Adattamenti
radiofonici
Ne sono
stati tratti tra il 1943 e il 1947 tre drammi radiofonici: il
primo vede Orson Welles cimentarsi nel ruolo del Generale Zaroff, il
secondo vede Joseph Cotten nei panni di Rainsford.
Cartoni
animati
Il
racconto ha ispirato anche il sedicesimo speciale di Halloween dei
Simpson,
La
Paura fa Novanta XVI.
Nell'episodio Sopravviverà
il più forte di taglia
(Survival
of the Fattest)
Homer Simpson e tutti gli altri uomini di Springfield vengono
invitati a una battuta di caccia nella tenuta del signor Burns, senza
sapere che le prede saranno proprio loro.
Serie
televisive
Most
Dangerous Game
è
una
serie americana
che
ha debuttato
su
Quibi nel
2020,
ispirata
al racconto di
Richard Connell. Nel
2022, Amazon Prime Video ha
fatto una versione
streaming degli
episodi, condensati
in
un film di
2 ore
e
7 minuti.
La
preda piu’ pericolosa
“Là
fuori, sulla destra... da qualche parte, c’è una grande isola,”
disse Whitney. “E’ alquanto misteriosa...”
“Di
che isola si tratta?” chiese Rainsford.
“Le
vecchie carte geografiche la chiamano ‘Isola trappola-per- navi,’
rispose Whitney. “Un nome suggestivo, non trovi? I marinai hanno
uno strano timore di quel posto. Non so il perché. Superstizioni...”
“Non riesco a vederla,” replicò Rainsford, sforzandosi di
guardare attraverso l’umida notte tropicale diventata palpabile
mentre spingeva la sua densa e calda oscurità sullo yacht.
“Tu
ha dei buoni occhi,” disse Whitney, con una risata. “E ti ho
visto colpire un alce in movimento nel bruno sottobosco autunnale a
circa quattrocento metri, ma nemmeno tu riesci a vedere a cinque
chilometri di distanza attraverso un notte caraibica senza luna.”
“Nemmeno
a tre metri,” ammise Rainsford. “Uh! E’ come un umido velluto
nero.” “Ci sarà abbastanza luce a Rio,” promise Whitney.
“Dovremmo esserci tra pochi giorni. Spero che i fucili per giaguaro
siano arrivati da Purdeyi.
Dovremmo fare una bella battuta di caccia in Amazzonia. Grande sport,
la caccia.”
“Il
miglior sport del mondo,” concordò Rainsford.
“Per
il cacciatore,” lo corresse Whitney. “Non per il giaguaro.”
“Non
dire sciocchezze, Whitney,” disse Rainsford. “Tu sei un
cacciatore di safari, non un filosofo. A chi importa cosa prova il
giaguaro?”
“Forse
al giaguaro,” osservò Whitney.
“Bah,
non sono così sensibili!”
“Ciononostante,
penso invece che una cosa la capiscano, la paura. La paura del dolore
e la paura della morte.”
“Stupidaggini,”
rise Rainsford. “Questo caldo torrido ti sta rammollendo, Whitney.
Sii realista. Al mondo ci sono due categorie – i cacciatori e le
prede. Per fortuna, tu ed io siamo cacciatori. Pensi che abbiamo già
passato l’isola?”
“Non
saprei dire, in questa oscurità. Lo spero.”
“Perché?”
chiese Rainsford.
“Il
posto ha una certa reputazione… una cattiva reputazione.”
“Cannibali?”
suggerì Rainsford.
“Difficilmente.
Neanche i cannibali vorrebbero vivere in quel posto dimenticato da
Dio. Ma è entrato a far parte delle leggende dei marinai, in qualche
modo. Non hai notato che i nervi della ciurma sembravano alquanto
tesi, oggi?”
“Erano
un po’ strani, ora che me lo dici. Perfino il capitano Nielsen...”
“Sì,
perfino quel testardo di un vecchio svedese, che andrebbe dal diavolo
in persona a chiedergli da accendere. Quei suoi vitrei occhi blu
avevano uno guardo che non avevo mai visto prima. Tutto quello che
sono riuscito a cavargli è stato ‘Questo posto ha una cattiva
fama tra la gente di mare, signore.” Poi ha aggiunto, con molta
serietà, ‘Non sente niente?’ Come se l’aria intorno a noi
fosse in realtà velenosa. Adesso, non devi ridere quando ti dirò
questo… ho sentito qualcosa come un improvviso gelo.
“Non
c’era un alito di vento. Il mare era piatto come una lastra di
vetro. In quel momento ci stavamo avvicinando all’isola. Quello che
avvertii fu un… un brivido nella mente; una sorta di improvviso
timore.”
“Pura
immaginazione,” disse Rainsford. “Un solo marinaio superstizioso
può infettare tutta la ciurma di una nave con la sua paura.”
“Forse.
Ma a volte penso che i marinai abbiano un sesto senso che gli dice
quando sono in pericolo. A volte mi viene da pensare che il male sia
una cosa tangibile, con una sua lunghezza d’onda, proprio come il
suono e la luce. Un luogo maligno può, per così dire, trasmettere
le vibrazioni del male. Comunque, sono contento che stiamo uscendo da
questa zona. Bene, penso di ritirarmi adesso, Rainsford.”
“Non
ho sonno,” disse Rainsford. “Fumerò un’altra pipa sul ponte di
poppa.”
“Buona
notte, allora, Rainsford. Ci vediamo a colazione.”
“Va
bene. Buona notte, Whitney.”
Quando
Rainsford si sedette lì, la notte non era attraversata da nessun
altro suono se non il battito del motore che spingeva velocemente lo
yacht attraverso l’oscurità e il fruscio e il gorgoglio della scia
dell’elica.
Rainsford,
accomodandosi su di una sedia a sdraio, fumava con indolenza la sua
pipa di radica. La sensuale sonnolenza della notte lo circondava. “E’
così buio,” pensò, “che potrei dormire senza chiudere gli
occhi, la notte sarebbe le mie palpebre...”
Un
rumore improvviso lo fece trasalire. Lo sentì venire da lontano,
sulla destra, e le sue orecchie, esperte in quella materia, non
potevano sbagliarsi. Sentì quel rumore ancora e poi ancora. Da
qualche parte, lontano nell’oscurità, qualcuno aveva esploso una
pistola tre volte. Rainsford balzò in piedi e si diresse velocemente
al parapetto, perplesso. Si sforzò di guardare nella direzione da
cui erano venuti gli spari, ma fu come cercare di guardare attraverso
una coperta. Per ottenere una maggiore elevazione, saltò sul
corrimano e vi si tenne in equilibrio; la sua pipa, avendo colpito
una fune, gli fu strappata di bocca. Si allungò verso di essa, un
breve grido soffocato gli uscì dalla bocca quando capì che si era
sporto troppo e aveva perso l’equilibrio. L’urlo si spezzò
quando le calde acque dei Caraibi si chiusero sopra la sua testa.
Lottando,
arrivò alla superficie e cercò di gridare, ma lo sciabordio dello
yacht che avanzava velocemente lo colpì in faccia e l’acqua salata
nella bocca lo soffocò e lo strangolò. Con disperazione, si slanciò
a forti bracciate dietro le luci sempre più lontane dello yacht, ma
si fermò prima di aver nuotato per quindici metri. Recuperò un
certo sangue freddo, non era la prima volta che si trovava in una
posizione difficile. C’era una possibilità che le sue urla
potessero essere udite da qualcuno sullo yacht, ma quella possibilità
era esile e diventava sempre più esile man mano che lo yacht
continuava la sua corsa. Si divincolò per liberarsi degli abiti e
gridò con tutto il fiato. Le luci dello yacht divennero flebili
lucciole che si affievolivano sempre più, finché furono
completamente inghiottite dalla notte.
Rainsford
ricordò gli spari. Erano arrivati da destra e nuotò in quella
direzione con determinazione, avanzando a bracciate lente e misurate,
per conservare le forze. Lottò con il mare per un tempo
apparentemente eterno. Iniziò a contare le bracciate: forse avrebbe
potuto farne ancora un centinaio e poi…
Rainsford
udì un suono. Sbucò dall’oscurità, il suono acuto di un urlo, il
verso di un animale in un eccesso di angoscia e terrore.
Non
riconobbe l’animale che aveva emesso quel suono, nemmeno ci provò;
con rinnovata vitalità nuotò nella sua direzione. Lo sentì di
nuovo, poi fu interrotto da un altro suono, secco, isolato.
“Colpo
di pistola,” mormorò Rainsford, continuando a nuotare.
Dieci
minuti di sforzi ostinati recarono un altro suono alle sue orecchie…
il più desiderabile che avesse mai udito… il mormorio e il
gorgoglio del mare che che si infrangeva contro una riva rocciosa. Fu
quasi sulle rocce prima che le vedesse, in una notte meno calma vi si
sarebbe schiantato contro. Con le forze che gli restavano, si
trascinò fuori da quelle acque vorticose. Rocce frastagliate
sembravano fendere quella densa oscurità; a fatica si spinse verso
l’alto, palmo a palmo. Ansimando, le mai insanguinate, raggiunse
una superficie piana sulla cima.
Una
fitta giungla scendeva giù fino al bordo roccioso. Quali pericoli
potesse tenere in serbo per lui quell’intrigo di alberi e
sottobosco, per il momento non se ne preoccupava. Tutto ciò che
sapeva era che si trovava al sicuro dal suo nemico, il mare, e che
era stato preso da un’estrema stanchezza. Si gettò giù sul
limitare della giungla e cadde a capofitto nel più profondo sonno
della sua vita. Quando aprì gli occhi, seppe dalla posizione del
sole che era pomeriggio inoltrato. Il sonno gli aveva dato nuovo
vigore, una fame pungente iniziava a tormentarlo. Si guardò intorno,
con estrema attenzione.
“Dove
ci sono colpi di pistola, ci sono uomini. Dove ci sono uomini, c’è
cibo,” pensò. Ma che razza di uomini, si chiese, in un posto così
proibitivo. Un fronte ininterrotto di giungla intricata e
frastagliata orlava i margini della spiaggia.
Non
c’era nessun segno di sentieri nel fitto reticolo di erbacce e
alberi; era più semplice camminare lungo la spiaggia, e Rainsford
si avviò arrancando lungo la riva. Non lontano da dove era
approdato, si fermò.
A
giudicare dalle tracce, qualcosa come un grosso animale ferito si era
trascinata nel sottobosco: le erbacce della giungla erano schiacciate
e il muschio strappato, una chiazza di erbacce era macchiata di
rosso. Non lontano, un piccolo oggetto luccicante catturò lo guardo
di Rainsford e lui lo raccolse. Era una cartuccia vuota.
“Una
calibro ventidue,” notò. “E’ strano. Deve essere stato un
animale piuttosto grosso, per giunta. Il cacciatore ha avuto coraggio
ad affrontarlo con un’arma leggera. E’ chiaro che la bestia ha
ingaggiato una lotta. Suppongo che i primi tre colpi che ho sentito
sono stati esplosi quando il cacciatore ha stanato la sua preda e
l’ha ferita. L’ultimo colpo è stato quando l’ha inseguita fin
qui e l’ha finita.”
Esaminò
attentamente il terreno e trovò quello che aveva sperato di trovare:
le impronte di stivali da caccia. Puntavano lungo la scogliera nella
direzione che aveva preso. Si affrettò col cuore in gola, scivolando
a volte su un ramo marcio o una pietra levigata, ma continuando ad
avanzare; la notte iniziava a scendere sull’isola.
Una
lugubre tenebra stava oscurando il mare e la giungla quando
Rainsford avvistò le luci. Vi si imbatté alla fine di una stretta
curva nella linea costiera e il suo primo pensiero fu di essere
arrivato ad un villaggio, perché c’erano tante luci. Ma, mentre
avanzava in quella direzione vide, con suo grande stupore, che tutte
quelle luci si trovavano in un edificio enorme – una struttura alta
con torri puntute che si immergevano nell’oscurità. I suoi occhi
realizzarono il profilo di un castello sontuoso, posto su di un alto
promontorio e, su tre lati, c’erano dirupi che si tuffavano giù
fin dove il mare le lambiva con labbra avide nell’oscurità.
“Un
miraggio,” pensò Rainsford. Ma non era un miraggio, scoprì,
quando aprì l’alto cancello di ferro ornato da punte aguzze.
I gradini di pietra erano sufficientemente reali, la massiccia porta
con un malevolo gargoyle come battente era sufficientemente reale,
tuttavia su ogni
cosa
gravava un’aria di irrealtà.
Sollevò
il battente e quello scricchiolò, rigido come se non fosse stato mai
usato prima. Lo lasciò cadere, e quello lo fece trasalire con il suo
cupo rimbombo. Gli sembrò di sentire dei passi all’interno, la
porta rimase chiusa. Rainsford sollevò di nuovo il pesante battente
e lo lasciò cadere. Allora la porta si aprì – si aprì con uno
scatto improvviso come se fosse su una molla – e Rainsford rimase
con gli occhi socchiusi nel fiume abbagliante di luce dorata che ne
scaturì.
La
prima cosa che gli occhi di Rainsford distinsero fu l’uomo più
grosso che Rainsford avesse mai visto – una creatura gigantesca,
solidamente costruita e con una barba nera fino alla vita. L’uomo
stringeva in mano un revolver a canna lunga, e lo stava puntando
dritto la cuore di Rainsford.
Fuori
dal groviglio della barba, due occhietti osservavano Rainsford.
“Non
si allarmi,” disse Rainsford, con un sorriso che sperava fosse
disarmante. “Non sono un ladro. Son caduto da uno yacht. Il mio
nome è Sanger Rainsford di New York City.”
Lo
sguardo minaccioso in quegli occhi non cambiò. Il revolvelr rimase
puntato saldamente, come se il gigante fosse una statua. Non diede
segno di aver capito le parole di Rainsford o che le avesse mai
sentite. Indossava un’uniforme – un’uniforme nera orlata di
astrakan grigio.
“Sono
Sanger Rainsford, di New York,” ricominciò Rainsford. “Sono
caduto da uno yacht. Ho fame.”
Per
tutta risposta, l’uomo sollevò il cane del revolver con il
pollice. Poi Rainsford vide la mano libera dell’uomo andare alla
fronte in un saluto militare e lo vide battere i tacchi insieme e
mettersi sull’attenti. Un altro uomo stava scendendo giù
dall’ampia scala di marmo. Un uomo dritto, snello, in abiti da
sera. Avanzò verso Rainsford e gli porse la mano.
Con
una voce colta, segnata da un leggero accento che le donava ulteriore
precisione e ponderatezza, disse, “E’ un grande piacere e un
onore accogliere Mr. Sanger Rainsford, il famoso cacciatore, a casa
mia.”
Con
un gesto automatico, Rainsford strinse la mano dell’uomo.
“Ho
letto il suo libro sulla caccia ai leopardi delle nevi in Tibet,
vede,” spiegò l’uomo. “Sono il generale Zroff.”
La
prima impressione di Rainsford fu che l’uomo era singolarmente
affascinante, la seconda che la faccia del generale aveva delle
caratteristiche originali, quasi bizzarre. Era un uomo alto, passata
la mezza età, perché i suoi capelli erano di un bianco luminoso, ma
le sue folte sopracciglia e gli appuntiti baffi militareschi erano
neri come la notte da cui Rainsford era arrivato.
Anche
i suoi occhi erano neri e luminosissimi. Aveva zigomi alti, un naso
affilato, un volto scuro e asciutto – il volto di un uomo abituato
a dare ordini, il volto di un aristocratico. Voltandosi verso il
gigante in uniforme, il generale gli fece un cenno. Il gigante ripose
la pistola, salutò e si ritirò.
“Ivan
è un individuo incredibilmente forte,” osservò il generale. “Ma
ha la sfortuna di essere sordomuto. Una persona semplice ma, temo,
come tutti quelli della sua gente, un po’ selvaggio.”
“E’
russo?”
“E’
un cosacco,” disse il generale e il suo sorriso svelò labbra rosse
e denti aguzzi. “Come me.”
“Venga,”
disse, “non dovremmo stare qui a conversare. Possiamo parlare più
tardi. Adesso lei ha bisogno di abiti, cibo e riposo. Avrà ogni
cosa. Questo è un luogo estremamente riposante.”
Ivan
era riapparso e il generale gli parlò con labbra che si muovevano ma
non emettevano alcun suono.
“Segua
Ivan, la prego, Mr. Rainsford,” disse il generale. “Stavo per
cenare quando lei è arrivato. La aspetterò. Vedrà che i miei abiti
le andranno bene, come credo.”
Fu
in una camera da letto enorme, con un soffitto a travi e un letto a
baldacchino grande abbastanza per sei uomini che Rainsford seguì
quel gigante silenzioso. Ivan dispose sul letto un abito da sera e
Rainsford, mentre lo indossava, notò che veniva da un sarto di
Londra che solitamente non tagliava e cuciva per nessuno al di sotto
del rango di duca.
La
sala da pranzo in cui Ivan lo condusse era notevole sotto molti punti
di vista. Vi aleggiava una magnificenza medievale, ricordava una sala
baronale dei tempi feudali con i suoi pannelli di quercia, il suo
soffitto alto, i suoi vasti tavoli da refettorio dove una quarantina
di uomini potevano sedersi a mangiare. Intorno alla sala erano appese
le teste di molti animali: tigri,
elefanti, alci, orsi; gli esemplari più grandi e più perfetti che
Rainsford avesse mai visto. Il generale sedeva al grande tavolo, da
solo.
“Gradisca
un cocktail, Mr. Rainsford,” suggerì. Il cocktail era
incredibilmente buono e, notò Rainsford, le apparecchiature della
tavola erano delle più fini – la biancheria, la cristalleria,
l’argenteria e la porcellana.
Stavano
mangiando borsch, la ricca zuppa rossa con panna acidaii
così cara ai palati russi. Quasi a scusarsi, il generale Zaroff
disse, “Facciamo del nostro meglio per conservare qui le
piacevolezze della civiltà. La prego di perdonare eventuali
mancanze. Siamo ben al di fuori dei sentieri battuti, come sa. Pensa
che lo champagne abbia sofferto per la lunga traversata oceanica?”
“Per
niente,” esclamò Rainsford. Incominciava a pensare che il
generale fosse il più premuroso e affabile degli ospiti, un vero
cosmopolita. Ma c’era un piccolo particolare nel comportamento del
generale che metteva Rainsford a disaggio. Ogni volta che alzava gli
occhi dal piatto, si accorgeva che il generale lo stava studiando,
valutandolo accuratamente.
“Forse,”
disse il generale Zaroff, “lei si è sorpreso che abbia
riconosciuto il suo nome. Veda, leggo tutti i libri di caccia
pubblicati in inglese, francese e russo. Non ho che una passione
nella vita, Mr. Rainsford, ed è la caccia.”
“Ha
degli splendidi trofei qui,” disse Rainsford, mentre mangiava un
filet mignon particolarmente ben cotto. “Quel bufalo del Capo è il
più grosso che abbia mai visto.”
“Oh,
quell’esemplare. Sì, era un mostro.”
“La
caricò?”
“Mi
scagliò contro un albero,” disse il generale. “Mi fratturò il
cranio. Ma presi la bestia.”
“Ho
sempre pensato,” disse Rainsford, “che il bufalo del Capo è la
caccia grossa più pericolosa di tutte.”
Per
un attimo il generale non rispose, stava abbozzando il suo strano
sorriso dalle labbra rosse. Poi disse lentamente, “No. Lei ha
torto, signore. Il bufalo del Capo non è la caccia grossa più
pericolosa.” Sorseggiò il suo vino. “Qui, nella mia riserva
sull’isola,” disse sempre con lo stesso tono misurato, “Do la
caccia a prede più pericolose.”
Rainsford
manifestò la sua sorpresa, “C’è caccia grossa su quest’isola?”
Il
generale annuì. “La più grossa.”
“Davvero?”
“Oh,
non è del posto. Devo rifornirne l’isola.”
“Che
cosa importa, generale?” chiese Rainsford. “Tigri?”
Il
generale sorrise. “No,” disse. “Cacciare tigri ha smesso di
interessarmi alcuni anni fa. Ho esaurito tutte le loro potenzialità,
capisce. Nelle tigri non resta più alcuna eccitazione, nessun
pericolo reale. Io vivo per il pericolo, Mr. Rainsford.”
Il
generale prese dalla tasca un portasigarette d’oro e offrì al suo
ospite una lunga sigaretta nera con la punta d’argento, era
profumata ed emanava un odore simile all’incenso.
“Lei
ed io faremo una caccia eccezionale,” disse il generale. “Sarò
felicissimo di avere la sua compagnia.”
“Ma
quale preda...” iniziò a dire Rainsford.
“Glielo
dirò” disse il generale. “Si divertirà, ne sono certo. Penso di
poter dire, in tutta modestia, di aver aver fatto qualcosa di
eccezionale. Ho inventato una nuova sensazione. Posso versarle un
altro bicchiere di porto?”
“Grazie,
generale.”
Il
generale riempì tutti e due bicchieri e disse, “Dio fa di alcuni
uomini dei poeti. Altri li fa re, altri mendicanti. Per quanto mi
riguarda, mi fece cacciatore. La mia mano è stata fatta per il
grilletto, diceva mio padre. Era un uomo molto ricco con un quarto di
milioni di acri in Crimea, ed era un accanito cacciatore. Quando
avevo solo cinque anni, mi diede un piccolo fucile, fatto
esclusivamente per me a Mosca, per sparare ai passeri. Quando sparai
ad alcuni dei suoi tacchini da competizione, non mi punì, si
complimentò con me per la precisione della mia mira. A dieci anni
uccisi il mio primo orso nel Caucaso. Tutta la mia vita è stata una
lunga caccia. Entrai nell’esercito – era quello che ci si
aspettava dal figlio di un nobile – e per un certo tempo comandai
una divisione di cavalleria cosacca, ma il mio vero interesse
rimaneva sempre la caccia. Ho cacciato ogni specie di preda in ogni
parte del mondo. Mi sarebbe impossibile dirle quanti animali ho
ucciso.”
Il
generale diede un tiro alla sua sigaretta.
“Dopo
lo sfacelo in Russiaiii
lasciai il paese, perché era imprudente per un ufficiale dello zar
rimanere lì. Tanti nobili russi persero tutto. Io, fortunatamente,
avevo investito massicciamente in titoli americani, così non dovrò
aprire una sala da tè a Monte Carlo o guidare un taxi a Parigi.
Naturalmente, continuai a cacciare - orsi grizzly nelle vostre
montagne Rocciose, coccodrilli nel Gange, rinoceronti in Africa
orientale. Fu in Africa che il bufalo del Capo mi colpì e mi
costrinse a letto per sei mesi. Appena mi ripresi, partii per
l’Amazzonia, a caccia di giaguari, perché avevo sentito che
fossero incredibilmente astuti. Non lo erano.”
Il
cosacco sospirò. “Non erano assolutamente all’altezza di un
cacciatore con presenza di spirito e un fucile di grosso calibro. Ne
rimasi amaramente deluso. Una notte, ero disteso nella mia tenda con
un terribile mal di testa quando un pensiero tremendo si fece strada
nella mia mente. La caccia cominciava ad annoiarmi! E la caccia,
ricordi, era stata la mia vita. Avevo sentito dire che in America gli
uomini d’affari crollano quando lasciano l’attività che è stata
la loro ragione di vita.”
“Sì,
è così,” disse Rainsford.
Il
generale sorrise. “Non avevo alcuna intenzione di crollare,”
disse. “Dovevo fare qualcosa. Ora, la mia è una mente analitica,
Mr. Rainsford. Questo è, senza dubbio, il motivo per cui amo i
problemi della caccia.”
“Senza
dubbio, generale Zaroff.”
“Così,”
continuò il generale, “Mi chiesi come mai la caccia non mi
affascinasse più. Lei è molto più giovane di me, Mr. Rainsford, e
non ha cacciato quanto me ma, forse, può intuire la risposta.”
“Quale
fu?”
“Semplicemente
questa: cacciare aveva cessato di essere quello che voi chiamate ‘una
competizione sportiva.’ Era diventato troppo facile. Uccidevo
sempre la mia preda. Sempre. Non c’è noia più grande della
perfezione.”
Il
generale si accese un’altra sigaretta.
“Ormai,
nessun animale aveva più una possibilità con me. Non è una
millanteria, è una certezza matematica. L’animale non aveva altro
che le sue gambe e il suo istinto. L’istinto non è paragonabile
alla ragione. Quando realizzai questo, glielo confesso, fu un momento
tragico per me.”
Rainsford
si protese verso di lui, completamente preso dal quello che il suo
ospite stava dicendo.
“Quello
che dovevo fare mi giunse come un’ispirazione,” proseguì il
generale.
“E
cos’era?”
Il
generale accennò il sorriso tranquillo di chi ha affrontato un
ostacolo e lo ha superato con successo. “Ho dovuto inventare un
nuovo animale da cacciare,” disse.
“Un
nuovo animale? Sta scherzando.” “Per niente,” disse il
generale. “Non scherzo mai quando si tratta di caccia. Avevo
bisogno di un nuovo animale. Ne trovai uno. Così, comprai
quest’isola, costruii questa casa ed è qui che vado a caccia.
L’isola è perfetta per i miei scopi – ci sono giungle con dentro
un labirinto di piste, colline, paludi...”
“Ma
l’animale, General Zaroff?”
“Oh,”
disse il generale, “mi procura la caccia più eccitante del mondo.
Nessun altro tipo di caccia può stargli alla pari, nemmeno per un
istante. Vado a caccia tutti i giorni e adesso non mi annoio mai,
perché ho una preda con cui posso misurare la mia intelligenza.”
Lo
stupore di Rainsfords si manifestò sul suo viso.
“Volevo
l’animale ideale da cacciare,” spiegò il generale. “Così
dissi, ‘Quali sono gli attributi della preda ideale?’ e la
risposta fu, naturalmente, ‘Deve avere coraggio, astuzia e,
soprattutto, deve essere in grado di ragionare.’”
“Ma
nessun animale può ragionare,” obbiettò Rainsford.
“Mio
caro amico,” disse il generale, “uno ce n’è.”
“Ma
lei non può voler dire...” ansimò Rainsford.
“E
perché no?”
“Non
poso credere che lei sia serio, generale Zaroff. Questo è un macabro
scherzo.”
“Perché
non dovrei essere serio? Sto parlando di caccia.”
“Caccia?
Mi venisse un colpo, generale Zaroff, quello di cui parla è
omicidio.”
Il
generale rise di gran gusto. Guardò Rainsford con scetticismo. “Mi
rifiuto di credere che un giovanotto così moderno e raffinato come
lei coltivi dentro di sé certe idee romantiche sul valore della vita
umana. Sicuramente le esperienze fatte in guerra…”
“Non
mi hanno indotto a tollerare l’omicidio a sangue freddo,” finì
Rainsford seccamente.
Le
risate scossero il generale. “Che tipo straordinariamente buffo è
lei!” disse. “Oggigiorno, non ci si aspetterebbe di trovare un
giovanotto della classe colta, perfino in America, con un punto di
vista così ingenuo e, se mi è concesso, così vittoriano. E’ come
trovare una scatola di tabacco da naso in una limousine. Ah, certo,
senza dubbio lei ha degli antenati Puritani. Tanti americani sembrano
averne avuti. Scommetto che dimenticherà i suoi principi quando
verrà a caccia con me. C’è in serbo per lei un’emozione
completamente nuova, Mr. Rainsford.”
“Grazie,
sono un cacciatore, non un assassino.”
“Povero
me,” disse il generale, del tutto calmo, “di nuovo quella parola
spiacevole. Ma penso che potrò dimostrale che i suoi scrupoli sono
del tutto infondati.”
“Sì?”
“La
vita è fatta per le persone forti, per essere vissuta dalle persone
forti e, se necessario, per essere tolta dalle persone forti. I
deboli del mondo sono stati messi qui per dare piacere ai forti. Io
sono forte. Perché non dovrei usare il mio dono? Se voglio cacciare,
perché non dovrei? Do la caccia alla feccia della terra: marinai di
navi mercantili… marinai delle indie orientali, neri, cinesi,
bianchi, meticci… un purosangue o un segugio vale più di una
ventina di loro.”
“Ma
sono uomini,” disse Rainsford con enfasi.
“Precisamente,”
disse il generale. “Questo è il motivo per cui me ne servo. Mi da
piacere. Possono ragionare, a modo loro. Così sono pericolosi.”
“Ma
dove se li procura?”
La
palpebra sinistra del generale batté rapidamente. “Quest’isola è
chiamata Trappola-per-navi,” rispose. “A volte me li manda un
irato dio delle distese marine. A volte, quando la provvidenza non è
così gentile, aiuto un po’ la provvidenza. Venga alla finestra con
me.”
Rainsford
andò alla finestra e guardò verso il mare.
“Guardi!
Lì fuori!” esclamò il generale puntando il dito nell’oscurità
della notte. Gli occhi di Rainsford videro solo tenebre e poi,
quando il generale premette un pulsante, in lontananza sul mare vide
lampeggiare delle luci.
Il
generale ridacchiò. “Indicano un canale,” disse, “dove non ce
n’è nessuno; rocce gigantesche, dai bordi affilati come rasoi,
sono in agguato come mostri marini dalle fauci spalancate. Possono
mandare in frantumi una nave con la stessa facilità con cui mando
in frantumi questa noce.” Lasciò cadere una noce sul pavimento di
legno massiccio e la schiacciò con il pesante tacco della scarpa.
“Oh, sì,” disse, con noncuranza, come se stesse rispondendo ad
una domanda, “Ho l’elettricità. Cerchiamo di essere civilizzati,
qui.”
“Civilizzati?
E sparate agli uomini?”
Negli
occhi neri del generale apparve una traccia di rabbia, ma non vi
rimase che per un secondo e poi disse, con il suo modo di fare più
affabile, “Povero me, che giovanotto virtuoso è lei! Le assicuro
che non faccio quello che lei insinua. Sarebbe una cosa barbara.
Tratto questi visitatori con ogni riguardo. Ricevono buon cibo a
sufficienza e fanno esercizio. Raggiungono una splendida forma
fisica. Domani lo vedrà con i suoi occhi.”
“Cosa
vuol dire?”
“Visiteremo
la mia scuola di addestramento,” sorrise il generale. “E’ nella
cantina. Lì sotto ho circa una dozzina di allievi. Vengono dal
veliero spagnolo San Lucar, che ha avuto la sfortuna di andare
a sbattere contro gli scogli là fuori. Un lotto di qualità
inferiore, mi dispiace dirlo. Esemplari scadenti e più abituati al
ponte di una nave che alla giungla.” Sollevò la mano e Ivan, che
fungeva da cameriere, portò un denso caffè alla turca. Rainsford, a
fatica, tenne a freno la lingua.
“Vede,
è un gioco,” proseguì placidamente il generale. “Propongo ad
uno di loro di andare a caccia con me. Gli fornisco una scorta di
cibo e un eccellente coltello da caccia. Gli do tre ore di vantaggio.
Io lo seguirò, armato soltanto di una pistola del calibro e della
portata più piccoli. Se la mia preda mi sfugge per tre interi
giorni, vince il gioco. Se lo trovo,” il generale sorrise, “perde.”
“Supponga
che si rifiuti di essere cacciato.”
“Oh,”
disse il generale, “Gli do la possibilità di scegliere,
naturalmente. Non deve partecipare al gioco se non vuole. Se non
vuole andare a caccia, lo consegno a Ivan. Ivan un tempo aveva
l’onore di servire come staffilatoreiv
ufficiale del grande zar biancov,
ed ha le sue idee riguardo allo sport. Invariabilmente, Mr.
Rainsford, invariabilmente, scelgono la caccia.”
“E
se vincono?”
Il
sorriso sulla faccia del generale si fece più largo. “Fino ad oggi
non ho perso,” disse. Poi aggiunse, con un certo calore: “Non
voglio che lei pensi che io sia uno spaccone, Mr. Rainsford. Molti di
loro procurano soltanto problemi della specie più elementare.
Raramente mi capita un soggetto difficile. Uno quasi vinse. Alla
fine, dovetti usare i cani.”
“I
cani?”
“Da
questa parte, prego. Le faccio vedere.”
Il
generale condusse Rainsford ad una finestra. Le luci della finestra
proiettavano un bagliore intermittente che creava disegni grotteschi
nel cortile sottostante e Rainsford vide muoversi lì dentro una
dozzina di grosse ombre nere, quando quelle si girarono verso di lui,
i loro occhi emisero un verde scintillio.
“Una
muta piuttosto buona, credo,” osservò il generale. “Sono
lasciati liberi ogni sera alle sette. Se qualcuno dovesse tentare di
entrare a casa mia – o uscirne – gli succederebbe qualcosa di
estremamente spiacevole.” Mormorò un brano di una canzone delle
Folies Bergere.
“Ed
ora,” disse il generale. “voglio mostrarle la mia nuova
collezione di trofei. Vuol venire con me in biblioteca?”
“Spero,”
disse Rainsford, “che lei voglia scusarmi per questa sera, generale
Zaroff. In realtà, non mi sento molto bene.”
“Ah,
davvero?” chiese con sollecitudine il generale. “Suppongo che sia
soltanto naturale, dopo la sua lunga nuotata. Lei ha bisogno di una
buona nottata di sonno ristoratore. Domani si sentirà rinato, ci
scommetto. Poi andremo a caccia, eh? Ho delle aspettative piuttosto
promettenti...” Rainsford si stava affrettando ad uscire dalla
stanza.
“Spiacente
che non possa venire con me questa notte,” gridò il generale.
“Credo che sarà una partita piuttosto interessante – un nero
grosso, forte. Sembra pieno di risorse. Bene, Mr. Rainsford; le
auguro buon riposo.”
Il
letto era confortevole, il pigiama era della seta più morbida e si
sentiva stanco in ogni fibra del suo essere, ma ciò nonostante,
Rainsford non riuscì a dare pace al suo cervello con l’oppio del
sonno. Giaceva a letto con gli occhi spalancati. Una volta gli sembrò
di sentire dei passi furtivi nel corridoio davanti alla sua porta.
Cercò di aprire la porta, ma non ci riuscì. Andò alla finestra e
guardò fuori. La sua stanza si trovava in alto, in una delle torri.
Adesso,
le luci del castello erano spente e tutto era buio e silenzioso, ma
c’era un frammento di luna giallastra e alla sua debole luce riuscì
a vedere, a fatica, il cortile. Lì, muovendosi a zig zag dentro e
fuori il gioco delle ombre, c’erano sagome nere e silenziose, i
cani lo sentirono affacciarsi alla finestra e guardarono su, in
attesa, con i loro verdi occhi. Rainsford tornò a letto e si coricò.
Provò vari metodi per farsi venire sonno. Era riuscito ad assopirsi
quando, proprio mentre cominciava a sorgere il giorno, udì, lontano
nella giungla, la debole eco di un colpo di pistola.
Il
generale Zaroff non apparve fino all’ora di pranzo. Era vestito
impeccabilmente con un completo in tweed, tipico dei signorotti di
campagna. Fu molto premuroso riguardo allo stato di salute di
Rainsford.
“Per
quanto mi riguarda,” sospirò il generale, “non mi sento molto
bene. Sono preoccupato, Mr. Rainsford. La notte corsa ho rilevato
alcuni indizi del mio vecchio malessere.”
In
risposta allo sguardo interrogativo di Rainsford, disse, “Ennui.
Noia.”
Poi,
prendendo una seconda porzione di crepes Suzette, il generale spiegò:
“Ieri notte la caccia non è stata buona. Quel tipo ha perso la
testa. Ha fatto un percorso rettilineo che non presentava alcuna
difficoltà. Questo è il guaio con i marinai: per cominciare, hanno
dei cervelli ottusi e poi, non sanno come muoversi nei boschi. Fanno
cose incredibilmente stupide e ovvie. E’ estremamente seccante.
Gradisce un altro bicchiere di Chablis, Mr. Rainsford?”
“Generale,”
disse Rainsford con fermezza, “desidero lasciare immediatamente
l’isola.”
Il
generale inarcò il boschetto delle sue sopracciglia, sembrava
offeso. “Ma, mio caro amico,” protestò il generale, “lei è
appena arrivato. Non è ancora andato a caccia...”
“Voglio
andarmene oggi,” disse Rainsford. Vide i gelidi occhi neri del
generale su di lui che lo studiavano. La faccia del generale Zaroff
improvvisamente si illuminò.
Riempì
il bicchiere di Rainsford con del venerabile Chablis, versandolo da
una bottiglia polverosa.
“Questa
notte,” disse il generale, “andremo a caccia, lei ed io.”
Rainsford
scosse la testa. “No generale,” disse. “Non verrò.”
Il
generale fece spallucce e piluccò delicatamente un acino di uva
tardiva. “Come desidera, amico mio,” disse. “La scelta spetta
interamente a lei. Ma, potrei azzardarmi a suggerire che troverà la
mia idea di sport più divertente di quella di Ivan?”
Fece
cenno con la testa verso l’angolo dove il gigante, accigliato, se
ne stava con le sue robuste braccia incrociate su un torace grosso
come un barile.
“Non
vorrà forse dire...” gridò Rainsford.
“Mio
caro amico,” disse il generale, “Non le ho sempre detto che
quando si tratta di caccia intendo esattamente ciò che dico? Questa
è una vera ispirazione. Brindo ad un avversario degno del mio
acciaio… finalmente.” Il generale sollevò il bicchiere, ma
Rainsford rimase seduto a fissarlo.
“Troverà
questo gioco degno di essere giocato,” disse il generale con
entusiasmo. “Il suo cervello contro il mio. La sua padronanza dei
boschi contro la mia. La sua forza e la sua resistenza contro le mie.
Una partita a scacchi all’aperto! E la posta in gioco non è priva
di valore, eh?”
“E
se vincerò io...” iniziò a dire Rainsford con voce roca.
“Ammetterò
la mia sconfitta di buon grado se non la troverò per la mezzanotte
del terzo giorno,” disse il generale Zaroff. “La mia goletta la
porterà sulla terra ferma, vicino ad una città.! Il generale intuì
quello che stava pensando Rainsford.
“Oh,
può fidarsi di me,” disse il cosacco. “Le do la mia parola di
gentiluomo e sportivo. Naturalmente lei, in cambio, dovrà
acconsentire a non rivelare niente della sua visita qui.”
“Non
acconsentirò a niente del genere,” disse Rainsford.
“Oh,”
disse il generale, “Nel qual caso… Ma perché discuterne adesso?
Fra tre giorni potremo discuterne intorno ad una bottiglia di Veuve
Cliquot, a meno che...”
Il
generale sorseggiò il suo vino.
Poi,
uno spirito pragmatico lo animò. “Ivan,” disse a Rainsford, “le
fornirà abiti da caccia, cibo, un coltello. Le suggerisco di calzare
dei mocassini, lasciano tracce meno evidenti. Le suggerisco, inoltre,
di evitare la grande palude nell’angolo a sud-est dell’isola. La
chiamiamo palude della morte.
“Lì
ci sono le sabbie mobili. Uno sciocco ci provò. La parte deplorabile
di questa storia fu che Lazarus lo seguì. Può immaginare i miei
sentimenti, Mr. Rainsford. Amavo Lazarus, era il migliore della mia
muta. Bene, devo pregarla di scusarmi adesso. Faccio sempre una
siesta dopo pranzo. Lei avrà appena il tempo per un pisolino, temo.
Senza dubbio, si vorrà incamminare. Io non la seguirò che
all’imbrunire. Cacciare di notte è tanto più eccitante che di
giorno, non crede? Au revoir, Mr. Rainsford, au revoir.” Il
generale Zaroff, dopo un profondo inchino elegante, uscì dalla
stanza a passo lento.
Da
un’altra porta entrò Ivan. Sotto un braccio portava degli abiti da
caccia color cachi, uno zaino pieno di cibo, un fodero di cuoio
contenente un coltello da caccia dalla lunga lama; la mano destra era
appoggiata su di un revolver armato infilato nella fusciacca color
cremisi intorno alla sua vita.
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Per
due ore, Rainsford si era fatto strada a fatica attraverso il
sottobosco. “Devo mantenere i nervi saldi. Devo mantenere i nervi
saldi,” si disse stringendo i denti.
Non
era stato completamente lucido, dopo che i cancelli del castello si
erano chiusi di scatto dietro di lui. Dapprincipio, la sua unica idea
fu di mettere della distanza fra lui e il generale Zaroff e, a questo
scopo, si era buttato avanti a capofitto, sotto l’implacabile
spinta di qualcosa molto simile al panico. Adesso era tornato in sé,
si era fermato, e stava analizzando sé stesso e la situazione. Capì
che una fuga in linea retta era inutile, lo avrebbe inevitabilmente
condotto faccia a faccia con il mare. Era in un quadro con una
cornice di acqua e le sue azioni, naturalmente, dovevano aver luogo
all’interno di quella cornice.
“Gli
darò una pista da seguire,” mormorò Rainsford, e balzò via dal
rozzo sentiero che aveva seguito per addentrarsi nell’intrigo della
foresta. Eseguì una serie di complicate spirali, passando e
ripassando sui suoi passi, richiamando alla mente tutti i trucchi
della caccia alla volpe e tutti i sotterfugi della volpe. La notte lo
sorprese su di un crinale fittamente alberato, con le gambe che gli
dolevano, le mani e la faccia graffiate dai rami. Sapeva che sarebbe
stato folle avanzare brancolando nel buio, anche se ne avesse avuto
la forza. Il suo bisogno di riposo era inderogabile e pensò, “Ho
fatto la parte della volpe, adesso devo fare la parte del gatto della
favola.”
Nelle
vicinanze c’era un albero alto con un grosso tronco da cui
partivano lunghi rami distesi e, avendo cura di non lasciare la
minima traccia, si arrampicò fino alla chioma poi, stendendosi su
uno dei rami più robusti, in qualche modo, riposò. Il riposo gli
arrecò una rinnovata fiducia e quasi un sentimento di sicurezza.
Nemmeno un cacciatore così zelante come il generale Zaroff avrebbe
potuto rintracciarlo lì, si disse, solo il diavolo in persona poteva
seguire quella complicata pista attraverso la giungla, dopo il
tramonto. Ma forse il generale era il diavolo...
Una
notte di apprensioni gli scivolò
addosso con la lentezza di un serpente
ferito e il sonno non visitò Rainsford, sebbene il silenzio di un
mondo addormentato fosse calato sulla giungla. Verso il mattino,
quando un grigio cupo stava colorando il
cielo, l’urlo di qualche uccello spaventato focalizzò
l’attenzione di Rainsford in quella direzione. Qualcosa stava
avanzando attraverso la boscaglia, lentamente, cautamente, venendo
dallo stesso sentiero tortuoso da cui era arrivato Rainsford. Si
appiattì sul ramo e, attraverso uno schermo di foglie fitto quasi
come una tappezzeria, si mise ad osservare… Quello che si stava
avvicinando era un uomo.
Era
il generale Zaroff. Procedeva con uno sguardo estremamente
concentrato a fissare il terreno davanti a lui. Si fermò, quasi
sotto l’albero, si mise in ginocchio e studiò il terreno.
L’impulso di Rainsford fu di lanciarsi giù come una pantera, ma
vide che la mano destra del generale stringeva qualcosa di metallico…
una piccola pistola automatica.
Il
cacciatore scosse la testa diverse volte, come se fosse perplesso.
Poi si rialzò e dall’astuccio prese una delle sue sigarette nere;
il suo pungente fumo dall’odore di incenso fluttuò su fino alle
narici di Rainsford.
Rainsford
trattenne il respiro. Gli occhi del generale avevano lasciato il
terreno e stavano viaggiando, centimetro dopo centimetro, lungo
l’albero. Rainsford si irrigidì, con i muscoli tesi per un balzo.
Ma gli occhi acuti del cacciatore si fermarono prima di raggiungere
il ramo dove era disteso Rainsford; un sorriso illuminò la sua
faccia abbronzata. Con molta calma, soffiò in aria un anello di
fumo, poi voltò la schiena all’albero e con indifferenza se ne
andò via, riprendendo il sentiero da cui era venuto. Il fruscio dei
cespugli contro i suoi stivali da caccia diventò sempre più
flebile.
Il
respiro trattenuto uscì con veemenza dai polmoni di Rainsford. Il
suo primo pensiero lo fece sentire stanco e confuso. Il generale
poteva seguire una traccia attraverso i boschi di notte, poteva
seguire una pista estremamente difficile, doveva avere dei poteri
misteriosi, solo per puro caso il cosacco non aveva visto la sua
preda. Il secondo pensiero di Rainsford fu ancora più terribile.
Gli procurò un brivido di gelido orrore in tutto il suo essere.
Perché il generale aveva sorriso? Perché era tornato indietro?
Rainsford
non voleva credere a quello che la sua ragione gli diceva fosse la
verità, ma la verità era evidente come il sole che ormai si era
fatto strada attraverso le nebbie del mattino. Il generale stava
giocando con lui! Il generale lo stava risparmiando per un’altra
giornata di divertimento! Il cosacco era il gatto, lui era il topo.
Fu allora che Rainsford capì a pieno il significato del terrore.
“Non
perderò la calma. Non voglio.”
Scivolò
giù dall’albero e si inoltrò nei boschi. Il suo volto aveva
un’espressione determinata e costrinse gli ingranaggi del suo
cervello a funzionare. A trecento metri dal suo nascondiglio, si
fermò nel punto in cui un enorme albero morto si appoggiava
precariamente su uno più piccolo e vivo. Dopo essersi liberato dello
zaino con il cibo, Rainsford estrasse il coltello dal fodero e
iniziò a lavorare con quanta energia aveva in corpo. Quando
finalmente il lavoro fu completato si buttò giù, una quarantina di
metri più in la, al riparo di un tronco caduto.
Il
generale Zaroff arrivò seguendo la pista con la sicurezza di un
segugio. Nulla sfuggiva a quei neri occhi indagatori, non un filo
d’erba calpestato, non un rametto piegato, non una traccia, per
quanto insignificante, nel muschio. Il cosacco era così intento
nella sua ricerca che si imbatté in quello che Rainsford aveva
predisposto ancor prima che lo vedesse. Il suo piede toccò il ramo
sporgente che funzionava da grilletto. Nello stesso momento in cui lo
toccò, il generale avvertì il pericolo e saltò indietro con
l’agilità di una scimmia.
Ma
non fu abbastanza veloce, l’albero morto, accortamente sistemato
per rimanere appoggiato a quello vivo che era stato tagliato,
precipitò in basso e colpì il generale di striscio sulla spalla
mentre cadeva ma, non fosse stato per la sua prontezza, avrebbe
dovuto rimanere schiacciato sotto di esso. Barcollò ma non cadde, né
lasciò cadere il revolver. Rimase in piedi, a massaggiarsi la spalla
dolorante e Rainsford, con la paura che gli attanagliava di nuovo il
cuore, sentì la risata di scherno del generale risuonare attraverso
la giungla.
“Rainsford,”
gridò il generale, “se lei può sentire la mia voce, come credo,
lasci che mi congratuli con lei. Non molti uomini sanno come fare un
trappola malese per uomo. Fortunatamente per me, anche io ho cacciato
in Malesia. Lei si sta rivelando interessante, Mr. Rainsford. Adesso
mi farò fasciare la feria, è solo una piccolezza. Ma ritornerò,
ritornerò.”
Dopo
che il generale, per riguardo della sua spalla contusa, se ne fu
andato, Rainsford riprese la sua fuga. Adesso era una fuga, disperata
e senza speranza, che proseguì per alcune ore. Arrivò il
crepuscolo, poi la notte, e la sua fuga continuava ancora. Il terreno
sotto i suoi mocassini divenne più soffice, la vegetazione più
marcia e densa; gli insetti lo mordevano ferocemente.
Poi,
mentre proseguiva, il piede affondò nella melma. Provò a strapparlo
via, ma la fanghiglia risucchiò voracemente il suo piede, come se
fosse una gigantesca sanguisuga. Con uno sforzo violento, tirò via
il piede. Adesso sapeva dove si trovava. La palude della morte e le
sue sabbie mobili. Le sue mani erano serrate come se il suo coraggio
fosse qualcosa di tangibile che qualcuno nell’oscurità stava
cercando di strappare dalla sua presa. La mollezza del terreno gli
aveva dato un’idea. Si allontanò dalle sabbie mobili di circa tre
metri e, come un enorme castoro preistorico, iniziò a scavare.
Dopo
che il generale, per riguardo della sua spalla contusa, se ne fu
andato, Rainsford riprese la sua fuga. Adesso era una fuga, disperata
e senza speranza, che proseguì per alcune ore. Arrivò il
crepuscolo, poi la notte, e la sua fuga continuava ancora. Il terreno
sotto i suoi mocassini divenne più soffice, la vegetazione più
marcia e densa; gli insetti lo mordevano ferocemente.
Poi,
mentre proseguiva, il piede affondò nella melma. Provò a strapparlo
via,
ma la fanghiglia risucchiò voracemente il suo piede, come se fosse
una gigantesca sanguisuga. Con uno sforzo violento, tirò
via il piede. Adesso sapeva dove si trovava. La palude della morte e
le sue sabbie mobili. Le sue mani erano serrate come se il suo
coraggio fosse qualcosa di tangibile che qualcuno nell’oscurità
stava cercando di strappare dalla sua presa. La mollezza del terreno
gli aveva dato un’idea. Si allontanò dalle sabbie mobili di circa
tre metri e, come un enorme castoro preistorico, iniziò a scavare.
In
Francia, Rainsford aveva scavato trincee dove ripararsi, quando un
secondo di ritardo poteva significare la morte. Quello era stato un
tranquillo passatempo, paragonato allo scavare di adesso. Il pozzo
diventava sempre più profondo, quando fu più alto delle sue spalle,
si arrampicò fuori e, da alcuni arboscelli robusti, tagliò via dei
paletti e li affilò fino ad ottenere delle punte aguzze. Piantò
questi paletti sul fondo del pozzo con le punte rivolte in alto. Con
le dita che volavano, intessé un rozzo tappeto di erbacce e rametti
con cui coprì la bocca del pozzo. Poi, madido di sudore e dolorante
per la stanchezza, si accovacciò dietro il ceppo di un albero
bruciato dai fulmini.
Sapeva
che il suo inseguitore stava arrivando, sentiva il tonfo dei suoi
stivali sul terreno soffice e la brezza notturna gli portava il
profumo delle sigarette del generale. A Rainsford sembrò che il
generale stesse procedendo con insolita sveltezza: non stava
saggiando il terreno passo dopo passo. Rainsford, accovacciato lì
dietro, non poteva vedere il generale, né poteva vedere la buca.
Visse un anno in un minuto. Poi sentì l’impulso di gridare di
gioia, perché sentì il secco crepitio dei rami mentre la copertura
del pozzo cedeva; sentì un acuto grido di dolore quando i paletti
appuntiti colpirono il segno. Saltò fuori dal suo nascondiglio.
Poi
si accucciò di nuovo. Un uomo era in piedi a tre metri dal pozzo,
con una torcia elettrica in mano.
“Ben
fatto, Rainsford,” gridò la voce del generale. “Il suo pozzo
birmano per tigri si è preso uno dei miei cani migliori. Un altro
punto per lei. Credo, Mr. Rainsford, che vedrò quello che sa fare
contro tutta la mia muta di cani. Ora me ne vado a casa a riposare.
Grazie per questa divertente serata.
Allo
spuntar del giorno, Rainsford, disteso accanto alla palude, fu
svegliato da un suono che gli fece pensare che aveva ancora molto da
imparare riguardo alla paura. Era un suono distante, debole e
intermittente, ma lo riconobbe. Era l’abbaiare di una muta di
segugi.
Rainsford,
sapeva che di due cose poteva farne una. Poteva restare dov’era e
aspettare. Significava suicidarsi. Poteva fuggire. Significava
rimandare l’inevitabile. Per un momento rimase lì, a pensare. Gli
venne un’idea che gli offriva un’alternativa temeraria e,
allacciandosi la cintura, si allontanò di corsa dalla palude.
I
guaiti dei cani si facevano più vicini, poi ancora più vicini, più
vicini, sempre più vicini. In cima ad un’altura Rainsford si
arrampicò su di un albero. Lungo un corso d’acqua, lontano non più
di quattrocento metri, poté vedere i cespugli muoversi. Aguzzando la
vista, scorse la snella figura del generale Zaroff e proprio davanti
a lui, Rainsford intravide un’altra figura le cui ampie spalle
emergevano dalle alte erbacce della giungla: era il gigante Ivan e
sembrava spinto in avanti da una forza invisibile; Rainsford intuì
che Ivan stava tenendo la muta al guinzaglio.
Gli
sarebbero stati addosso da un momento all’altro. La sua mente
lavorava freneticamente. Gli venne in mente un trucco indigeno che
aveva imparato in Uganda. Scivolò giù dall’albero. Afferrò un
giovane arbusto flessibile e vi legò il suo coltello da caccia, la
lama puntata verso il sentiero, con un tralcio di vite selvatica legò
l’arbusto all’indietro. Poi fuggì a gambe levate. I segugi
abbaiarono più forte quando annusarono le tracce fresche. In quel
momento Rainsford capì come si sente un animale braccato.
Dovette
fermarsi a riprendere fiato. I guaiti dei cani si fermarono di colpo.
E anche il cuore di Rainsford si fermò. Dovevano essere arrivati al
coltello.
Si
arrampicò concitatamente su di un albero e guardò indietro. I suoi
inseguitori si erano fermati. Ma la speranza, che Rainsford covava
dentro di sé quando si era arrampicato, si spense, perché vide che
il generale Zaroff era ancora in piedi nella valletta. Ma non Ivan.
Il coltello, spinto dal contraccolpo di quel flessibile arbusto, non
aveva fallito del tutto.
Rainsford
non era ancora rotolato a terra che i segugi ripresero ad abbaiare.
“Coraggio,
coraggio, coraggio!” ansimò, continuando la sua fuga. Un squarcio
blu apparve tra gli alberi, proprio davanti a lui. I cani erano
sempre più vicini. Rainsford si costrinse a correre verso quel blu.
Lo raggiunse. Era la riva del mare. Dall’altra parte di una baia si
vedeva la scura pietra grigia del castello. Una decina di metri sotto
di lui, il mare rombava e ululava. Rainsford esitò. Sentì i
segugi. Poi, si tuffò tra le onde, il più lontano possibile…
Quando
il generale e la sua muta raggiunsero quel posto in riva al mare, il
cosacco si fermò. Rimase fermo per alcuni minuti ad osservare la
distesa verde-blu del mare. Si strinse nelle spalle. Poi, si mise a
sedere, prese una sorsata di brandy da una fiaschetta d’argento, si
accese una sigaretta e canticchiò un brano dalla Madame Butterfly.
Quella
sera, il generale Zaroff fece un’eccellente cena nella sua grande
sala da pranzo rivestita da pannelli di legno. La innaffiò con una
bottiglia di Pol Roger e mezza bottiglia di Chambertin. Due piccole
seccature gli impedivano di goderne appieno. Una era il pensiero che
sarebbe stato difficile rimpiazzare Ivan; l’altra era il fatto che
la sua preda gli era sfuggita, l’americano non era stato al gioco –
così pensava il generale mentre gustava il suo liquore del dopocena.
Per calmarsi, in biblioteca lesse dei brani dalle opere di Marco
Aurelio.
Alle
dieci salì nella sua camera da letto. Era piacevolmente stanco, si
disse, mentre si chiudeva dentro. C’era un po’ di chiaro di luna,
così, prima di accendere la luce, andò alla finestra e guardò giù
nel cortile. Vide i suoi grossi segugi e gridò, “Miglior fortuna,
la prossima volta.”
Un
uomo, che si era nascosto nei tendaggi del letto, era fermo davanti a
lui.
“Rainsford!”
gridò il generale. “In nome di Dio, come siete arrivato qui?”
“Nuotando,”
disse Rainsford. “Ho scoperto che è più veloce che attraversare
la giungla.”
Il
generale riprese fiato e sorrise. “Mi congratulo con lei,” disse.
“Ha vinto.”
Rainsford
non sorrise. “Sono ancora una bestia braccata,” disse, con una
voce bassa e roca. “Si prepari, generale Zaroff.”
Il
generale fece uno dei suoi inchini più profondi. “Capisco,”
disse. “Splendido! Uno di noi sarà cibo per i miei cani. L’altro
dormirà in questo eccellente letto. In guardia, Rainsford!”...
Non
aveva mai dormito in un letto migliore, ammise Rainsford!
FINE
i
Purdey & Sons, o semplicemente Purdey, è un costruttore
di armi britannico con base a Londra, specializzato in fucili e
fucili sportivi di alta qualità su misura. Purdey detiene tre Royal
Warrant di nomina come fabbricante di armi e fucili per le famiglie
reali britanniche e altre europee.
iiNel
testo originale whipped cream, panna montata, invece di sour
cream, panna acida,
che è il tradizionale condimento di questa
minestra a base di barbabietola, originaria dell'Ucraina, molto
diffusa nei paesi slavi.
iii
Lo sfacelo a cui si riferisce è
la rivoluzione russa, un evento sociopolitico avvenuto in Russia nel 1917, che
portò al rovesciamento dell'impero
russo e alla formazione inizialmente della Repubblica Socialista
Federativa Sovietica Russa e, nel 1922, in seguito alla guerra
civile russa, dell'Unione Sovietica; fu un tentativo di applicazione
delle teorie sociali ed economiche di Karl Marx e Friedrich Engels.
iv
Nel testo ‘Knuoter’ dal nome dello staffile, Knout, che veniva
usato per le flagellazioni come punizione corporale per criminali e
oppositori politici. Se il numero dei colpi era fra i 100 e i 120,
significava pena di morte. Dalla seconda metà dell’ottocento,
questa pena corporale fu mantenuta solo nelle colonie penali in
Siberia.
v
L’attributo
di ‘grande zar bianco’ veniva
usato per riferirsi a
Pietro il
Grande ( Mosca, 9
giugno 1672– San Pietroburgo, 8 febbraio 1725), che
è stato zar e, dal
1721, primo imperatore di Russia. Più
di duecento anni prima degli eventi descritti in questa storia.