita, dal momento che mio zio era ben consapevole che i gusti del suo visitatore si accordavano esattamente con i suoi.
Entrambe le parti sembrarono determinate ad avvalersi di questa opportunità durante il breve soggiorno che Mr. Tisdall aveva programmato, la conseguenza fu che rimasero chiusi nella stanza privata di sir Arthur per quasi tutto il giorno e gran parte della notte, per circa una settimana, alla fine della quale la servitù un mattino, avendo bussato, come al solito, ripetutamente alla porta della camera da letto di Mr. Tisdall, non ricevette risposta e, dopo aver cercato di entrare, scoprì che era chiusa a chiave.
La cosa apparve sospetta e gli abitanti della casa, essendosi allarmati, aprirono la porta con la forza e, avvicinandosi al letto, trovarono il corpo del suo occupante ormai senza vita e che per metà sporgeva fuori dal letto, con la testa verso il basso, vicino al pavimento. Una profonda ferita era stata inflitta alla tempia, apparentemente con uno strumento smussato che aveva penetrato il cervello, mentre un altro colpo, meno efficace, probabilmente il primo inferto, aveva scorticato la testa, rimuovendo parte dello scalpo, ma lasciando il cranio integro. La porta era stata chiusa a doppia mandata dall’INTERNO, a prova di ciò la chiave era ancora infilata nella serratura.
La finestra, sebbene non sbarrata dall’interno, era chiusa – una circostanza non poco sconcertante, dal momento che questa offriva l’unica via d’uscita dalla stanza, che si affacciava, inoltre, su di una specie di cortile, intorno al quale erano allineati quei vecchi edifici, in passato accessibili attraverso uno stretto passaggio nella parte più vecchia del quadrilatero, ma che da allora era stato murato, così da precludere ogni ingresso o uscita. La camera, poi, era al secondo piano e la finestra ad un’altezza considerevole.
Vicino al letto furono trovati due rasoi che appartenevano alla vittima, uno sul pavimento, ed entrambi aperti. Non si riuscì a trovare nella stanza l’arma che aveva inflitto la ferita mortale, né si scoprirono orme o altre tracce dell’assassino.
Su suggerimento dello stesso Sir Arthur, fu immediatamente richiesta la presenza di un coroner e fu aperta un’inchiesta. Comunque, non si giunse ad alcuna conclusione: le pareti, il soffitto ed il pavimento della stanza furono attentamente esaminati allo scopo di accertare se contenessero una botola o altri ingressi segreti, ma non venne fuori niente del genere.
L’indagine fu condotta con tale minuzia che, sebbene la grata del camino avesse contenuto un grande fuoco durante la notte, procedettero ad esaminare perfino il comignolo, per verificare se fosse stato possibile fuggire per quella via, ma anche questo tentativo fu infruttuoso, perché il comignolo, costruito alla vecchia maniera, saliva su dal focolare in linea perfettamente perpendicolare fino ad un’altezza di circa quattro metri sopra il tetto, offrendo al suo interno scarse possibilità di risalita, poiché la canna fumaria aveva un intonaco liscio e si restringeva verso la cima, a forma di imbuto capovolto, permettendo, inoltre, anche se fosse stata raggiunta la sommità, soltanto una discesa precaria sul tetto erto e dagli spioventi scoscesi. Inoltre, la cenere della grata e la fuliggine, per quello che si poteva vedere, erano intatte, una circostanza che metteva definitivamente fine alla questione.
Naturalmente, sir Arthur fu interrogato. La sua testimonianza fu data con chiarezza e senza reticenza, cosa che sembrò calcolata per mettere a tacere ogni sospetto. Egli asserì che, fino al giorno e alla notte immediatamente precedenti la catastrofe, aveva perso una grossa somma ma che, durante la loro ultima seduta, non aveva soltanto recuperato la perdita originale, ma in più aveva vinto oltre quattrocento sterline e come prova esibì un riconoscimento di debito per quella somma scritta per mano del defunto e che portava la data di quella notte fatale. Aveva riferito questa circostanza alla sua consorte e in presenza di alcuni domestici, dichiarazione che fu avvalorata dalle LORO rispettive testimonianze.
Uno dei giurati osservò acutamente che la circostanza della grossa perdita subita da Mr. Tisdall poteva aver suggerito a persone male intenzionate, che per caso ne erano venute a conoscenza, il piano di derubarlo, dopo averlo assassinato in modo tale che potesse sembrare un suicidio; una supposizione che fu fortemente supportata dai rasoi trovati in giro in quel modo e rimossi dal loro astuccio.
Probabilmente, due persone avevano partecipato all’attentato, una di guardia vicino al dormiente e pronta a colpirlo nel caso di un suo improvviso risveglio, mentre l’altra si procurava i rasoi e li usava per infliggere lo squarcio fatale, così da sembrare che il gesto fosse stato compiuto dalla stessa vittima. Si disse che, mentre il giurato stesse facendo questa supposizione, sir Arthar cambiasse colore.
Tuttavia, nessuna prova legale apparve contro di lui e la conseguenza fu che il verdetto venne emesso contro persona o persone sconosciute, e per qualche tempo la cosa passò sotto silenzio finché, circa cinque mesi dopo, mio padre ricevette una lettera da una persona che si firmava Andrew Collis, e che dichiarò di essere il cugino del deceduto.
Questa lettera affermava che era probabile che sir Arthur oltre al sospetto, stesse per incorrere in un rischio personale, a meno che non desse conto di certe circostanze connesse con il recente omicidio, e conteneva una copia di una lettera scritta dal defunto e che portava la data, il giorno della settimana e il mese della notte in cui il fatto di sangue era stato perpetrato. Il biglietto di Tindall procedeva come segue:
'Ho avuto il mio daffare con sir Arthur, ha tentato alcuni dei suoi vecchi trucchi ammuffiti, ma ha scoperto subito che anche io sono dello Yorkshire: ci voleva ben altro… tu mi capisci. Ci siamo messi all’opera da bravi, cuore, testa e anima e, infatti, da quando sono qui non ho perso tempo. Sono piuttosto esausto, ma sono sicuro che sarò ben ripagato per il mio disaggio: non ho bisogno di dormire finché posso sentire la musica di un bussolotto per i dadi e avere di che pagare il suonatore. Come ti ho detto, ha tentato qualcuno dei suoi strani tiri, ma l’ho subito bloccato e, in cambio, gli ho insegnato più di quello che poteva gradire dell’autentica ANTICA ARTE.
‘Per farla breve, ho spennato il vecchio baronetto come nessun baronetto era stato mai spennato prima, gli ho lasciato a malapena un mozzicone di penna. Sono in possesso di note di pagamento di suo pugno per l’ammontare di… se ti piacciono le cifre tonde, diciamo trentamila sterline, depositate al sicuro nella mia cassaforte portatile, cioè il mio portafoglio a doppia chiusura.
'Lascerò questa decrepita vecchia topaia domattina sul presto, per due motivi: primo, non voglio giocare con sir Arthur oltre quello che credo la sua obbligazione, e cioè il suo denaro o il corrispettivo del suo denaro, possa garantire. In secondo luogo, perché sarò più al sicuro a cento miglia lontano da sir Arthur che in casa con lui. Bada, mio caro, lo dico fra di noi, posso sbagliarmi, ma per Giove, giuro sulla mia vita, che sir A. ha tentato di avvelenarmi l’altra notte, alla faccia dell’antica reciproca amicizia.
'Quando vinsi l’ultima posta in gioco, una abbastanza cospicua, il mio amico appoggiò la fronte sulle mani, e tu riderai quando ti dirò che la sua testa stava letteralmente fumando come uno gnocco bollente. Non so se la sua agitazione fosse causata dal piano ordito contro di me, o dal fatto che aveva perso così pesantemente, sebbene si deve riconoscere che aveva motivo per essere un poco accaldato, qualunque fosse la direzione dei suoi pensieri, ma suonò il campanello e ordinò due bottiglie di champagne.
'Mentre il cameriere stava andando a prenderle, stilò una promessa di pagamento per l’intero ammontare, la firmò e, quando l’uomo entrò con le bottiglie e i bicchieri, lo mandò via. Riempì un bicchiere per me e, pensando che stessi guardando altrove, perché stavo mettendo a posto il suo assegno, vi fece abilmente cadere dentro qualcosa, senza dubbio per addolcirlo, ma vidi tutto e quando me lo passò, dissi, con un’enfasi che egli poteva capire o non capire: “C’è del sedimento in questo, non lo berrò” “Davvero?” disse e allo stesso tempo me lo tolse dalla mano e lo gettò nel fuoco. Che ne pensate? Non è un pollastro quello con cui ho a che fare? Sia che vinco o che perdo, non scommetterò oltre le cinquecento sterline questa sera e l’indomani mi vedrà al sicuro dallo champagne di sir Arthur. Così, tutto considerato, penso che dovete ammettere che non siete l’ultimo ad aver scoperto che ragazzo scaltro sia il sempre vostro,
'HUGH TISDALL.'
Non ho mai sentito mio padre dubitare dell’autenticità di questo documento, e sono certa che, senza la sua forte convinzione a favore di suo fratello, egli non l’avrebbe mai accettato senza ulteriori indagini, poiché tendeva confermare i sospetti che già esistevano a suo carico.
Ora, l’unico punto in questa lettera che era fortemente contro mio zio, era il riferimento al ‘portafoglio a doppia chiusura’ come nascondiglio dei documenti che potevano coinvolgerlo, perché questo portafoglio non era disponibile, né fu trovato da nessuna parte, né fu trovato sul morto alcun documento che menzionasse le sue transazioni di gioco.
Comunque, qualunque possa essere stata l’intenzione originale di questo Collins, né mio zio né mio padre ne sentirono più parlare, ma lui pubblicò la lettera nel giornale di Faulkner, che poco dopo divenne il veicolo di un attacco ancora più misterioso. L’articolo in quel periodico a cui alludo, fu pubblicato circa cinque anni dopo, mentre il fatale avvenimento era ancora fresco nella memoria del pubblico.
Iniziava con una prefazione sconclusionata, che affermava che ‘una CERTA PERSONA che CERTE persone consideravano morta, non lo era, bensì viveva ed era in pieno possesso dei suoi ricordi e, inoltre, era desiderosa e capace di far tremare GRANDI delinquenti.’ Proseguiva con la descrizione dell’omicidio, senza tuttavia fare nomi, e poi entrava in dettagli minuziosi e circostanziati di cui nessuno, se non un TESTIMONE OCULARE, poteva essere a conoscenza, e con implicazioni assolutamente inequivocabili per poter essere considerate semplici insinuazioni, che coinvolgevano il ‘GIOCATORE TITOLATO’ nella colpevolezza di quegli atti.
Mio padre sollecitò immediatamente sir Arthur a procedere contro il giornale per calunnia a mezzo stampa, ma lui non volle saperne, né permise a mio padre di intraprendere alcuna azione legale al riguardo. Mio padre, comunque, scrisse a Faulkner con tono minaccioso, intimandogli di rivelargli l’autore di quell’odioso articolo. La risposta a questa richiesta è ancora in mio possesso, ed è scritta in un tono di scusa: si dichiara che il manoscritto era stato consegnato, pagato e pubblicato come inserto pubblicitario, senza ulteriori accertamenti e senza sapere a chi si riferisse.
Nessuna azione, comunque, fu intrapresa per chiarire il ruolo di mio zio di fronte alla pubblica opinione, e poiché vendette immediatamente una piccola proprietà - la destinazione del ricavato era sconosciuta a tutti - si disse che l’aveva venduta per essere in grado di comprare la minacciata rivelazione. Qualunque fosse la verità, è certo che in seguito non ci furono più pubbliche accuse contro mio zio riguardo al misterioso omicidio e, per quel che concerneva eventuali minacce esterne, da quel momento in poi godette di perfetta sicurezza e tranquillità.
Tuttavia,
si era prodotta un’impressione profonda e durevole sulla pubblica
opinione e sir Arthur T----n non fu più visitato o tenuto in
considerazione dagli sqiurei
e dall’aristocrazia del paese, le cui attenzioni e cortesie aveva
ricevuto fino a quel momento. Di conseguenza, fece mostra di
disprezzare quei divertimenti che non poteva più procurarsi, ed
evitò anche quella compagnia che avrebbe ancora potuto attirare.
Questo è tutto quello che è necessario ricapitolare della storia di mio zio, adesso ritorno alla mia. Sebbene mio padre, per quel che ricordo, non avesse mai visitato, o sia stato mai visitato da mio zio, essendo entrambi di abitudini sedentarie, procrastinanti e riservate, ed essendo le loro rispettive residenze molto distanti – una situata nella contea di Galwayii, l’altra in quella di Corckiii – egli era fortemente legato a suo fratello e dimostrava il suo affetto con una fitta corrispondenza e con un profondo e orgoglioso sdegno per l’abbandono che aveva marchiato sir Arthur come inadatto a frequentare la buona società.
Quando avevo quasi diciotto anni, mio padre, la cui salute era lentamente declinata, morì, lasciandomi col cuore spezzato e infelice e, a causa del suo precedente isolamento, con poche conoscenze e quasi nessun amico.
Le disposizioni del suo testamento erano singolari e quando fui sufficientemente ritornata in me per ascoltarle o comprenderle, mi sorpresero non poco: tutta la sua vasta proprietà andava a me e alla mia prole, per sempre. In mancanza di tali eredi, dopo la mia morte sarebbe dovuta andare a mio zio, sir Arthur, senza alcuna condizione. Allo stesso tempo, il testamento lo nominava mio tutore, con l’augurio che potessi essere ospitata a casa sua e risiedere con la sua famiglia e sotto la sua cura, per la durata della mia minore età. In considerazione dell’aumento delle spese conseguenti a questa sistemazione, gli veniva assegnata una generosa rendita annuale per tutto il periodo del mio eventuale soggiorno.
Capii immediatamente lo scopo di quest’ultimo provvedimento: facendo sì che il preciso e apparente interesse di sir Arthur fosse che io morissi senza prole, e mettendomi allo stesso tempo alla sua completa mercé, mio padre desiderava mostrare al mondo intero quanto grande e salda fosse la sua fiducia nell’innocenza e nell’onore di suo fratello, offrendogli, allo stesso tempo, un’opportunità per dimostrare che questa fiducia non veniva concessa immeritatamente.
Era una disposizione strana e forse futile, ma dal momento che ero sempre stata cresciuta nella convinzione che mio zio fosse un uomo profondamente ferito, e mi era stato insegnato, quasi come una religione, di considerarlo come l’essenza stessa dell’onore, non provai altro disagio rispetto a queste disposizioni se non quello che poteva provare una ragazza timida, di costumi solitari, riguardo all’immediata prospettiva di stabilire la propria dimora fra assoluti sconosciuti, per la prima volta nella sua vita.
Prima di lasciare la mia casa, cosa che sapevo avrei fatto con cuore pesante, ricevetti la più tenera e affezionata lettera da mio zio, pensata, se mai fosse stato possibile, con lo scopo di rimuovere l’amarezza della separazione da luoghi familiari e cari fin dalla mia prima infanzia, e per riconciliarmi in parte con questa disposizione.
Fu durante un luminoso autunno che raggiunsi la vecchia tenuta di Carrickleigh. Non dimenticherò presto l’impressione di tristezza e desolazione che fece su di me tutto quello che vidi. I raggi del sole cadevano con una sfumatura ricca e malinconica sopra i vecchi ed imponenti alberi, che si ergevano in gruppi maestosi, lanciando le loro lunghe e ondeggianti ombre sulla pietra e sull’erba. C’era un’aria di abbandono e decadenza tutto intorno, che arrivava quasi alla desolazione e i suoi sintomi aumentavano di numero man mano che ci avvicinavamo all’edificio stesso, intorno al quale il terreno in origine era stato coltivato con più accorgimento e cura che altrove e il cui abbandono, di conseguenza, si manifestava in modo più evidente e sorprendente.
Mentre proseguivamo, la strada svoltò vicino a quelle che erano state in origine due pescaie, che ora non erano niente più che paludi stagnanti, ricoperte da erbacce marce e qui e là invase da un sottobosco inselvatichito. Lo stesso viale era in pessime condizioni, e in diversi punti le pietre erano quasi nascoste dall’erba e dall’ortica. I muretti in pietra, che qui e là intersecavano l’ampio parco, erano crollati in molti parti così che non servivano più al loro originale scopo come recinzioni.
Ogni tanto si vedevano dei pilastri, ma i cancelli erano andati, e ad accrescere la generale impressione di fatiscenza, alcuni grandi tronchi giacevano sparsi tra i venerabili alberi antichi, o per l’azione delle tempeste invernali, o forse vittime di qualche vasto ma saltuario piano di disboscamento, che il progettista non aveva il capitale o la perseveranza di portare a compimento.
Dopo che la carrozza ebbe percorso un miglio di questo viale, raggiungemmo la sommità di un’altura impervia, una delle tante che aumentavano il carattere pittorescoiv, se non la comodità, di questo accidentato sentiero. Dalla cima di questo crinale si potevano vedere le grigie mura di Carrickleigh, che si ergevano a poca distanza di fronte a noi, oscurate dall’antico bosco che le circondava.
Era un edificio quadrangolare di considerevole estensione e la facciata, che era rivolta verso di noi e in cui era situato l’ingresso principale, portava inequivocabili segni di vetustà. L’aspetto solenne e decadente del vecchio edificio, l’aria di abbandono e rovina di tutto il posto e le associazioni che lo collegavano ad una pagina oscura nella storia della mia famiglia, si combinavano per deprimere uno spirito già predisposto a recepire impressioni cupe e desolanti. Quando la carrozza si fermò nel cortile ricoperto di erba davanti alla porta d’ingresso, due uomini dall’aspetto indolente, la cui apparenza ben si accordava con quella del posto che abitavano, allarmati dall’assordante abbaiare di un grosso cane alla catena, corsero fuori da una dependance semi diroccata e si presero cura dei cavalli. La porta d’ingresso era aperta e io entrai in un ambiente cupo e scarsamente illuminato, dove non trovai nessuno.
Tuttavia, non dovetti aspettare a lungo in questa imbarazzante situazione, perché prima che il mio bagaglio fosse stato portato in casa, ovvero, prima che mi fossi liberata di mantello e scialli, così da potermi guardare intorno, un giovinetta corse con passi leggeri nell’ingresso, e baciandomi calorosamente e con una certa energia, esclamò:
“Mia cara cugina, mia cara Margaret… sono così felice, così emozionata. Non la aspettavamo prima delle dieci, mio padre è da qualche parte nei dintorni, non deve essere lontano. James… Corney correte a dirlo al vostro padrone… mio fratello è raramente a casa, perlomeno ad un’ora ragionevole… deve essere così stanca, così affaticata… lasci che le mostri la sua stanza… assicuratevi che il bagaglio di lady Margaret sia portato tutto sopra… dovreste stendervi e riposare… Deborah, porta del caffè… andiamo su. Siamo così felici di vederla… non immagina quanto sia stata sola… come sono erte queste scale! Sono così contenta che lei sia venuta… non riuscivo a credere che sarebbe venuta per davvero... è gentile da parte sua, lady Margaret!”
Nel benvenuto di mia cugina c’erano sincera benevolenza e felicità e una specie di innata confidenza che mi misero subito a mio agio e mi fecero sentire immediatamente in termini di intimità con lei. La stanza in cui mi condusse, sebbene partecipasse alla generale atmosfera di decadenza che pervadeva la dimora e tutto il circondario, non di meno era stata arredata con evidente attenzione alla comodità e perfino con qualche misero tentativo di lusso.
Ma quello che mi fece più piacere fu che si apriva, tramite una seconda porta, su un passaggio che comunicava con l’appartamento della mia cara cugina, una circostanza che, ai miei occhi, tolse alla camera quell’aria di solitudine e tristezza che altrimenti l’avrebbero caratterizzata ad un livello quasi doloroso per una di umore malinconico quale ero io.
Dopo che furono completate le operazioni che ritenevo necessarie, scendemmo tutte e due nel salotto: un’ampia camera pannellata, con vecchi e truci ritratti appesi tutto intorno e che ospitava nell’ampio focolare un allegro fuocherello, cosa che non mi dispiacque. Qui mia cugina ebbe la possibilità di parlare più a suo agio, e da lei appresi qualcosa sulle maniere e le abitudini degli altri due membri della famiglia, che non avevo ancora visto.
Quando arrivai, non sapevo niente della famiglia con cui ero venuta a vivere, eccetto che si componeva di tre persone: mio zio, suo figlio e sua figlia, essendo lady T----n morta da lungo tempo. In aggiunta alla mia misera scorta di informazioni, in breve appurai dalla mia ciarliera compagna che, come avevo sospettato, mio zio era di abitudini molto appartate e che, oltre a questo, essendo sempre stato, per quel che lei poteva ricordare, piuttosto severo, ultimamente era diventato di una religiosità sempre più cupa e rigida, come spesso succede ai libertini pentiti.
La descrizione di suo fratello fu meno favorevole, anche se non disse niente direttamente a suo svantaggio. In base a tutto quello che potei sapere da lei, fui portata a supporre che fosse un esemplare dell’oziosa, volgare, dissoluta, rozza 'squirearchy'v- un risultato che poteva naturalmente derivare dalla circostanza di essere, per così dire, bandito dalla buona società, e spinto a cercare compagnia a livelli più bassi del suo – godendo, inoltre, della pericolosa prerogativa di spendere molto denaro.
Tuttavia, lei può facilmente intuire che non trovai niente nel resoconto di mia cugina che potesse pienamente confermarmi un giudizio così netto. Aspettai l’arrivo di mio zio, che era atteso da un momento all’altro, con un sentimento misto di timore e di curiosità – una sensazione che da allora ho spesso sperimentato, anche se in maniera meno intensa, quando sono sul punto di trovarmi per la prima volta in presenza di persone di cui ho sentito parlare o a cui ho pensato con interesse per lungo tempo.
Pertanto, fu con un certo turbamento che sentii prima un leggero trambusto alla porta d’ingresso, poi un passo lento attraversare l’ingresso e, finalmente, vidi aprirsi la porta e mio zio entrare nella stanza. Era un uomo dall’aspetto sorprendente, a causa della peculiarità sia della sua persona che del suo abbigliamento, l’effetto totale della sua apparenza ammontava ad un’estrema singolarità.
Il suo abito era di colore sobrio, ma di una foggia anteriore a qualunque cosa potessi ricordare. Era, comunque, elegante, e niente affatto indossato con noncuranza, ma quello che completava la singolarità del suo aspetto erano i suoi capelli, non tagliati e bianchi, che scendevano fin sulle spalle in riccioli lunghi ma per niente incolti, e che si combinavano con i suoi lineamenti di una regolarità classica e i suoi begli occhi scuri a donargli un’aria di venerabile dignità e orgoglio, di cui non ho mai più visto l’eguale.
Quando entrò, mi alzai e gli andai incontro nel mezzo della stanza. Mi baciò le guance e le mani dicendo: “Sei la benvenuta, cara ragazza, tanto benvenuta quanto può farti sentire l’avere ai tuoi ordini questo povero luogo e tutto ciò che contiene. Sono estremamente lieto di vederti… sinceramente lieto. Spero che tu non sia troppo stanca… ti prego di tornare a sederti.”Mi condusse alla mia sedia e continuò: “Sono lieto di apprendere che hai già fatto la conoscenza di Emily: vedo nel il vostro crescere insieme il fondamento di una durevole amicizia. Siete entrambe innocenti, entrambe giovani. Dio vi benedica… Dio vi benedica e faccia di voi tutto ciò che potrei desiderare.”
Alzò gli occhi e rimase silenzioso per qualche momento, come in segreta preghiera. Pensai che fosse impossibile che quest’uomo, con sentimenti così vividi, così calorosi, così teneri, potesse essere il malvagio descritto dalla pubblica opinione. Ero più che mai convinta della sua innocenza.
I suoi modi erano, o mi apparivano, estremamente affascinanti: c’era un misto di dolcezza e cortesia che sembrava l’espressione stessa della benevolenza. Era un modo di fare che, ne ero convinta, il freddo artificio non avrebbe mai potuto suggerire, esso doveva tutto il suo fascino al fatto di sembrare la diretta emanazione del suo cuore, doveva essere un genuino indicatore della mente del suo proprietario. Così pensai.
Mio zio, dopo avermi fatto capire chiaramente che ero la benvenuta e che potevo disporre di tutto ciò che era suo, mi sollecitò a rifocillarmi e al mio rifiuto, mi fece presente che prima di augurarmi la buona notte, aveva ancora un altro dovere da compiere, uno alla cui osservanza era sicuro che avrei acconsentito volentieri.
Quindi, procedette a leggere un capitolo della Bibbia, dopo di che si accomiatò con la stessa affettuosa gentilezza con cui mi aveva salutato, avendo reiterato il suo desiderio che considerassi ogni cosa in casa sua completamente a mia disposizione. Non è necessario dire che ero estremamente compiaciuta di mio zio – era impossibile non esserlo, e non potei fare a meno di dire a me stessa, se un tale uomo non è al sicuro dagli assalti dei calunniatori, chi lo è? Mi sentivo molto più felice di quanto non lo fossi stata dopo la morte di mio padre, e quella notte godetti del primo sonno ristoratore che mi avesse visitato da allora.
La mia curiosità rispetto a mio cugino non rimase a lungo insoddisfatta: si fece vivo il giorno successivo a pranzo. I suoi modi, anche se non così rozzi come mi ero aspettata, erano incredibilmente sgradevoli, c’erano un’impudenza e una sfrontatezza a cui non ero preparata, c’era meno volgarità di modi e molta più di quella mentale di quanto avessi previsto. Mi sentii a disagio in sua presenza: nel suo sguardo e nei suoi toni c’era quella sicurezza che anche l’assoluta tolleranza avrebbe interpretato come sfrontatezza, e mi sentii disgustata e seccata a quei complimenti rozzi ed eccessivi che si compiaceva di farmi ogni tanto, forse più di quanto la reale entità di quell’atrocità avrebbe potuto giustificare.
Comunque, era una consolazione il fatto che non si facesse vedere spesso, essendo molto preso da attività di cui non sapevo niente né mi interessava niente. Ma quando appariva, le sue attenzioni, o con lo scopo di divertirsi o con qualche intenzione più seria, erano così ovviamente e costantemente dirette a me che, per quanto fossi giovane e inesperta, nemmeno io potevo ignorare questa sua predilezione. Mi sentivo infastidita da questa odiosa persecuzione più di quanto potessi dire, e lo scoraggiavo con tanta forza che usai perfino la scortesia per convincerlo che le sue costanti attenzioni non erano gradite, ma tutto invano.
Questo era andato avanti per circa un anno, con mia infinita irritazione, quando un giorno, mentre ero seduta in salotto intenta a cucire in compagnia di Emiliy, come era mia abitudine, la porta si aprì e mio cugino Edward entrò. Pensai che ci fosse qualcosa di strano nel suo modo di fare – una specie di lotta tra la vergogna e l’impudenza – una sorta di agitazione e ambiguità che lo faceva apparire, se possibile, più sgradevole del solito. ‘Servo vostro, signore,” disse, sedendosi allo stesso tempo, “spiacente di disturbare il vostro tête-à-tête, ma tant’è, prenderò il posto di Emily solo per qualche minuto e poi ci separeremo per un po,’ cara cugina. Emily, mio padre ti vuole nella torretta d’angolo. Non cincischiare, ha fretta.” Lei esitò. “Fuori, vagabonda, cammina!” esclamò, con un tono tale che la povera ragazza non osò disobbedire.
Lasciò la stanza ed Edward la seguì fino alla porta. Si fermò lì per qualche minuto, come per riflettere su quello che avrebbe detto, forse per assicurarsi che nell’ingresso non ci fosse nessuno in ascolto. Alla fine, avendo chiuso la porta, come per caso, ritornò sui suoi passi e, avanzando lentamente, come se fosse immerso nei suoi pensieri, prese posto sul lato del tavolo accanto al mio.
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Ci fu un breve intervallo silenzioso, dopo di che disse:
“Immagino che vi siate già fatta un’idea dello scopo di questa mia visita così di buon’ora, ma suppongo di dovermi inoltrare in particolari. Posso?”
“Non ho nessuna idea,” replicai, “di quale possa essere il vostro scopo.”
“Bene, bene,” disse, sentendosi più a suo agio mentre continuava, “si può dire in poche parole. Sapete che è totalmente impossibile assolutamente fuori questione – che un giovanotto disinvolto come me e una belle ragazza come voi, possano incontrarsi continuamente, senza un attaccamento… una simpatia crescente da una parte o dall’altra, in breve, credo di avervi fatto capire chiaramente, come se lo avessi dichiarato, che sono innamorato di voi dal primo momento che vi ho vista.”
Fece una pausa, ma ero troppo spaventata per parlare. Lui interpretò il mio silenzio favorevolmente.
“Posso dirvi,” continuò, “Che sono considerato uno piuttosto difficile da soddisfare, e molto difficile da impressionare. Non so dire quando sono stato preso di una ragazza prima, così vedete che la sorte mi ha preservato...”
Quindi, l’odioso miserabile mi cinse la vita con un braccio. Questo gesto mi fece ritornare di colpo la voce e con la più indignata veemenza mi liberai dalla sua presa e allo stesso tempo dissi:
“Non sono rimasta insensibile, signore, alla vostre disgustose attenzioni… sono state a lungo un motivo di disappunto per me e dovete esservi accorto che ho segnalato la mia disapprovazione – il mio disgusto – nel modo più inequivocabile possibile, senza una vera e propria scortesia.”
Mi fermai, quasi senza fiato per la rapidità con cui avevo parlato e, senza dargli il tempo di riprendere la conversazione, uscii velocemente dalla stanza, lasciandolo in un parossismo di rabbia e mortificazione. Mentre salivo le scale, lo sentii aprire la stanza del salotto con violenza e fare due o tre rapidi passi nella mia direzione. Adesso ero terribilmente spaventata e feci la strada di corsa finché raggiunsi la mia camera e, dopo aver chiuso a chiave la porta, mi misi in ascolto tutta affannata, ma non sentii alcun rumore.
Per il momento, questo mi diede sollievo, ma ero stata talmente sopraffatta dall’agitazione e dall’esasperazione causati dalla scena che avevo appena vissuto, che quando mia cugina Emily bussò alla mia porta, stavo piangendo in piena crisi di nervi.
Capirete subito la mia angoscia quando prenderete in considerazione la mia forte antipatia per mio cugino Edward, combinata con la mia giovinezza e la mia estrema inesperienza. Qualunque proposta di quel genere mi avrebbe agitata, ma che fosse venuta dall’uomo che più di tutti odiavo e aborrivo e a cui avevo espresso i miei sentimenti in maniera esplicita, nei limiti della buona educazione, era troppo duro da sopportare. Inoltre, era una calamità in cui non potevo aspettarmi il sostegno di mia cugina Emily, che non mi era mai venuto meno in situazioni meno gravi. Eppure, speravo che ne potesse ancora scaturire qualcosa di buono, perché pensavo che da questo doloroso chiarimento sarebbe derivata, come conseguenza inevitabile e desiderabile, la fine dell’odiosa persecuzione di mio cugino.
Quando mi svegliai il mattino successivo, fu con la fervida speranza che probabilmente non avrei più visto la faccia, o perfino sentito il nome, di mio cugino Edward. Ma questa conclusione, sebbene ardentemente desiderata, era difficile che si realizzasse. Le dolorose emozioni del giorno precedente erano troppo vivide per sparire all’improvviso, e non potei fare a meno di provare una lieve inquietudine per future insolenze e cattiverie. Aspettarmi da parte di mio cugino qualcosa come la delicatezza o la considerazione per me, era fuori questione. Capivo che aveva riposto le sue speranze sui miei beni e che non avrebbe abbandonato così facilmente una tale acquisizione – poiché possedeva quelle che potevano essere considerate le opportunità e i mezzi per costringermi all’obbedienza.
Ora realizzavo dolorosamente l’avventatezza della condotta di mio padre nel mettermi a risiedere con una famiglia i cui membri, ad eccezione di uno, gli erano del tutto sconosciuti e avvertivo con amarezza l’impotenza della mia situazione. Decisi, tuttavia, nel caso che mio cugino perseverasse con i suoi discorsi, di esporre tutti i particolari a mio zio, sebbene, in quanto a gentilezza e intimità, non avesse fatto un passo oltre la nostra prima conversazione, e di appellarmi alla sua ospitalità e al suo senso d’onore affinché mi proteggesse contro il ripetersi di simili scene.
La condotta di mio cugino potrebbe sembrare un motivo insufficiente per un disaggio così profondo, ma il mio allarme non era causato né dalle sue azioni né dalle sue parole, ma interamente dal suo atteggiamento, che era strano e perfino intimidatorio all’eccesso. All’inizio della conversazione del giorno prima, c’era una specie di prepotente spavalderia nel suo comportamento, che verso la fine lasciò il posto alla brutale veemenza di un manifesto furfante – transizione che mi aveva portato a credere che, pur di impossessarsi dei miei beni, potesse tentare di estorcermi il consenso ai suoi voleri anche con la forza, o con mezzi ancora più orribili che a malapena osavo spingermi a pensare.
Il giorno dopo, di buon mattino, fui convocata da mia zio affinché lo raggiungessi nella sua stanza, situata in una torretta d’angolo del vecchio edificio, e perciò vi andai, chiedendomi per tutto il tragitto a cosa potesse preludere quell’insolita richiesta. Quando entrai nella stanza, non si alzò per salutarmi nel suo solito modo cortese, ma semplicemente mi indicò una sedia di fronte alla sua. Questo non preannunciava niente di buono. Comunque, mi sedetti in silenzio aspettando che iniziasse a parlare.
“Lady Margaret,” disse dopo un po’, con un tono di una severità maggiore di quanto lo ritenessi capace, “Finora le ho parlato da amico, ma non ho dimenticato che sono anche il suo tutore e che la mia autorità in quanto tale mi dà il diritto di controllare la sua condotta. Le porrò una domanda, e mi aspetto e pretendo una risposta chiara e diretta. Sono stato correttamente informato che lei ha sprezzantemente rifiutato il corteggiamento e la mano di mio figlio Edward?”
Balbettai una risposta con grande trepidazione:
“Credo… cioè, signore, ho rifiutato le proposte di mio cugino, e la mia freddezza e la mia riluttanza possono averlo convinto che lo avessi offeso di proposito.”
“Signora,” rispose, con una rabbia repressa ma, così mi sembrò, intensa. “Ho vissuto abbastanza a lungo per sapere che FREDDEZZA e riluttanza, e parole di questo tipo, appartengono al linguaggio ipocrita di una miserabile civetta.”
“Lei sa bene, come me, che FREDDEZZA e RILUTTANZA possono essere esibite così da convincere il loro oggetto che egli non è né sgradito né indifferente alla persona che le sfoggia. Lei sa anche molto bene che un affetto ignorato, se abilmente gestito, è fra uno degli espedienti più formidabili che una scaltra bellezza possa usare. Voglio dire, signora, che lei, avendo autorizzato, senza una parola per scoraggiarle, le fin troppo evidenti attenzioni di mio figlio per più di un anno, non ha alcun diritto di respingerlo senza altra spiegazione che dirgli con ritrosia di averlo sempre considerato con freddezza, e né la sua ricchezza né la sua nobiltà (su questa parola ci fu un’enfasi di disprezzo degna dello stesso sir Giles Overreachvi) possono consentirle di trattare con disprezzo l’affettuosa considerazione di un cuore onesto.”
Ero troppo colpita da questo evidente tentativo di estorcermi un consenso secondo il loro interessato e spietato piano di personale arricchimento - ora vedevo bene che mio zio e suo figlio lo avevano deliberatamente intrapreso - per trovare immediatamente la forza e la concentrazione per formulare una risposta a quello che aveva detto. Alla fine replicai con una certa fermezza:
“In tutto quello che ha detto, signore, lei ha grossolanamente travisato la mia condotta e le mie motivazioni. Le sue informazioni riguardo alla mia condotta nei confronti di mio cugino devono essere state estremamente scorrette: il mio comportamento non poteva suggerire altro che antipatia, e se qualcosa può essere aggiunto alla forte avversione che da lungo tempo provo per lui, dovrebbe essere questo suo cercare di spingermi con l’inganno e la paura ad un matrimonio che egli sa quanto sia rivoltante per me, e che cerca solo come mezzo per assicurarsi tutti i miei beni.”
Ciò detto, fissai mio zio negli occhi, ma egli aveva troppa esperienza delle cose del mondo per vacillare sotto lo sguardo di occhi ben più penetranti dei miei. Disse semplicemente:
“E’ informata delle disposizioni del testamento di suo padre?”
Risposi affermativamente e lui continuò:
“Allora dovrebbe essere consapevole che se mio figlio Edward fosse – Dio non voglia – l’uomo immorale e spericolato che lei si ostina a considerare” - (a questo punto iniziò a parlare molto lentamente, come se volesse che ogni parola da lui pronunciata rimanesse impressa nella mia memoria, e allo stesso tempo l’espressione del suo volto subì un graduale ma orribile cambiamento, mentre gli occhi che teneva fissi su di me divennero così intensamente cupi, che quasi persi di vista ogni altra cosa) - “Se egli fosse come lo ha descritto, lei pensa, ragazzina, che non potrebbe trovare mezzi più spicci di un contratto matrimoniale per raggiungere i suoi scopi? Basterebbe stringere il suo collo sottile fino a che il respiro si arrestasse e terre, laghi e ogni cosa sarebbero suoi.”
Dopo che ebbe finito di parlare, rimasi a fissarlo per diversi minuti, affascinata da quel terribile sguardo di serpente, finché riprese a parlare con un gradito cambiamento di atteggiamento:
“Non parleremo di nuovo di questo… argomento finché non sarà trascorso un mese. Avrà il tempo di considerare i relativi vantaggi delle due strade che sono davanti a lei. Mi dispiacerebbe spingerla ad una decisione affrettata. Sono soddisfatto di aver espresso i miei sentimenti al riguardo e di averle indicato il sentiero del dovere. Ricordi, un mese esatto, non una parola prima.”
Poi si alzò e lasciai la stanza estremante agitata ed esausta.
Questa conversazione, tutte le circostanze che la riguardavano, ma soprattutto la formidabile espressione dello sguardo di mio zio mentre parlava dell’omicidio, sebbene in modo ipotetico, contribuirono a suscitare i miei peggiori sospetti su di lui. Avevo paura di guardare la faccia che poco prima indossava la livrea della colpa e della malignità. Pensavo ad essa con quel misto di paura e avversione con cui si considera un oggetto che ci ha torturato in un incubo.
Pochi giorni dopo la conversazione i cui particolari ho appena descritto, trovai un biglietto sul mio tavolo da toilette, e quando l’aprii, lessi la seguente comunicazione:
‘MIA CARA LADY MARGARET,
forse si sorprenderà nel vedere una faccia nuova nella sua stanza oggi. Ho licenziato la sua cameriera irlandese e me ne sono procurata una francese da mettere al suo servizio – un passo resosi necessario dal momento che ho intenzione di visitare il continente a breve, con tutta la famiglia.
Il suo devoto tutore,
ARTHUR T----N
Quando mi informai, scoprii che la mia fedele assistente era veramente andata via e ormai lontana sulla strada per la città di Galway. Al suo posto apparve un’anziana donna francese, alta, ossuta e di sgradevole aspetto, i cui modi sgarbati e supponenti sembravano suggerire che la sua vocazione non era mai stata prima quella della cameriera personale. Non potei fare a meno di considerarla come una creatura di mio zio e pertanto da essere temuta, anche se non mi aveva dato altro motivo di sospetto.
I giorni e le settimane passavano senza alcun dubbio da parte mia, nemmeno momentaneo, sul percorso da seguire. Il periodo concesso alla fine trascorse, e arrivò il giorno in cui dovevo comunicare la mia decisione a mio zio. Anche se la mia volontà non aveva vacillato nemmeno per un momento, non riuscivo a scacciare la paura per l’imminente colloquio, e il cuore mi venne meno quando mi fu annunciata l’attesa convocazione.
Non avevo più visto mio cugino Edward dall’episodio del grande chiarimento, doveva avermi artatamente evitata – suppongo per strategia, non certo per delicatezza. Ero preparata ad una terribile esplosione di rabbia da parte di mio zio, non appena gli avessi palesato la mia determinazione, e non senza ragione temevo che in seguito si sarebbe fatto ricorso a qualche gesto violento o di intimidazione.
Colma di queste terribili previsioni, aprii con trepidazione la porta dello studio e un minuto dopo ero in presenza di mio zio. Mi ricevette con una cortesia che mi intimorì, dal momento suggeriva un pronostico positivo riguardo alla risposta che stavo per dare. Dopo una lieve esitazione, iniziò col dire:
“Sarà un sollievo per entrambi, credo, concludere questa conversazione al più presto possibile. Mi scuserà, allora, mia cara nipote, se parlerò con una schiettezza che in altre circostanze sarebbe imperdonabile. Sono certo che ha riflettuto con imparzialità e serietà sull’argomento del nostro ultimo colloquio e confido che lei sia ora pronta a presentarmi la sua risposta in tutta onestà. Basteranno poche parole – noi due ci intendiamo perfettamente.”
Si tacque ed io, sebbene sentissi di essere su di una mina che poteva esplodere da un momento all’altro, tuttavia risposi con assoluta calma:
“Ebbene, signore, devo darle la stessa risposta della volta scorsa e reiterare la dichiarazione che feci allora: che io non posso né voglio, finché mi restano vita e ragione, acconsentire ad un’unione con mio cugino Edward.”
Apparentemente questo annuncio non provocò nessun cambiamento in sir Arthur, se non che divenne di un pallore mortale, quasi livido. Per un minuto sembrò immerso in foschi pensieri e poi, con un certo sforzo, disse:
“Mi ha risposto in modo onesto e diretto, e afferma che la sua decisione è immutabile. Bene, se fosse andata diversamente - se fosse andata diversamente – ma sia come sia – sono soddisfatto.”
Mi diede la mano – era fredda e umida come la morte. Sotto una calma apparente, era evidente che era paurosamente agitato. Continuò a tenermi la mano in una stretta quasi dolorosa, mentre, apparentemente dimentico della mia presenza, quasi inconsciamente, mormorò:
“Strano, strano, strano veramente! Stupidità, fatale stupidità!” ci fu una lunga pausa. “Di sicuro follia, tendere una corda marcia fino al cuore – non può che rompersi – e poi… tutto va in malora.”
Ci fu di nuovo una pausa di qualche minuto, dopo di che, cambiando improvvisamente voce e mutando il suo atteggiamento in uno di attenta sollecitudine, esclamò:
“Margaret, mio figlio Edward non la tormenterà più. Domani lascerà questo paese per la Francia – non toccherà più questo argomento – mai, mai più. Qualunque siano le conseguenze della sua risposta, ora devono fare il loro corso ma, per quel che riguarda questa sterile proposta, essa è stata tentata a sufficienza, non può essere più ripetuta.”
A queste parole, lasciò cadere la mia mano con freddezza, come ad esprimere il suo totale abbandono dei progettati piani di matrimonio e, certamente, quell’azione, con le parole la accompagnavano, produsse sulla mia mente un effetto ancora più severo e deprimente, se possibile, di quello che aveva causato la direzione che avevo deciso di seguire. Fui colpita al cuore da uno sbigottimento e una pesantezza che di solito accompagnano l’adempimento di un atto importante e irrevocabile, sebbene non rimanga dubbio o scrupolo che possa convincere l’interessato a desiderare di revocarlo.
“Bene,” disse mio zio, dopo poco, “ora smettiamo di parlare di questo argomento, per non riprenderlo mai più. Ricordi, non riceverà altro fastidio da Edward, domani lascerà l’Irlanda alla volta della Francia, questo per lei sarà un sollievo. Posso contare sul suo ONORE che non una parola riguardo all’argomento di questo colloquio le sfuggirà mai?”
Gli diedi la rassicurazione desiderata e lui disse:
“Va bene, sono soddisfatto, credo che non abbiamo più nulla da dirci e la mia presenza deve essere per lei un peso, pertanto la saluto.”
Allora lasciai la stanza, sapendo a malapena cosa pensare dello strano colloquio che aveva appena avuto luogo.
Il giorno seguente, mio zio colse l’occasione per dirmi che Edward si era imbarcato, a meno che il suo intento non fosse stato ostacolato da circostanze avverse, e due giorni dopo mi recò una lettera di sui figlio, scritta, come si dice, A BORDO, e spedita mentre la nave era in navigazione. Questa fu una grande soddisfazione per me, e probabilmente, a dimostrazione che era vero, per fugare ogni dubbio la notizia mi fu comunicata da sir Arthur.
Durante tutto questo faticoso periodo, trovai infinita consolazione nella compagnia e nella comprensione della mia cara cugina Emily. Dopo, non sono più riuscita a creare un’amicizia così intima, così profonda e che potevo ricordare, in ogni suo aspetto, con sentimenti di genuino piacere, e sulla cui fine devo sempre indugiare con un rimpianto così profondo e tuttavia altrettanto privo di amarezza. Nelle nostre liete conversazioni, recuperai considerevolmente il morale e trascorsi il mio tempo in maniera abbastanza piacevole, sebbene ancora nel più rigido isolamento.
Le cose si svolgevano in modo abbastanza tranquillo, sebbene, a volte, non potevo fare a meno di provare una momentanea ma orribile incertezza rispetto al carattere di mio zio, che era in parte giustificata dalle circostanze dei due snervanti colloqui i cui particolari ho appena descritto in dettaglio. La spiacevole impressione che questi incontri avevano di conseguenza lasciato sulla mia mente, stava svanendo velocemente, quando si verificò una circostanza, di per sé insignificante, ma fatalmente destinata a risvegliare tutti i miei peggiori sospetti e a colmarmi di ansia e terrore.
Un giorno ero uscita con mia cugina Emily per fare una lunga passeggiata, con l’intento di disegnare alcuni panorami a noi cari. Avevamo camminato per quasi un chilometro quando mi resi conto che avevamo dimenticato i materiali da disegno, senza i quali l’oggetto della nostra passeggiata sarebbe stato vanificato. Ridendo della nostra sbadataggine, tornammo a casa e, lasciata Emily fuori, corsi sopra per recuperare gli album da disegno e le matite che si trovavano nella mia camera da letto.
Quando arrivai in cima alle scale mi venne incontro quella francese alta e brutta, palesemente in piena agitazione.
“Que veut, madame?” disse, sforzandosi di essere gentile in maniera molto più netta di quanto non l’avessi mai vista fare prima.
“No, no… non importa,” dissi, correndo oltre in direzione della mia stanza
“Madame,” gridò, con voce stridula, “restez ici, s'il vous plait; votre chambre n'est pas faite… la vostra camera non è ancora pronta.”
Continuai a correre senza badarle. Era dietro di me e vedendo che altrimenti non avrebbe potuto impedirmi di entrare, perché adesso ero arrivata proprio all’anticamera, fece un disperato tentativo per trattenermi, riuscendo ad afferrare l’estremità del mio scialle che mi tolse dalle spalle ma, nello stesso tempo, cadde lunga distesa sul pavimento. Un po’ spaventata e un po’ arrabbiata per le maniere rozze di quella strana donna, per sfuggirle spalancai d’impeto la porta della mia stanza, di fronte a cui ora mi trovavo, ma quando entrai il mio stupore fu grande nel trovare la camera già occupata.
La finestra era aperta e lì vicino c’erano due figure maschili, sembrava che ne stessero esaminando la chiusura e le loro schiene erano rivolte alla porta. Uno di loro era mio zio, al mio ingresso si voltarono entrambi, quasi di soprassalto. Lo straniero indossava stivali, un mantello ed un cappello a falde larghe calcato sugli occhi. Si voltò solo per un attimo e col volto nascosto, ma avevo visto abbastanza per convincermi che non era altri che mio cugino Edward.
Mio zio aveva in mano un attrezzo di ferro che nascose velocemente dietro la schiena e venendo verso di me, disse qualcosa quasi in tono esplicativo, ma ero troppo stupita e confusa per capire di cosa si trattasse. Disse qualcosa come ‘RIPARAZIONI… finestra… cornici… freddo e sicurezza.’ Non mi fermai, comunque, per chiedere o ricevere spiegazioni, ma lasciai velocemente la stanza. Mentre scendevo le scale, mi sembrò di sentire la voce della francese in una stridula profusione di scuse accompagnata, comunque, da imprecazioni soppresse ma veementi, o così mi sembrò, a cui si mescolava chiaramente la voce di mio cugino Edward.
Raggiunsi mia cugina Emily quasi senza fiato. Non è necessario dire che la mia testa era troppo piena di altre cose per pensare a disegnare quel giorno. Le comunicai con franchezza, ma allo stesso tempo con quanta delicatezza potevo, le cause dei miei timori e lei mi promise in lacrime attenzione, devozione e amore. Non ebbi mai motivo, nemmeno per un momento, di pentirmi della fiducia senza riserve che allora riposi in lei. Non era meno sorpresa di me per l’improvvisa comparsa di Edward, della cui partenza per la Francia nessuna di noi due aveva dubitato per un momento, ma ora la sua presenza dimostrava che non era altro che un’impostura, messa in pratica, temevo, non certo a fin di bene.
La situazione in cui avevo sorpreso mio zio aveva completamente rimosso tutti i miei dubbi riguardo ai suoi progetti.
Enfatizzai i miei sospetti fino a farli diventare certezze e notte dopo notte temetti di essere assassinata nel mio letto. Il nervosismo prodotto dalle notti insonni e dai giorni di ansiose paure accrebbero l’orrore della mia situazione ad un tale punto che, alla fine, scrissi una lettera a Mr. Jefferies, un vecchio e fedele amico di mio padre e perfettamente informato di tutti i suoi affari, pregandolo, per amor di Dio, di liberarmi dalla mia attuale terribile situazione e comunicandogli, senza riserve, la natura e i motivi dei miei sospetti.Tenni questa lettera sigillata e sempre addosso a me per due o tre giorni, perché la scoperta sarebbe stata una sciagura, in attesa di un’opportunità che potesse essere sicura e affidabile, in modo da farla arrivare all’ufficio postale. Dal momento che né a me né ad Emily era permesso oltrepassare i confini della proprietà, che era circondata da alti muri di pietra, la difficoltà di procurarmi tale opportunità era ancora maggiore.
In quel periodo Emily ebbe una breve conversazione con suo padre, che mi riferì immediatamente.
Dopo alcuni argomenti di poca importanza, le chiese se noi due eravamo in buoni rapporti e se io ero di animo schietto. Lei rispose affermativamente e lui le chiese se ero rimasta molto sorpresa di trovarlo nella mia camera il giorno precedente. Rispose che ero rimasta sorpresa e divertita.
“E come le è sembrato George Wilson?”
“Chi?” chiese lei.
“Oh, l’architetto.” rispose lui, “che sta per appaltare le riparazioni della casa, è considerato un bell’uomo.”
“Non riuscì a vederlo in faccia,” disse Emily, “ed aveva una tale fretta di scappare via, che a malapena lo notò.”
Sir Arthaur sembrò soddisfatto e la conversazione terminò. Questa breve conversazione, accuratamente riportatami da Emily, ebbe l’effetto di confermare, se ce ne fosse stato bisogno, tutto quello che avevo precedentemente pensato sulla presenza di Edward e, naturalmente, divenni, se possibile, ancora più ansiosa di spedire la lettera a Mr. Jefferies. Un’opportunità, alla fine, si presentò.
Un giorno, mentre io ed Emily stavamo passeggiando vicino al cancello della tenuta, capitò che un giovanotto del villaggio passasse lungo il viale della casa: il luogo era appartato, e dal momento che questa persona non era collegata da rapporti di lavoro con quelli di cui temevo il controllo, affidai la lettera alla sua custodia, con rigorose istruzioni di imbucarla senza indugio all’ufficio postale del paese, allo stesso tempo aggiunsi un’adeguata mancia, e l’uomo, dopo avermi dato numerose rassicurazioni di puntualità, scomparve presto alla vista.
Costui era appena andato via, quando iniziai a dubitare della mia prudenza per essermi fidata di questa persona, ma non avevo mezzi più sicuri o migliori per spedire la lettera, e non avevo giustificazioni per sospettarlo di una così sfrenata disonestà quale l’intenzione di distruggerla, ma non potevo essere certa dell’integrità della lettera finché non avessi ricevuto una risposta, che poteva arrivare solo dopo qualche giorno. Prima, comunque, successe qualcosa che mi sorprese alquanto.
Era mattino presto ed io sedevo nella mia camera intenta a leggere, quando sentii bussare alla porta.
“Avanti,” dissi e mio zio entrò nella camera.
“Vuole scusarmi?” disse. “L’ho cercata nel salotto e poi sono venuto qui. Desideravo scambiare una parola con lei. Credo che fino a questo momento lei abbia trovato la mia condotta nei suoi riguardi proprio come dovrebbe essere quella di un tutore nei riguardi della sua pupilla.”
Non osai negargli il mio consenso.
“E,” continuò, “credo che non mi abbia trovato duro o ingiusto e che lei si sia resa conto, mia cara nipote, come io abbia cercato di rendere questo misero luogo piacevole per lei come può esserlo per me.”
Acconsentii di nuovo e lui mise la mano in tasca, ne tirò fuori un foglio di carta ripiegato e, gettandolo sul tavolo con sorprendente enfasi, disse:
“Ha scritto lei quella lettera?”
L’improvvisa e malinconica alterazione della sua voce, del suo atteggiamento e del suo volto, ma, più di tutto, l’inattesa esibizione della mia lettera a Mr. Jefferies, che riconobbi immediatamente, mi confusero e terrorizzarono a tal punto che mi sentii quasi soffocare.
Non riuscii a pronunciare una parola.
“Ha scritto lei quella lettera?” ripeté con lenta e intensa enfasi. “E’ stata lei, bugiarda e ipocrita! Ha osato scrivere questa calunnia disgustosa e infame, ma sarà l’ultima. Tutti la crederanno pazza, se deciderò di metterla sotto inchiesta. Posso farla apparire tale.” “I sospetti espressi in questa lettera sono le allucinazioni e gli allarmi di un’avvilente follia. Ho sconfitto il suo primo tentativo, signora e, giuro su Dio, se mai ne farà un altro, catene, giaciglio di paglia, oscurità e la frusta del guardiano saranno il suo cibo quotidiano!”
Con queste incredibili parole, uscì dalla stanza, lasciandomi mezza svenuta. Ero completamente ridotta alla disperazione, il mio ultimo tentativo era fallito. Non mi era rimasto altro che fuggire in segreto dal castello e mettermi sotto la protezione del più vicino magistrato. Sentivo che se non lo avessi fatto, e il prima possibile, sarei stata ASSASSINATA.
Nessuno, in base alla semplice descrizione, può farsi un’idea dell’assoluto orrore della mia situazione – una ragazza indifesa, debole e inesperta, messa sotto l’autorità e alla completa mercé di uomini malvagi, sapendo che non era in suo potere sfuggire per un momento alle maligne influenze sotto cui era probabilmente destinata a cadere e con la consapevolezza che se violenza e omicidio erano il progetto finale, il suo grido di morte si sarebbe perso nel vuoto: nessun essere umano le sarebbe stato accanto per aiutarla, nessuna interposizione umana poteva liberarla.
Avevo visto Edward soltanto una volta durante la sua visita e non lo avevo più incontrato. Iniziai a pensare che fosse andato via – una convinzione che era in certo qual modo soddisfacente, perché credevo che la sua assenza stesse ad indicare l’esclusione di un pericolo imminente. Anche Emily arrivò alle stesse conclusioni per vie traverse, e non senza buone ragioni, perché riuscì a sapere indirettamente che il cavallo nero di Edward era realmente stato nelle stalle del castello per un giorno e parte della notte, proprio nel periodo della supposta visita del fratello. Il cavallo non c’era più e pertanto, arguì, anche il cavaliere doveva essere andato via.
Dopo essere giunta a questa conclusione, mi sentii un po’ meno avvilita, quando un giorno, trovandomi sola nella mia stanza, guardai casualmente fuori dalla finestra e, con mio indescrivibile orrore, vidi la faccia di mio cugino Edward che mi spiava dalla finestra difronte. Se avessi visto il diavolo stesso in forma umana, non avrei provato un disgusto più nauseante. Ero troppo sbalordita per spostami subito dalla finestra, ma ci riuscii in tempo per sottrarmi alla sua vista. Lui stava fissando lo stretto cortile quadrangolare su cui si affacciava la finestra. Mi ritrassi senza esser vista e trascorsi il resto della giornata nel terrore e nella disperazione. Mi ritirai presto nella mia camera quella sera, ma ero troppo infelice per dormire.Era circa mezzanotte quando, essendo molto agitata, decisi di chiamare mia cugina Emily, che dormiva, come ricorderà, nella camera accanto, che comunicava con la mia tramite una seconda porta. Mi feci strada verso la sua camera attraverso questo ingresso privato e la persuasi senza difficoltà a venire nella mia stanza e a dormire con me. Quindi, ci coricammo insieme, lei svestita, io con i vestiti addosso, perché mi alzavo ogni momento e camminavo su e giù per la camera, troppo agitata e infelice per pensare a dormire o a riposarmi.
Emily
si addormentò subito profondamente mentre io giacevo sveglia,
bramando ardentemente il primo pallido baluginare del mattino,
contando ogni rintocco del vecchio orologio con un’impazienza che
faceva sembrare ogni ora come sei.
Doveva essere circa l’una, quando mi sembrò di sentire un leggero rumore alla porta divisoria tra la stanza di Emily e la mia, come se qualcuno stesse girando la chiave nella serratura. Trattenni il respiro e lo stesso rumore si ripeté alla seconda porta della mia camera – quella che dava sul ballatoio - questa volta il rumore era chiaramente provocato dal chiavistello che girava nella serratura, seguito da una leggera pressione sulla porta, come per accertarsi dell’efficienza della serratura.
La persona, chiunque potesse essere, rimase probabilmente soddisfatta, perché sentii le vecchie tavole del ballatoio scricchiolare e cigolare, come sotto il peso di qualcuno che si muovesse con circospezione. Il mio senso dell’udito divenne innaturalmente, quasi dolorosamente acuto. Suppongo che l’immaginazione aggiungesse chiarezza a rumori di per sé vaghi. Mi sembrava di poter sentire il respiro della persona che stava lentamente lasciando il ballatoio.
In cima alle scale sembrò esserci una pausa e riuscii a sentire chiaramente due o tre frasi sussurrate velocemente, i passi, allora, scesero giù per le scale apparentemente con meno cautela. A questo punto, mi avventurai a camminare velocemente e in punta di piedi verso la porta del ballatoio e tentai di aprirla: era serrata dall’esterno, come l’altra. Capii che l’ora fatale era arrivata, ma rimaneva un ultimo disperato espediente – cioè svegliare Emily e con le nostre energie unite tentare di forzare la porta divisoria, che era più leggera dell’altra, e poi scendere nella parte inferiore della casa, da dove era possibile fuggire verso i campi e da lì verso il villaggio.
Tornai accanto al letto e iniziai a scuotere Emily, ma invano. Tutto quello che potei fare non servì ad altro che a ricavare da lei poche parole senza senso – era un sonno simile alla morte. Aveva certamente bevuto del narcotico, come probabilmente avevo fatto anche io, a dispetto di tutte le precauzioni con cui avevo esaminato tutto quello che ci avevano portato da mangiare e da bere.
Allora, facendo meno rumore possibile, tentai di forzare prima una porta, poi l’altra – ma tutto invano. Credo che nessuno sforzo sarebbe servito allo scopo, perché entrambe le porte si aprivano verso l’interno. Pertanto, raccolsi tutti i mobili che potei trasportare fin là e li ammucchiai contro le porte, come supporto in qualunque tentativo io facessi per oppormi all’ingresso di quelli che erano fuori. Mi inginocchiai e pregai con esasperato fervore, poi mi sedetti sul letto e attesi il mio destino con una sorta di terribile tranquillità. Sentii un debole suono metallico provenire dall’angusto cortile che ho già menzionato, come causato dallo sfregamento di un qualche attrezzo di metallo contro i sassi o un mucchio di terriccio.
Dapprincipio decisi di non turbare la calma che adesso provavo, andando inutilmente a spiare le azioni di coloro che volevano la mia vita, ma dal momento che i rumori continuavano, la tremenda curiosità che provavo vinse ogni altra emozione e decisi, ad ogni costo, di gratificarla. Pertanto mi avvicinai alla finestre strisciando sulle ginocchia, così da far sporgere oltre il davanzale la più piccola porzione di testa possibile.
La luna adesso brillava con un incerto bagliore sugli antichi edifici grigi e, obliquamente, sull’angusto cortile sottostante, un lato del quale era pertanto chiaramente illuminato, mentre l’altro era immerso nell’oscurità, dal momento che, a prima vista, erano visibili soltanto gli appuntiti profili dei vecchi tetti, con i loro grappoli di edera rampicante. Chiunque o qualunque cosa provocasse il rumore che aveva suscitato la mia curiosità, era nascosto nell’ombra del lato oscuro del cortile. Schermai gli occhi con la mano per proteggerli dalla luce lunare, che era così intensa da essere quasi accecante e, scrutando nelle tenebre, riuscii a vedere, prima vagamente ma poi, gradualmente, quasi in maniera distinta, la sagoma dell’uomo impegnato a scavare quella che sembrava essere una buca grossolana a ridosso del muro.
Alcuni attrezzi, probabilmente una pala ed un piccone, giacevano accanto a lui, e di questi usava ora l’uno ora l’altro, così come la natura del terreno richiedeva. Portò a compimento il suo lavoro rapidamente e col minor rumore possibile.
“Ecco,” pensai, mentre, palata dopo palata, il terriccio scavato si ammucchiava, “stanno scavando la tomba in cui, prima di due ore, dovrò giacere, un cadavere freddo, straziato. Sono in LORO potere… non posso fuggire.”
Mi sentii come se la ragione mi stesse abbandonando. Balzai in piedi e, in preda alla disperazione, mi dedicai di nuovo a ognuna delle due porte, alterernativamente. Tesi fino allo spasimo ogni nervo e ogni tendine, ma avrei potuto egualmente tentare, con la mia sola forza, di spostare l’edificio stesso dalle sue fondamenta. Mi gettai a terra come impazzita, e serrai le mani sugli occhi, come ad escludere le orribili immagini che mi si affollavano intorno.
Il parossismo scemò. Pregai ancora una volta con l’amaro, agonizzante fervore di chi sente che l’ora della sua morte è vicina e ineluttabile. Quando mi alzai, andai di nuovo alla finestra e guardai fuori, giusto in tempo per vedere una sagoma scura scivolare furtivamente lungo il muro. Il lavoro era finito. La catastrofe della tragediavii doveva essere immediatamente portata a compimento. Allora decisi di difendere la mia vita fino alla fine e, affinché potessi farlo con qualche risultato, rovistai la stanza alla ricerca di qualcosa che potesse servirmi come arma ma, o per caso o perché una tale evenienza era stata prevista, tutto quello che avrebbe potuto fare allo scopo era stato attentamente rimosso. Avrei dovuto morire supinamente e senza tentare di difendermi.
Improvvisamente ebbi un’idea: non sarebbe stato possibile fuggire attraverso la porta che l’assassino doveva aprire per entrare nella stanza? Decisi di fare un tentativo. Ero sicura che la porta scelta per entrare nella stanza sarebbe stata quella che dava sul ballatoio. Era la via più diretta, oltre ad essere, per ovvie ragioni, meno esposta ad interruzioni dell’altra. Decisi, allora, di piazzarmi dietro una sporgenza del muro, la cui ombra sarebbe servita a nascondermi completamente quando la porta fosse stata aperta, e prima che l’identità di chi occupava il letto fosse scoperta, sarei uscita silenziosamente dalla stanza per poi affidarmi alla Provvidenza per fuggire.
Allo scopo di facilitare questo piano, spostai i mobili che avevo ammucchiato contro la porta. Avevo quasi completato i miei preparativi, quando mi accorsi che la stanza si era rabbuiata a causa di un qualche oggetto scuro a ridosso della finestra. Volgendo lo sguardo in quella direzione, potei vedere, in cima alla finestra, come sospesi dall’alto, prima i piedi, poi le gambe, poi il corpo e, infine, presentarsi l’intera figura di un uomo. Era Edward T----n.
Sembrava guidare la sua discesa in modo da piantare i piedi al centro del blocco di pietra che occupava la parte inferiore della finestra e, dopo esserci riuscito, si inginocchiò e iniziò a scrutare nella stanza. Poiché la luna brillava nella camera, e le cortine del letto erano scostate, fu in grado di distinguere il letto e quello che c’era dentro.
Sembrò soddisfatto della sua indagine, perché guardò in alto e fece un cenno con la mano, al che la fune con cui aveva effettuato la sua discesa fu allentata dall’alto e lui si affrettò a slegarla dalla vita, ciò fatto, appoggiò le mani alla cornice della finestra, che doveva essere stata ingegnosamente preparata per questo scopo, perché, apparentemente senza nessuna resistenza, tutta la struttura, contenente i vetri e tutto il resto, scivolò dalla sua posizione nel muro e fu da lui calata nella stanza.
Il freddo vento notturno agitò le tende del letto e lui si fermò per un momento – tutto era di nuovo tranquillo – e poi scese sul pavimento della camera. In mano reggeva quello che sembrava essere un attrezzo di metallo, che rassomigliava ad un martello, ma più largo e appuntito alle estremità. Lo teneva un po’ dietro di sé mentre, con tre lunghi passi in punta di piedi, si portò vicino al letto.
Pensai che adesso la verità sarebbe stata scoperta e trattenni il respiro nella trepida attesa della maledizione con cui avrebbe espresso la sua sorpresa e il suo disappunto. Chiusi gli occhi – ci fu una pausa, ma breve. Sentii due colpi sordi, dati in rapida successione: un tremolante singhiozzo e il respiro profondo e pesante della dormiente fu interrotto per sempre. Dischiusi gli occhi e vidi l’assassino gettare la coperta sulla testa della sua vittima, poi, con lo strumento di morte ancora in mano, andò alla porta del ballatoio, su cui bussò in modo deciso due o tre volte.
Allora si sentì l’avvicinarsi di un passo veloce e una voce sussurrò qualcosa dall’esterno. Edward rispose, con una specie di ghigno, “Sua signoria ha finito di lamentarsi; apri la porta, in nome del diavolo, a meno che non hai paura di entrare e aiutarmi a portare il corpo fino alla finestra.”
La chiave girò nella serratura... la porta si aprì… e mio zio entrò nella stanza.
Come le ho già detto, mi ero messa all’ombra di una sporgenza del muro, vicino alla porta. All’ingresso di Edward attraverso la finestra, mi ero istintivamente abbassata, rannicchiandomi verso il pavimento. Quando entrò mio zio, lui e suo figlio erano così vicini a me che la sua mano era sempre sul punto di toccarmi la faccia. Trattenni il respiro e rimasi immobile come morta.
“Nessuna interferenza dalla stanza accanto?” disse mio zio.
“No,” fu la breve risposta.
Allora, ritornarono al letto, avvolsero le coperte intorno al corpo, lo trasportarono lentamente fino alla finestra e, scambiate poche brevi parole con qualcuno lì sotto, lo spinsero oltre il davanzale e lo sentii cadere pesantemente sul terreno sottostante.
“I gioielli li prendo io,” disse mio zio, “ce ne sono due cofanetti nel cassetto in basso.”
Agì con una meticolosità che, se fossi stata più calma, mi avrebbe fornito materia di meraviglia, poiché mise le mani nel posto esatto in cui si trovavano i miei gioielli. Dopo essersene impossessato, chiamò suo figlio:
“La fune, è stata assicurata in alto?”
“Non sono uno sciocco… certo che lo è?” rispose.
Poi si calarono dalla finestra. A quel punto, mi alzai dal mio nascondiglio con estrema cautela, osando a malapena respirare, e stavo silenziosamente scivolando verso la porta quando sentii la voce di mio cugino esclamare con un brusco sibilo, “Sali di nuovo! Dannazione, hai dimenticato di chiudere la porta della camera!” E mi resi conto, dalla tensione della corda che pendeva dall’alto, che l’ordine era stato immediatamente eseguito.
Non c’era un secondo da perdere. Oltrepassai la porta, che era soltanto chiusa, e mi mossi lungo il pianerottolo quanto più rapidamente e silenziosamente possibile. Prima che avessi percorso qualche metro, sentii chiudere a doppia mandata, dall’interno, la porta attraverso cui ero appena passata. Volai giù per le scale in preda al terrore, temendo che potessi incontrare l’assassino o uno del suoi complici ad ogni angolo.
Raggiunsi l’ingresso e mi misi brevemente in ascolto per assicurarmi che lì intorno tutto fosse tranquillo: non sentii alcun rumore. Le finestre del salotto si aprivano sul parco e pensai di poter attuare la mia fuga attraverso una di queste. Di conseguenza, entrai in tutta fretta ma, con mia grande costernazione, nella stanza c’era una candela accesa e alla sua luce vidi una figura seduta al tavolo da pranzo, su cui erano sparsi bicchieri, bottiglie e gli altri accessori di una bevuta. Intorno al tavolo, c’erano due o tre sedie in disordine, come se frettolosamente abbandonate dai loro occupanti.
Un solo sguardo fu sufficiente a sincerarmi che la figura era quella della mia cameriera francese. Era profondamente addormentata, avendo probabilmente bevuto tanto. C’era qualcosa di perfido e spettrale nella tranquillità dei lineamenti di quella donna malvagia, fiocamente illuminati, come erano, dal baluginante bagliore della candela. Sul tavolo c’era un coltello e un terribile pensiero mi colpì, “Dovrei uccidere la complice addormentata di quegli assassini e così assicurarmi la fuga?”
Niente avrebbe potuto essere più semplice, non si trattava che di infilzare la lama nella sua gola, il lavoro di un secondo. L’esitazione di un attimo, comunque, mi fece ricredere. “No,” pensai, “il Dio che mi ha condotta fin qui attraverso la valle della morte, non mi abbandonerà adessoviii. Cadrò nelle loro mani o fuggirò da qui, ma non mi macchierò le mani di sangue. Sia fatta la sua volontà.”
Dopo questa riflessione sentii sorgere in me una fiducia, una garanzia di protezione che non riesco a descrivere. Non c’era altro modo per fuggire, così avanzai, a passo fermo e mente fredda, fino alla finestra. Senza far rumore, tolsi le sbarre e dischiusi le imposte – aprii la finestra e, senza aspettare di guardarmi dietro, corsi a più non posso giù per il viale, avendo cura di tenermi sull’erba che lo delimitava, sentendo a mala pena la terra sotto di me.
Non rallentai la mia corsa nemmeno per un istante, ed ero ormai a metà tra il cancello del parco e la casa. Qui il viale faceva un’ampia curva e, allo scopo di evitare ogni possibile ritardo, diressi i miei passi attraverso il morbido tappeto erboso intorno a cui il sentiero girava, con l’intenzione, una volta arrivata al lato opposto di quel tratto in un punto contrassegnato da un gruppo di vecchie betulle, di rientrare sul sentiero battuto, che da lì in poi era abbastanza dritto fino al cancello.
Correndo a più non posso, ero a metà strada di quell’ampio tratto quando mi giunse all’orecchio il rapido calpestio degli zoccoli di un cavallo – ero inseguita – erano ormai sul prato dove stavo correndo – non c’era un cespuglio od un rovo per ripararmi – e come a rendere la fuga ancora più disperata, la luna, che fino ad allora era stata coperta, in quel momento iniziò a brillare con una luce ampia e chiara, che rese distintamente visibile ogni oggetto.
Adesso quel tramestio era proprio dietro di me. Sentii le ginocchia venirmi meno, con la stessa sensazione che ci tormenta nei sogni. Barcollai, inciampai, caddi, e nello stesso istante la causa del mio allarme mi sorpassò girandomi intorno a tutto galoppo. Era uno dei giovani puledri che pascolavano liberi nel parco, i cui giochi finora non mi avano certo fatto impazzire di terrore.
Scattai in piedi e continuai a correre a passi leggeri ma rapidi, mentre il mio giocoso compagno continuava a galopparmi intorno con molti salti e balzi, finché, finalmente, più morta che viva, raggiunsi l’ingresso del viale e attraversai il cancello, a malapena sapevo come.
Fuggii attraverso il villaggio, dove tutto era silenzioso come una tomba, finché la mia corsa fu fermata dalla voce roca di una sentinella, che gridò: “Chi va là?” Capii che adesso ero in salvo. Mi voltai in direzione di quella voce e caddi svenuta ai piedi del soldato. Quando rinvenni, ero seduta in un misero tugurio, circondata da strane facce, che esprimevano tutte curiosità e compassione.
C’erano anche molti soldati: infatti, come scoprii dopo, quella caupola era usata come posto di guardia da un distaccamento di truppe acquartierato in città per quella notte. In poche parole informai il loro ufficiale delle circostanze verificatesi, descrivendo anche l’aspetto delle persone coinvolte nell’omicidio, e quello, senza perdere tempo, procedette verso la dimora di Carrickleigh, portando con sé alcuni dei suoi uomini. Ma i furfanti avevano scoperto il loro errore e si erano dati alla fuga prima dell’arrivo dei militari.
Il giorno dopo, tuttavia, la francese fu arrestata nelle vicinanze. Fu processata e condannata nelle successive assise e prima della sua esecuzione confessò che “Aveva dato una mano a preparare il letto per HUGH TISDAL.”A quel tempo, aveva lavorato nel castello come governante ed era stata una specie di chere amie di mio zio. In realtà era capace di parlare inglese perfettamente, ma aveva usato esclusivamente il francese. Suppongo per facilitare il suo travestimento. Morì da incorreggibile canaglia come aveva sempre vissuto, confessando i suoi crimini, così sperava, allo scopo di poter coinvolgere Sir Arthur T----n, il principale responsabile delle sue colpe e delle sue disgrazie, che lei adesso considerava con odio irriducibile.
Lei è informato sui particolari della fuga di sir Arthur e di suo figlio, per quel che se ne sa. È anche a conoscenza del loro conseguente destino – il terribile, tremendo castigo che, a lungo rimandato, dopo molti anni finalmente li raggiunse e li annientò. Straordinari e imperscrutabili sono i rapporti fra Dio e le sue creature.
La mia gratitudine al cielo per la mia salvezza, resa possibile da una catena di provvidenziali avvenimenti - il venir meno di un solo anello avrebbe assicurato la mia distruzione – fu profonda e fervida, come deve sempre essere, molto prima che potessi guardarmi indietro con sentimenti diversi da quelli dell’amarezza, fin quasi della disperazione.
L’unico essere che mi abbia mai veramente amata, la mia amica più intima e cara, sempre pronta a capire, consigliare ed assistere – il cuore più allegro, gentile e affettuoso – l’unica creatura sulla terra a cui io importassi – proprio la sua vita era stato il prezzo della mia salvezza. Io allora espressi il desiderio, che nessun avvenimento della mia lunga e dolorosa esistenza mi ha mai convinto a revocare, che lei fosse stata risparmiata e che, al suo posto, fossi IO a marcire nella tomba, dimenticata e in pace.
FINE
iSquire: il termine sta ad indicare la piccola nobiltà di campagna, il signorotto proprietario della maggior parte della terra attorno a un villaggio.
iiGalway è una contea situata sulla costa nord-occidentale della Repubblica d'Irlanda, nota per i suoi paesaggi selvaggi ed incontaminati.iiiCork è la più meridionale e più vasta tra le contee dell'Irlanda e fa parte della Repubblica d'Irlanda.
iv2. Pittoresco: detto di opera pittorica che è realizzata con forti effetti chiaroscurali e che rappresenta paesaggi solitarî, spesso caratterizzati dalla presenza di imponenti architetture e rovine, e talvolta animata da scene di genere; con questa accezione, il termine è stato usato dai teorici inglesi nel corso del sec. 18°, soprattutto con riferimento alle opere di Salvator Rosa (1615-1673), di Claude G. Lorrain detto il Lorenese (1600-1682) e di Nicolas Poussin (1594-1665), per indicare il gusto e i caratteri di tale tipo di pittura. Alla fine del sec. 18° il termine entra in uso anche in architettura, riferito sia al giardino all’inglese sia agli edifici che imitano castelli medievali o sono caratterizzati da disposizioni asimmetriche dei varî corpi di fabbrica e dalla varietà dei rivestimenti esterni. (Treccani.it)
v Collettività dei signorotti di campagna, considerata specialmente in relazione alla sua influenza politica e sociale. Qui il termine è usato con valore dispregiativo.
viA New Way to Pay Old Debts (1633) Un nuovo modo per pagare vecchi debiti è un dramma del teatro rinascimentale inglese di Philip Massinger. Il suo personaggio centrale, Sir Giles Over-reach, un usuraio senza scrupoli ma con manie di grandezza, divenne uno dei più popolari cattivi delle scene inglesi e americane fino al XIX secolo. Fu un cavallo di battaglia del famoso attore inglrse Edmund Kean.
vii La catastrofe è l'ultima delle quattro parti in cui si considerava suddivisa la trama di una tragedia o di una commedia ben composta. Segue la protasi, l'epitasi e la catastasi. La catastrofe è quella vicenda conclusiva che chiude la peripezia del personaggio principale, scioglie i nodi, i conflitti e gli equivoci creati dalla trama, spesso con la rivelazione (αναγνώρισις, anagnòrisis) di un fatto ignoto ai personaggi o al pubblico, producendo la catarsi. Tale quadripartizione fu teorizzata in questi termini da Giulio Cesare Scaligero nel primo dei suoi Poetices libri, pubblicati postumi nel 1561
viii
La
nuova versione della Bibbia di re Giacomo (!611-1982)
Salmo23:4
Yea,
though I walk through the valley of the shadow of death, I will fear
no evil; For You are with
me; Your rod and Your staff, they comfort me.
Se,
anche camminassi
nella valle
della
morte, non temerò alcun pericolo, perché lui sarà con me, il suo
vincastro e il suo bastone mi conforteranno.