Una partita a scacchi
Il
Padrone di Moxon (Moxon's
Master)
è un racconto breve dello scrittore americano Ambrose Bierce (1842,
Ohio, Stati Uniti - 1914, Chihuahua, Messico), pubblicato la prima
volta nel 1893 nella raccolta Can
Such Things Be?. Bierce
fu scrittore, giornalista e aforista statunitense, tra i più
caustici della San Francisco a cavallo tra il 1850 e i primi anni del
XX secolo, al punto da meritarsi il soprannome di “Bitter Bierce”.
Viene ricordato soprattutto per il suo Dizionario
del diavolo,
dove, sotto l'innocua veste di lessicografo, mette alla berlina la
società del suo tempo. I suoi racconti brevi sono considerati tra i
migliori del XIX secolo, soprattutto quelli sulla guerra di
secessione come An
Occurrence at Owl Creek Bridge (Accadde al ponte di Owl Creek), A
Horseman in the Sky (Un cavaliere nel cielo) ampiamente
antologizzati. I suoi racconti fantastici anticiparono lo stile
grottesco che sarebbe diventato un vero e proprio genere letterario
nel XX secolo. La sua fine fu degna dei suoi migliori racconti
soprannaturali: scomparve in una nuvola di polvere durante una
battaglia in Messico dove era andato per seguire le vicende della
rivoluzione di Pancho Villa.
Il
padrone di Moxon, (tradotto anche come Il signore di Moxon o
La creatura di Moxon) è
un racconto breve ma ricco di suggestioni. Protagonisti sono Moxon,
inventore e filosofo dilettante,
e la sua creatura meccanica: un automa giocatore di scacchi. Lo
spunto narrativo parte dal
saggio di E. A. Poe Il giocatore di scacchi di
Maelzel (Maelzel's Chess Player,1836) in
cui lo scrittore smaschera un falso automa scacchista detto Il
Turco
che era diventato famoso in Europa e negli Stati Uniti. Ma “Bitter
Bierce” manipola la materia a suo modo. Come
si intuisce dal titolo, egli mette in guardia gli
uomini del suo tempo
contro la tirannia di una macchina tanto
simile all'uomo da ereditarne anche il suo lato oscuro (ricordate
HAL 9000
in 2001: Odissea
nello spazio?).
La
prima parte del racconto
si svolge sotto forma di dialogo quasi-platonico tra Moxon e il
narratore sulla natura dell'intelligenza e sul concetto di vita, che
Moxon interpreta in maniera meccanicistica, sulla scia di quel
pensiero positivista che faceva coincidere il progresso dell'umanità
con quello scientifico-tecnologico,
senza spazio per la spiritualità, riducendo l'uomo a “macchina”
vivente. E
del resto egli mette in dubbio la stessa idea di progresso, il suo
“Turco”
è un ibrido mostruoso, sul volto impassibile sono dipinte fattezze
umane, ma il corpo è quello di un gorilla, con arti asimmetrici dalla presa mortale, simbolo
di una
regressione ad uno stadio puramente istintivo, dove vige la logica
del più forte.
Egli sembra
portare
alle estreme conseguenze
le
teorie del
filosofo inglese
Herbert
Spencer, padre del darwinismo sociale che predicava “The survival
of the fittest”: in un mondo dove non c'è più spazio per lo
spirito, chi è il più adatto a sopravvivere, l'uomo o la macchina?
Testi
correlati:
►Dizionario
del diavolo - Bierce Ambrose, 2010, Guanda € 13,00
►Tutti
i racconti. Vol. 1- 2 - Bierce Ambrose, 2006, Fanucci
►Io,
robot - Asimov Isaac, 2003, Mondadori
►2001:
Odissea nello spazio - Clarke Arthur C.,
2000, Longanesi
IL
PADRONE DI MOXON
di
di
Ambrose
Bierce
“Dici
sul serio...? Credi veramente che una macchina possa pensare?”
Non
ebbi una risposta immediata; apparentemente Moxon era impegnato con i
tizzoni nel focolare, toccandoli abilmente qua e là con
l'attizzatoio finché quelli diedero un senso alla sua attenzione con
una fiamma più brillante. Per diverse settimane avevo osservato in
lui la crescente abitudine di rispondere in ritardo anche alle
domande più semplici e comuni. Questo atteggiamento, tuttavia, era
dovuto più alla preoccupazione che alla cautela: si sarebbe detto
che “aveva in mente qualcosa.”
Dopo
un po' disse:
“Che
cos'è una “macchina”? Questa parola è stata definita in diversi
modi. Ecco la definizione di un popolare dizionario: “Qualunque
strumento o apparato, grazie al quale l'energia viene impiegata e
resa operativa, o viene ottenuto un preciso effetto.” Bene, allora,
l'uomo non è forse una macchina? E ammetterai che pensa... o pensa
di pensare.”
“Se
non desideri rispondere alla mia domanda,” dissi, in maniera
piuttosto irritata, “perché non lo dici...? tutto quello che dici
è solo per sviare il discorso. Sai fin troppo bene che quando dico
“macchina” io non intendo l'uomo, ma qualcosa che l'uomo ha
costruito e controlla.”
“Quando
non ne è controllato,” disse, alzandosi improvvisamente e
guardando fuori dalla finestra, da dove non si vedeva niente a causa
dell'oscurità di una notte tempestosa. Un momento dopo si girò e
con un sorriso disse: “Ti chiedo scusa, non volevo essere evasivo.
Consideravo quella del dizionario un'ignara testimonianza dell'umo e
tuttavia suggestiva e degna di essere discussa. Posso dare abbastanza
facilmente una risposta diretta alla tua domanda: sono convinto che
una macchina possa pensare al lavoro che sta facendo.”