venerdì 25 maggio 2018

Il Grande Carbonchio


La magnifica ossessione







Il grande carbonchio (The Great Carbuncle, noto anche come Gran Rubino, Il gran carbonchio, La leggenda del grande rubino), è un racconto breve di Nathaniel Hawthorne contenuto in Racconti narrati due volte (Twice-Told Tales - 1842), in cui l'autore riunì racconti che erano stati già pubblicati in forma anonima su riviste letterarie o in raccolte annuali (soprattutto su "The Token", un libro strenna natalizio). Il titolo, verosimilmente, fu ispirato dal dramma shakespiriano Re Giovanni (atto III, scena 4), dove un personaggio afferma che “Life is as tedious as a twice-told tale, / Vexing the dull ear of a drowsy man.” ("La vita è noiosa come una storia narrata due volte, che infastidisce l'orecchio pigro d'uno già mezzo addormentato").

I racconti si ispirano a tradizioni locali, poi trascritte dall'autore. Nel caso del Il Grande Carbonchio, Hawthorne, come egli stesso precisa nella nota al titolo, afferma di ispirarsi ad una leggenda indiana “troppo selvaggia e troppo bella per essere adeguatamente rielaborata in prosa.” Tra boschi incontaminati, fiumi impetuosi e aspre cime inviolate, il variegato passato europeo si fonde con l'incanto della natura selvaggia e con gli echi delle culture native per dare forma ai protagonisti della nuova America. 

 

La storia, ambientata nella metà del seicento, si svolge in quel New England che rappresenta il cuore della giovane nazione americana, e narra di un gruppo di otto avventurieri arrivati alle pendici delle Montagne di Cristallo attratti dall'antica leggenda indiana del Grande Carbonchio, un rubino meraviglioso la cui luce incorona la cima più alta delle Crystal Hills e che li ha attirati a sé come la fiamma fa con la falena. E a quel fuoco rischieranno di bruciarsi tutti.

Come in un Morality Play*, i nomi dei personaggi alludono ai vizi e alle virtù che essi rappresentano. Così, il ricco mercante che sguazza nelle suo monete d'argento come il maiale nel fango, si chiama Pigsnort. Il dottor Cacaphodel è un alchimista che persegue la conquista della gemma per usarlo nei suoi folli esprimenti. Il Cercatore, il rude uomo delle montagne, mezzo uomo e mezzo animale, ha trascorso la sua vita all'inseguimento della gemma che vuol portare a morire con sé nel buio di una caverna. Il poeta, ha attraversato il mare nella speranza che la luce del rubino gli ridia l'ispirazione persa. Lord de Vere, rappresenta l'albagia di un'aristocrazia ormai morente, e vuole la gemma per illuminare i simboli dell'antica gloria. Matthew e Hannah, giovani sposi semplici e diretti come i loro nomi, sono la nota stonata di questo folle gruppo, ma anche loro hanno subito il fascino della pietra meravigliosa, che vogliono conquistare per illuminare, notte e giorno, il loro umile nido d'amore. Infine c'è il Cinico che, in onore al suo nome, si prende gioco di tutti ed è arrivato lì, dopo un lungo viaggio, solo per dimostrare che il Grande Carbonchio non esiste. Alla fine, secondo la legge del contrappasso, tutti avranno ciò che meritano, a meno di rendersi conto della loro follia e rinunciare al Grande Carbonchio.


Curiosità:

Il racconto è stato di nuovo raccontato da  Sylvia Plath (1932 – 1963) nella poesia The Great Carbuncle, scritto dopo un viaggio nello  Yorkshire, in cui la poetessa esplora l'atmosfera irreale della brughiera paragonandola alla luce trasfigurante del Grande Carbonchio. 







Il Grande Carbonchio.[1]
Un misero delle Montagne Bianche.



Saatchi Art Artist Hilary Baker; Painting, “The Great Carbuncle (after Hawthorne)

Al calare della notte, una volta, tanto tempo fa, sull'impervio versante di una delle colline di Cristallo1, un gruppo di avventurieri si stava ristorando dopo una faticosa e infruttuosa ricerca del Grande Carbonchio2. Erano arrivati lì, non come amici, non come soci nell'impresa, ma ognuno, salve una giovane coppia, sospinto dal proprio egoistico e solitario desiderio per questa stupefacente gemma. Il loro senso di cameratismo, comunque, era abbastanza forte da indurli ad un mutuo contributo per la costruzione di un rozzo capanno di rami e per accendere un grande fuoco con il legno di pini sradicati che erano scesi giù per la corrente precipitosa del fiume Amonoosuck3, sulla cui riva inferiore si accingevano a trascorrere la notte. Non ce n'era che uno, forse, che era diventato così estraneo al naturale sentimento di solidarietà, a causa del totalizzante coinvolgimento di quella ricerca, da non provare alcuna soddisfazione alla vista di volti umani, nella remota e solitaria regione a cui erano giunti.