venerdì 27 ottobre 2023

YUKI-ONNA

 

Bianca come la neve...


La storia di fantasmi che vi propongo oggi, intitolata YUKI-ONNA, appartiene al folklore giapponese ed è tratta dalla raccolta di racconti soprannaturali di Lafcadio Hearn Kwaidan: Stories and Studies of Strange Things. Hearn noto anche con lo pseudonimo di Koizumi Yakumo (小泉八雲?; Leucade, 1850 – Tokyo, 1904), fu giornalista, scrittore e iamatologo irlandese naturalizzato giapponese, famoso per i suoi scritti sul Giappone.

Hearn dichiara nella sua introduzione alla prima edizione del libro, che scrisse il 20 gennaio 1904, poco prima della sua morte, che la maggior parte di queste storie erano tradotte da vecchi testi giapponesi (probabilmente con l'aiuto di sua moglie, Setsu Koizumi). Egli afferma anche che Yuki-onna gli fu raccontata da un agricoltore della Provincia di Musashi, e che la sua, per quanto fosse a sua conoscenza, ne era la prima trascrizione.

Le yuki-onna, o donna delle nevi, sono creature soprannaturali del folclore giapponese. Sono donne bellissime eppure spietata nell'uccidere gli incauti viandanti durante le tempeste di neve, con cui si confondono a causa del candore della loro pelle. Ma anche il loro gelido cuore può essere toccato dall’amore, come accade in questa storia.

 

Curiosità:

Nel folklore popolare il biancore della neve viene spesso associato alla bellezza femminile, Biancaneve ne è un esempio. Lo stesso Andersen scrisse La regina delle nevi (Sneedronningen, 1844) una delle fiabe più lunghe di Andersen, e fra quelle più apprezzate. Anche qui l’algida bellezza della protagonista è associato ad un gelido cuore.

Entrambe le fiabe hanno ispirato due fortunati film d’animazione della Disney, rispettivamente: Biancaneve e i sette nani (1937), e il più recente Frozen (2013)



Dello stesso autore:

La storia di Mimi-nashi-Hoichi ( pubblicato il 25- 1- 2015)




YUKI-ONNA

di

Lafcadio Hearn




In un villaggio nella provincia di Musashii, vivevano due taglialegna: Mosaku e Minokichi. Al tempo di cui vi parlo, Mosaku era un vecchio e Minokichi, suo apprendista, era un ragazzo di diciotto anni. Ogni giorno, si recavano insieme in una foresta situata a circa cinque miglia dal loro villaggio. Sulla strada per la foresta c’è un ampio fiume da attraversare e c’è anche un traghetto. Là dove c’è il traghetto, avevano costruito un ponte diverse volte, ma ogni volta il ponte era stato trascinato via dalla piena. In quel punto, nessun ponte comune può resistere alla corrente quando il fiume si alza.

Una fredda sera d’inverno, Mosaku e Minokichi stavano tornando a casa, quando furono sorpresi da un tremenda tempesta di neve. Raggiunsero il traghetto e scoprirono che il barcaiolo era andato via, lasciando la barca sull’altra riva del fiume. Non era giornata per nuotare, così i taglialegna trovarono rifugio nella capanna del traghettatore, considerandosi fortunati di aver trovato un riparo, qualunque fosse. Non c’era un braciere nella capanna, né un posto dove fare fuoco: era una capanna larga solo due metri per due, con un’unica porta e nessuna finestra. Mosaku e Minokichi chiusero la porta e si stesero a terra per riposare, coprendosi con le loro mantelle di paglia. Dapprincipio non sentirono troppo freddo e pensarono che la tempesta sarebbe finita molto presto.

Il vecchio si addormentò quasi immediatamente, ma il ragazzo, Minokichi, rimase sveglio per molto tempo, ascoltando l’infuriare del vento e il continuo sferzare della neve contro la porta. Il fiume ruggiva e il capanno oscillava e scricchiolava come una giunca sul mare. Era una tempesta tremenda e l’aria diventava ogni momento più fredda, e Minokichi tremava sotto la sua mantella. Ma alla fine, a dispetto del freddo, si addormentò anche lui.

Fu svegliato da uno scroscio di neve sulla faccia. La porta del capanno era stata aperta con la forza e, grazie al bagliore della neve (yuki-akari), vide una donna nella stanza – una donna tutta vestita di bianco. Era piegata su Mosaku e gli stava alitando addosso: il suo respiro era simile ad un luminoso fumo bianco. Quasi nello stesso momento, si voltò verso Minokichi, e si chinò su di lui. Il ragazzo tentò di gridare, ma scoprì che non riusciva ad emettere alcun suono.

La donna bianca si piegò su di lui, sempre più vicino, finché la sua faccia quasi lo toccò, e lui vide quanto era bella, anche se i suoi occhi lo spaventarono. Per un beve momento, lei continuò a guardarlo, poi sorrise e sussurrò: “Volevo trattarti come l’altro uomo. Ma non posso fare a meno di provare pietà per te, perché sei così giovane… Sei un bel ragazzo, Minokichi, e non ti farò del male, per il momento. Ma, se mai dirai a qualcuno, fosse anche tua madre, quello che hai visto questa notte, io lo saprò e allora ti ucciderò… Ricorda quello che dico!”

Con queste parole, si alzò e se ne uscì dalla porta. Il ragazzo, allora, riuscì a muoversi, si alzò di scatto e si guardò intorno. Ma non poté vedere la donna da nessuna parte, mentre la neve entrava furiosamente nella capanna. Minokichi chiuse la porta e la assicurò fissandoci diverse tavolette di legno. Si chiese se l’avesse spalancata il vento, pensò che doveva avere soltanto sognato e che forse aveva scambiato il bagliore della neve nel vano della porta con la figura di una donna bianca, ma non poteva esserne certo.

Chiamò Mosaku e si spaventò perché il vecchio non rispondeva. Allungò la mano nel buio e toccò la faccia di Mosaku e scoprì che era di ghiaccio! Mosaku era morto stecchito…

Col giungere dell’alba, la tempesta si placò e quando il traghettatore ritornò alla sua postazione, poco dopo il sorgere del sole, trovò Minokichi disteso a terra privo di sensi, accanto al corpo gelato di Mosaku. Minokichi fu immediatamente soccorso e subito rinvenne, ma rimase a lungo malato per gli effetti del freddo di quella terribile notte.

Era rimasto molto impressionato anche dalla morte del vecchio, ma non disse niente riguardo alla visione della donna vestita di bianco. Appena si rimise, ritornò al suo lavoro. La mattina andava da solo nella foresta e ritornava al calar della sera con le sue fascine di legna, che la madre aiutava a vendere.

Una mattina, l’inverno dell’anno seguente, mentre stava tornando a casa, si imbatté in una ragazza che stava facendo la sua stessa strada. Era una ragazza alta e slanciata, di bell’aspetto, e rispose al saluto di Minokichi con una voce piacevole all’orecchio come quella di un usignolo. Quindi, la affiancò e iniziarono a parlare.

La ragazza disse che il suo nome era O-Yukiii, che aveva perso i genitori recentemente e che stava andando a Yedoiii dove aveva dei parenti poveri che potevano aiutarla a trovare un lavoro come serva. Minokichi si sentì immediatamente affascinato da quella strana ragazza e più la guardava, più gli sembrava bella. Le chiese se era già fidanzata, lei rispose, ridendo, che era libera.

Poi, a sua volta, la ragazza chiese a Minokichi se era sposato o promesso sposo, e lui le disse che, sebbene avesse soltanto una madre vedova da mantenere, la questione di un’onorevole nuora non era ancora stata considerata, dal momento che era molto giovane… Dopo queste confidenze, continuarono a camminare per un bel pezzo senza parlare, ma, come dice il proverbio, Ki ga aréba, mé mo kuchi hodo ni mono wo iu: “quando c’è il desiderio, gli occhi dicono quanto la bocca.”

Quando giunsero al villaggio, si piacevano ormai moltissimo, e così Minokichi chiese a O-Yuki di riposarsi un poco a casa sua. Dopo una timida esitazione, andò con lui e sua madre la accolse con benevolenza e le preparò un pasto caldo. O-Yuki si comportò così educatamente che la madre di Minokichi le si affezionò immediatamente e la persuase a posticipare il suo viaggio a Yedo. E la naturale conclusione di tutto ciò fu che Yuki non andò mai a Yedo. Rimase nella casa come un’onorevole nuora.

O-Yuki si dimostrò un’ottima nuora. Quando la madre di Minokichi fu prossima a morire, quasi cinque anni dopo, le sue ultime parole furono parole di affetto e di stima per la moglie di suo figlio. E O-Yuki diede a Minokichi dieci figli, maschi e femmine, tutti bellissimi e dalla pelle molto chiara.

La gente di campagna considerava O-Yuki una splendida persona, di una natura diversa dalla loro. La maggior parte delle contadine invecchiava presto, ma O-Yuki, anche dopo essere diventata madre di dieci figli, appariva giovane e fresca come quando era arrivata al villaggio la prima volta. Una sera, dopo che i bambini erano andati a dormire, O-Yuki stava cucendo alla luce di una lampada di carta e Minokichi, guardandola, disse:

Vederti cucire qui, con la luce sulla faccia, mi fa pensare a una strana cosa che mi successe quando ero un ragazzo di diciotto anni. Allora vidi una donna bella e bianca come sei tu adesso, in effetti, era proprio uguale a te.”

Senza sollevare gli occhi dal lavoro, O-Yuki rispose:

Parlami di lei… Dove la vedesti?”

Allora Minokichi le raccontò di quella terribile notte nella capanna del traghettatore – e della Donna Bianca che si era chinata su di lui, sorridendo e sussurrando – e della morte silenziosa di Mosaku. E disse:

Addormentato o sveglio, quella fu l’unica volta in cui vidi un essere bello come te. Naturalmente, non era un essere umano, e io ne avevo paura – tanta paura – ma era così bianca!… In effetti, non sono mai stato sicuro se fosse un sogno quello che vidi, o la Donna della neve.”…

O-Yuki gettò a terra il suo lavoro di cucito, si alzò e si chinò su Minokichi, che era seduto, e gli gridò in faccia:

Ero io, io, io! Ero io, Yuki! E allora ti dissi che ti avrei ucciso se ne avessi fatto parola con qualcuno!… Ma per amore di quei bambini che dormono , potrei ucciderti all’istante! E ora, farai bene a prenderti estrema cura di loro, perché se mai avessero motivo di lamentarsi di te, ti tratterò come meriti!”

Sebbene stesse gridando, la sua voce divenne sottile, come il fruscio del vento, poi si dissolse in una brillante nebbia bianca che volteggiò fino alle travi del tetto e sparì attraverso il foro di uscita del fumo.



FINE

i Un’antica provincia, i cui confini includono gran parte dell’odierna Tokyo e parte delle prefetture di Saitama e Kanagawa.

ii Questo nome significa ‘neve’ e non è insolito. (N.d.A.)

iii Scritto anche Edo, l’antico nome di Tōkyō. (N.d.A.)

giovedì 31 agosto 2023

La lente di diamante

 

I’ll be watching you



Fitz-James O'Brien (1828-1862), nato in Irlanda da famiglia agiata, si trasferì in America dopo aver sperperato, in soli due anni, la sua ricca eredità. Considerato uno dei padri della moderna fantascienza, è la figura più importante della narrativa fantastica di lingua inglese nel periodo compreso tra Poe e Lovecraft. Poeta, autore di racconti e pièces teatrali, giornalista, nella sua pur breve ma intensa vita, O'Brien fu autore assai prolifico, oltre che una delle personalità più eclettiche del suo tempo. Le sue invenzioni letterarie hanno ispirato i più grandi autori del fantastico, da Maupassant a Lovecraft, da Wells a Merrith. In Italia O'Brien è apparso come protagonista di una storia della serie a fumetti Dampyr, scritta da Mauro Boselli, già autore di una versione a fumetti del racconto "La lente di diamante".

La lente di diamante (The Diamond Lens), è uno dei suoi racconti più famosi. È narrato in prima persona dal protagonista che ci parla della sua passione, coltivata fin dall’infanzia, per i microscopi e la microscopia, scienza che può aprirgli le porte di un universo ancora in gran parte inesplorato: l’infinitesimalmente piccolo. Nella spasmodica ricerca di una lente perfetta, non esita a consultare una medium per mettersi in contatto con lo spirito del padre della moderna microscopia che gli consiglia di usare, appunto, un diamante di insolita grandezza e purezza per realizzarla. Quando scopre che il possessore di questo raro gioiello è il suo vicino, non si fa scrupolo di ucciderlo per impossessarsene. Ottenuta la lente perfetta, la mette alla prova osservando una semplice goccia d’acqua. E qui scopre un mondo inaspettato: “un universo cromatico” di incredibile bellezza abitato da una meravigliosa, microscopica silfide a cui dà il nome di ‘Animula.’ Trascorre le sue giornate ad osservare la deliziosa creatura, angosciato dal fatto che i loro mondi non potranno mai venire in contatto. E quando infine il suo sogno d’amore evaporerà, la vita per lui perderà ogni significato.

Il racconto appartiene di buon diritto al genere fantascientifico, con i suoi strumenti avveniristici e l’esplorazione di ‘nuovi’ mondi popolati da creature ‘aliene.’ Non mancano, tuttavia, ‘prestiti’ da altri generi, come il soprannaturale della seduta spiritica, o il delitto della porta chiusa, inaugurato da Le Fanu (Uncle Silas) e sviluppato ne I Delitti della Rue Morgue di Poe. Ma l’aspetto più importante, ed esotico, è sicuramente quello romantico: l’amore improbabile dell’umano per la sua Animula, fatto di sguardi, al limite del voyerismo.

 

📌Per approfondire

Sul sito American Stories potrete ascoltare e leggere il testo, inoltre troverete anche materiale didattico e relativi quiz per autovalutazione o da usare in classe:

Parte 1, Parte 2




La lente di diamante

di

Fitz-James O'brien



I

Fin da un periodo molto precoce della mia vita, l’intero arco delle mie inclinazioni è stato rivolto alle indagini al microscopio. Quando non avevo più di dieci anni, un lontano parente della mia famiglia, sperando di stupire la mia inesperienza, mi costruì un semplice microscopio praticando un forellino in un disco di rame in cui una goccia di acqua pura era mantenuta dall’attrazione capillare. Questo apparato estremamente primitivo, che ingrandiva di circa cinquanta volta il diametro del foro, mostrava, in verità, soltanto forme indistinte ed imperfette, ma tuttavia sufficientemente meravigliose a stimolare la mia immaginazione ad uno stato di straordinaria eccitazione.

Vedendomi così interessato a questo rudimentale strumento, mio cugino mi spiegò tutto ciò che sapeva sui principi del microscopio, mi raccontò alcune meravigliose imprese che erano state compiute grazie ad esso, e finì col promettermi che me ne avrebbe spedito uno regolarmente costruito, appena fosse rientrato in città. Contai i giorni, le ore, i minuti che si frapponevano tra quella promessa e la sua partenza.

Nel frattempo, non restai senza far niente. Mi impossessai avidamente di ogni sostanza trasparente che avesse la più remota rassomiglianza con una lente, e la usai in inutili tentativi di realizzare quello strumento la cui teoria di costruzione allora comprendevo solo vagamente. Tutte le lastre di vetro che contenevano quegli oblati sferoidali familiarmente conosciuti come ‘occhi di bue,’ erano spietatamente distrutte nella speranza di ottenere lenti di straordinaria potenza.

Mi spinsi fino al punto di estrarre l’umore cristallino dagli occhi dei pesci e degli animali e provai ad inserirlo nel mio rudimentale microscopio. Mi confesso colpevole di aver rubato le lenti dagli occhiali di zia Agata, con la vaga idea di triturarli per ottenerne lenti dalle stupefacenti capacità di ingrandimento – nel quale tentativo è appena necessario dire che fallii totalmente.

Alla fine, il promesso strumento arrivò. Era di quel tipo conosciuto come microscopio elementare di Field, ed era forse costato circa quindici dollari. Al solo scopo didattico, non si sarebbe potuto scegliere uno strumento migliore. Insieme ad esso, c’era un trattatello sul microscopio – la sua storia, gli usi e le scoperte. Compresi allora, per la prima volta, le “Mille e una notte.”

L’opaco velo dell’esistenza ordinaria che ricopriva il mondo, sembrò improvvisamente alzarsi e mettere a nudo una terra di meraviglie. Nei confronti dei miei compagni, mi sentivo come il veggente potrebbe sentirsi nei confronti delle masse ordinarie degli uomini. Conversavo con la natura in una lingua che loro non potevano capire. Ero in costante comunicazione con meraviglie viventi quali loro non immaginavano nemmeno nelle loro più selvagge visioni. Penetrai oltre il portale sterno delle cose e vagai attraverso i santuari.

Là dove loro vedevano solo una goccia di pioggia scivolare lentamente lungo i vetri di una finestra, io vedevo un universo di esseri animati, con tutte le passioni comuni alla vita fisica, e che agitavano il loro minuscolo ambiente con lotte feroci e protratte come quelle degli uomini. Nelle comuni macchie di muffa che mia madre, da buona casalinga qual’era, toglieva via ostinatamente dai suoi barattoli di marmellata, lì per me dimoravano, sotto il nome di muffa, giardini incantati, pieni di valli e viali ricoperti dal fogliame più denso e dalla più stupefacente vegetazione, mentre dai fantastici rami di quelle microscopiche foreste pendevano strani frutti risplendenti di verde, argento e oro.

Non era la sete di sapere scientifico che al quel tempo occupasse la mia mente. Era il puro godimento di un poeta a cui è stato dischiuso un mondo di meraviglie. Non parlavo a nessuno dei miei piaceri solitari. Solo con il mio microscopio, consumai la mia vista, giorno dopo giorno e notte dopo notte, osservando attentamente le meraviglie che mi rivelava. Ero come uno che, avendo scoperto che l’antico Eden esisteva ancora in tutta la sua primitiva gloria, avesse deciso di goderne in solitudine e di non rivelare ad anima viva dove si trovasse. Il sentiero della mia vita stava prendendo la sua direzione in quel momento. Decisi che sarei diventato un microscopista.

Naturalmente, come tutti i novizi, mi illudevo di essere un pioniere. A quel tempo, ignoravo le migliaia di acuti intelletti impegnati nella mia stessa impresa e con il vantaggio di strumenti migliaia di volte più potenti del mio. I nomi di Leeuwenhoek, Williamson, Spencer, Ehrenberg, Schultz, Dujardin, Schact e Schleiden mi erano allora completamente sconosciuti o, se conosciuti, ignoravo le loro pazienti e meravigliose ricerche.

In ogni nuovo campione di crittogame che posizionavo sotto il mio strumento, credevo di scoprire meraviglie che il mondo ancora ignorava. Ricordo bene il brivido di piacere e ammirazione che mi pervase la prima volta che scoprii la comune rotifera volgare (Rotifera vulgaris) espandere e contrarre i suoi raggi flessibili, dando l’impressione di ruotare attraverso l’acqua. Ahimè, quando crebbi e mi procurai alcuni saggi che trattavano del mio studio preferito, scoprii di essere soltanto sulla soglia di una scienza alla cui indagine alcuni dei più grandi uomini dell’epoca stavano dedicando le loro vite e i loro intelletti.

Crescendo, i miei genitori erano ansiosi di farmi scegliere una professione, vedendo ben poche probabilità che qualcosa di pratico risultasse dall’esame di pezzetti di muschio e gocce di acqua attraverso un tubo di ottone e un pezzo di vetro.

Era loro desiderio che entrassi nell’ufficio commerciale di mio zio, Ethan Blake, un ricco mercante, che aveva la sua attività a New York. Mi opposi con decisione a quella proposta. Non avevo nessuna inclinazione per il commercio, sarebbe stato di sicuro un fallimento; in breve, rifiutai di diventare un mercante.

Ma era necessario che io scegliessi un’occupazione. I miei genitori erano gente prudente del New England, che insistevano sulla necessità di un lavoro e, pertanto, sebbene grazie al lascito della povera zia Agata, una volta diventato maggiorenne, avrei ereditato una piccola fortuna sufficiente a mettermi al sicuro dal bisogno, si decise che, invece di aspettare, avrei dovuto agire per il meglio e impiegare quell’intervallo di tempo per rendermi indipendente.

Dopo lunga riflessione, assecondai i desideri della mia famiglia e scelsi una professione. Decisi di studiare medicina alla New York Academy. Questa disposizione del mio futuro faceva al mio caso. Un allontanamento dai miei parenti mi avrebbe permesso di disporre del mio tempo come mi pareva senza paura di essere scoperto. Fino a che avessi pagato le tasse all’Accademia, potevo astenermi dal seguire le lezioni, se volevo e, dal momento che non avevo la minima intenzione di sostenere un esame, non c’era alcun pericolo si essere ‘pizzicato.’

Inoltre, una metropoli era il posto per me. Lì potevo procurarmi eccellenti strumenti, le più recenti pubblicazioni, amicizia con uomini impegnati in ricerche simili alla mia – in breve, tutte quelle cose necessarie ad assicurarmi una proficua consacrazione della mia vita alla mia amata scienza. Avevo denaro in abbondanza, pochi desideri che non si limitassero, da una parte al mio specchio illuminato, dall’altra al mio obbiettivo: pertanto, cosa mi avrebbe impedito di diventare un illustre studioso dei mondi invisibili? Fu dunque con le più ottimistiche speranze che lasciai la mia casa nel New England e mi stabilii a New York.

II

Il mio primo passo, naturalmente, fu di trovare una sistemazione soddisfacente. La trovai, dopo un paio di giorni di ricerca, nella Quarta Strada: un secondo piano molto grazioso, non ammobiliato, che comprendeva soggiorno, camera da letto e un vano più piccolo che intendevo organizzare come un laboratorio. Arredai il mio alloggio in maniera sobria, ma piuttosto elegante e poi dedicai tutte le mie energie al decoro del tempio della mia religione.

Feci visita a Pike, il famoso ottico, e passai in rivista la sua splendida collezione di microscopi – il Field complesso, lo Hingham, lo Spencer, il binoculare di Nachet (che si fondava sui principi dello stereoscopio), e alla fine mi decisi per quel tipo conosciuto come il microscopio con perno di articolazione di Spencer, che combinava il più grande numero di miglioramenti con una quasi perfetta assenza di tremore.

Insieme ad esso acquistai ogni possibile accessorio – tubi ottici, micrometri, una camera lucida, un porta oggetti mobile, condensatori acromatici, illuminatore a luce bianca, condensatori parabolici, apparati polarizzanti, forcipi, scatole acquatiche, pipette aspiranti, con una miriade di altri articoli che sarebbero stati utili nelle mani di un esperto microscopista, ma come scoprii in seguito, per me, in quel momento, non erano di alcun valore.

Ci vogliono anni di pratica per sapere usare un microscopio complesso. L’ottico mi guardava con sospetto mentre facevo questi acquisti costosi. Evidentemente era incerto se considerarmi una celebrità scientifica o un matto. Penso che fosse incline per questa seconda opzione. Suppongo che fossi matto. Ogni grande genio è matto per il soggetto in cui eccelle. Il matto senza successo è disprezzato e considerato folle.

Matto o non matto, mi misi al lavoro con uno zelo che ben pochi studenti di scienza hanno mai eguagliato. Avevo tutto da imparare riguardo al difficile studio in cui mi ero imbarcato – uno studio che richiedeva la più scrupolosa pazienza, le più rigide capacità analitiche, la mano più ferma, l’occhio più instancabile, la più raffinata e precisa manualità.

Per lungo tempo metà delle mie attrezzature giacquero inutilizzate sugli scaffali del mio laboratorio, che adesso era ampiamente fornito di ogni possibile dispositivo per facilitare le mie indagini. Il fatto era che io non sapevo come usare alcuni dei miei strumenti scientifici - non avendo mai studiato microscopia – e quelli il cui uso capivo solo teoricamente, sarebbero stati di scarsa utilità fino a quando, con la pratica, avrei potuto acquisire la necessaria delicatezza di manipolazione.

Tuttavia, tale era la furia della mia ambizione, tale l’instancabile perseveranza dei miei esperimenti che, sebbene sia difficile da credere, nel corso di un anno divenni un esperto microscopista, sia nella teoria che nella pratica.

Durante questo travagliato periodo, in cui sottomisi all’azione delle mie lenti campioni di qualunque sostanza mi capitasse di osservare, divenni uno scopritore – in scala ridotta, è vero, perché ero molto giovane, ma tuttavia uno scopritore.

Fui io a distruggere la teoria di Ehrenberg secondo cui il Volvox globator fosse un animale, e provai che le sue ‘monadi’ con occhi e stomaco erano semplicemente fasi nella formazione di una cellula vegetale ed erano, quando raggiungevano la maturazione, incapaci di riproduzione sessuata, o di qualsiasi atto riproduttivo, senza cui nessun organismo che assurga a uno stadio di vita superiore a quello vegetale può essere considerato completo. Fui io a risolvere il singolare problema della rotazione nelle cellule e nei peli delle piante dovuta all’attrazione ciliare, a dispetto delle asserzioni di Wenhame altri che la mia spiegazione fosse il risultato di un’illusione ottica.

Ma nonostante queste scoperte, ottenute così faticosamente e dolorosamente, mi sentivo terribilmente insoddisfatto. Ad ogni passo mi trovavo bloccato dall’imperfezione dei miei strumenti. Come tutti i microscopisti attivi, davo pieno spazio alla mia immaginazione. Infatti, è un critica comune nei loro confronti il fatto che suppliscano ai difetti dei loro strumenti con le creazioni della loro mente. Immaginavo profondità, oltre le profondità della natura, che la limitata potenza delle mie lenti mi proibiva di esplorare.

La notte, giacevo insonne costruendo immaginari microscopi di incommensurabile potenza, con cui mi sembrava di penetrare tutti gli strati della materia fino al suo atomo originale. Come maledicevo quegli imperfetti strumenti che, a causa dell’ignoranza, la necessità mi costringeva ad usare! Come ardevo dal desiderio di scoprire una lente perfetta, la cui capacità di ingrandimento dovesse essere limitata soltanto dalla risolubilità dell’oggetto e che, allo stesso tempo, dovesse essere libera da ogni aberrazione sferica o cromatica – in breve, da tutti quegli ostacoli in cui il povero microscopista si trova continuamente ad inciampare!

Mi ero fatto convinto che il microscopio semplice, composto di una singola lente di una potenza così grande ma perfetta, fosse di possibile realizzazione. Tentare di portare il microscopio complesso ad un tale livello sarebbe stato iniziare dalla parte sbagliata, essendo quest’ultimo semplicemente uno sforzo riuscito per rimediare proprio a quegli stessi difetti dello strumento più semplice che, se superati, non avrebbero lasciato altro da desiderare.

Fu con questo spirito che divenni un microscopista costruttore. Dopo un altro anno trascorso in questa nuova impresa, sperimentando ogni immaginabile sostanza – vetro, gemme, ossidiane, cristalli, cristalli artificiali costituiti da leghe di vari materiali vitrei – in breve, avendo costruito tante varietà di lenti quanti occhi aveva Argo – mi ritrovai esattamente al punto di partenza, non avendo guadagnato altro che un’ampia conoscenza nel campo della lavorazione del vetro, ero quasi morto dalla disperazione. I miei genitore erano sorpresi dalla mia apparente volontà di andare avanti negli studi medici (non avevo frequentato una sola lezione dal mio arrivo in città) e le spese della mia folle impresa erano state così grandi da imbarazzarmi seriamente.

Ero in questo stato d’animo quando un giorno, mentre ero nel mio laboratorio a fare esperimenti su un piccolo diamante – quella pietra, a causa del suo grande potere di rifrazione, aveva sempre attirato la mia attenzione più di ogni altra – un giovane francese che viveva sul piano sopra il mio, e che aveva l’abitudine di farmi visita occasionalmente, entrò nella stanza.

Penso che Jules Simon fosse ebreo. Aveva molti tratti del carattere ebraico: una passione per i gioielli, il vestire e la bella vita. C’era qualcosa di misterioso in lui. Aveva sempre qualcosa da vendere e tuttavia frequentava la migliore società. Quando dico vendere, forse avrei dovuto dire vendere al minuto, perché le sue operazione, generalmente, si limitavano alla vendita di singoli articoli – un dipinto, per esempio, o un raro intaglio in avorio, o un paio di pistole da duello, o l’abito di un caballero messicano.

Quando iniziai ad ammobiliare il mio appartamento, mi fece una visita che si concluse col mio acquisto di una lampada d’argento, che mi assicurò fosse un Cellini – era comunque abbastanza bella – ed altri soprammobili per il mio soggiorno. Perché Simon dovesse praticare questo piccolo commercio, non sono mai riuscito a capirlo. Apparentemente aveva denaro a sufficienza ed era ammesso nelle migliori case della città – avendo cura, comunque, credo, di non fare affari nel cerchio incantato delle ‘Upper Ten.i

Alla fine, giunsi alla conclusione che queste vendite al minuto non erano altro che una maschera per coprire qualcosa di più importante, e arrivai al punto di credere che il mio giovane vicino fosse implicato nel commercio degli schiavi. Questo, tuttavia, non era affar mio. Questa volta, Simon entrò nella stanza in uno stato di considerevole eccitazione.

Ah! mon ami!esclamò, prima che potessi potessi rivolgergli l’ordinario saluto, “mi è capitato di essere testimone delle più sorprendenti cose del mondo. Mi recai alla casa di Madame…Quel piccolo animale - le renard – come si chiama in latino?”

Vulpes,” risposi.

Ah! si...Vulpes. Mi recai alla casa di Madame Vulpes.”

La medium?”

Sì, la grande medium. Santo cielo! Che donna! Scrissi su di un pezzo di carta diverse domande concernenti alcune mie faccende delle più segrete – faccende che si celano negli abissi più profondi del mio cuore e, guarda un po,’ che succede? Quel diavolo di una donna risponde esattamente a tutte quante. Mi parla di cose di cui non amo parlare nemmeno con me stesso. Cosa devo pensare? Sono uno con i piedi per terra!”

Devo forse intendere, M. Simon, che questa Mrs. Vulpes ha risposto a domande da lei scritte nascostamente, le quali domande si riferivano ad avvenimenti conosciuti soltanto da lei?”

Ah! Molto di più, molto di più,” rispose, con un’aria alquanto preoccupata. “Mi informò di cose… Ma,” aggiunse dopo una pausa, e cambiando improvvisamente atteggiamento, “perché occuparci di certe follie? Era soltanto biologia, senza dubbio. Non c’è bisogno di dire che non gli attribuisco alcun credito. Ma perché restiamo qui, mon ami?

Mi è capitato di scoprire la cosa più bella che lei possa immaginare – un vaso decorato con lucertole verdi, opera del grande Bernard Palissy. Si trova nel mio appartamento, andiamo su. Voglio mostrarglielo.”

Seguii Simon meccanicamente, ma i miei pensieri erano lontani da Palissy e il suo vaso smaltato, sebbene io, come lui, stessi cercando nelle tenebre una grande scoperta. Questa fortuita menzione della medium, Madame Vulpes, mi mise su di una nuova pista.

E se, attraverso la comunicazione con organismi più perspicaci di me, avessi potuto arrivare, in un sol balzo, all’obbiettivo che forse una vita di estenuante fatica mentale non mi avrebbe mai permesso di raggiungere?

Mentre compravo il vaso di Palissy dal mio amico Simon, stavo mentalmente organizzando una visita a Madame Vulpes.



III

Due sere dopo, grazie ad un accordo epistolare e alla promessa di una generosa ricompensa, trovai Madame Vulpes che mi aspettava da sola nella sua residenza. Era una donna di aspetto rozzo, con penetranti e crudeli occhi scuri ed un’espressione della bocca e della mandibola estremamente sensuale. Mi ricevette in perfetto silenzio, in un appartamento al piano terra, scarsamente ammobiliato. Al centro della stanza, vicino a dove sedeva Mrs. Vulpes, c’era un comune tavolo rotondo di mogano.

Se fossi venuto per pulire il camino, la donna non sarebbe sembrata più indifferente alla mia persona. Non c’era alcun tentativo di ispirare timore nel visitatore. Ogni cosa aveva un aspetto semplice e pratico. Questo intercorso con il mondo spirituale era evidentemente, per Mrs. Vulpes, un’occupazione familiare come pranzare o prendere l’omnibus.

È venuto per una comunicazione, Mr. Linley?” disse la medium, con un tono di voce asciutto e professionale.

Su appuntamento… sì.”

Che sorte di comunicazione desidera… per iscritto?”

Sì, ne desidero una per iscritto.”

Con un particolare spirito?”

Sì.”

Ha mai conosciuto questo spirito su questa terra?”

Mai. È morto molto prima che io nascessi. Voglio semplicemente ottenere da lui alcune informazioni che dovrebbe essere in grado di darmi meglio di chiunque altro.”

Vuole sedersi al tavolo, Mr. Linley,” disse la medium, “e posarvi sopra le mani?”

Obbedii, Mrs. Vulpes sedeva di fronte a me, anche lei con le mani sul tavolo. Rimanemmo così per circa un minuto e mezzo, quando una violenta successione di colpi si abbatté sul tavolo, sulla spalliera della mia sedia, sul pavimento proprio sotto i miei piedi, e perfino sui vetri della finestra. Mrs. Vulpes sorrise senza scomporsi.

Sono molto forti, stanotte,” esclamò. “Lei è fortunato.” Poi continuò, “vogliono gli spiriti comunicare con questo gentiluomo?”

A questa domanda seguì un confuso battere.

So cosa significa,” disse Mrs. Vulpes, rivolgendosi a me, “vogliono che lei scriva il nome del particolare spirito con cui desidera conversare. È così?” aggiunse, rivolgendosi ai suoi invisibili ospiti.

Che fosse così, fu evidente dalle numerose risposte affermative. Nel frattempo, strappai un pezzo di carta dal mio taccuino e, sotto il tavolo, vi scribacchiai un nome.

Vuole questo spirito comunicare per iscritto con questo gentiluomo?” chiese di nuovo la medium.

Dopo un momento di pausa, sembrò che la sua mano fosse presa da un violento tremore, agitandosi così forte che il tavolo si mise a vibrare. Disse che uno spirito le aveva afferrato la mano e voleva scrivere. Le passai alcuni fogli di carta che erano sul tavolo e una penna.

Prese quest’ultima senza stringerla e la sua mano iniziò immediatamente a muoversi sulla carta con un moto singolare e apparentemente involontario. Dopo che furono trascorsi alcuni momenti, mi passò il foglio, su cui trovai scritto, in una grafia grande ed elementare, le parole, “Non è qui, ma lo abbiamo mandato a chiamare.” Seguì una pausa di circa un minuto, durante la quale Mrs. Vulpes rimase in completo silenzio, ma i colpi continuarono ad intervalli regolari.

Trascorso questo breve periodo, la mano della medium fu di nuovo presa dal suo tremore convulsivo e la donna, sotto questa strana influenza, scrisse alcune parole su di un foglio di carta che poi mi passò. Erano le seguenti:

Sono qui. Interrogatemi.”

Leeuwenhoek.ii

Rimasi di sasso. Il nome era identico a quello che avevo scritto sotto il tavolo e tenuto attentamente nascosto. Ed era del tutto improbabile che una donna ignorante come Mrs. Vulpes conoscesse almeno il nome del grande padre della microscopia. Forse era stata biologia, ma questa teoria fu immediatamente destinata ad essere smentita.

Sul mio pezzo di carta, che ancora tenevo nascosto da Mrs. Vulpes, scrissi una serie di domande che, per non annoiarvi, riporterò insieme alle risposte, nell’ordine in cui avvennero:

Io – Il microscopio può essere portato alla perfezione?

Spirito – Sì.

Io – Sono destinato a condurre a termine questo grande compito?

Spirito – Lo sei.

Io – Voglio sapere come fare per ottenere questo risultato. Per l’amore che porti alla scienza, aiutami!

Spirito – Un diamante di centoquaranta carati, sottoposto a correnti elettromagnetiche per lungo tempo, subirà una riorganizzazione dei suoi atomi inter se e da quella pietra otterrai la lente universale.

I — Dall’uso di questa lente, ne deriveranno grandi scoperte?

Spirit— Così grandi, che tutto quello che è venuto prima è niente.

I— Ma il potere rifrattivo del diamante è così immenso che l’immagine si formerà all’interno della lente. Come si può superare questa difficoltà?

Spirit— Fora la lente lungo il suo asse e questa difficoltà sarà ovviata. L’immagine si formerà nello spazio perforato, che servirà anche come tubo attraverso cui guardare. Ora mi chiamano. Buona notte.

Non posso assolutamente descrivere l’effetto che queste straordinarie comunicazioni ebbero su di me. Mi sentivo completamente frastornato. Nessuna teoria biologica poteva spiegare la scoperta della lente. La medium avrebbe potuto, grazie ad un rapporto biologico con la mia mente, arrivare fino al punto di leggere le mie domande e rispondere ad esse coerentemente. Ma la biologia non poteva metterla in grado di scoprire che le correnti magnetiche avrebbero a tal punto alterato i cristalli del diamante da rimediare ai suoi difetti pregressi e che gli avrebbero permesso di diventare una lente perfetta una volta lucidato.

Una tale teoria poteva essermi passata per la testa, è vero, ma se così, lo avevo dimenticato. Nella mia eccitata condizione mentale non c’era altra alternativa se non diventare un convertito e fu in uno stato della più dolorosa esaltazione nervosa che lasciai la casa della medium quella sera. Mi accompagnò alla porta, sperando che fossi soddisfatto. I colpi ci seguirono mentre attraversavamo l’ingresso, risuonando sui corrimano, il pavimento e perfino l’architrave della porta. Espressi brevemente la mia soddisfazione e uscii di corsa nella fredda aria notturna.

Camminai verso casa, ma ero posseduto da un unico pensiero, come ottenere un diamante dell’immensa dimensione richiesta. I miei modesti mezzi moltiplicati per cento sarebbero stati inadeguati ad acquistarlo. Inoltre, tali pietre sono rare e diventano storiche. Potevo trovarne una simile soltanto nei paramenti dei monarchi orientali o europei.

IV

Quando entrai a casa, c’era una luce nella stanza di Simon. Un impulso indefinito mi spinse a fargli visita. Quando aprii la porta del suo soggiorno senza essermi annunciato, era chino, con la schiena verso di me, su di una lampada Carceliii, apparentemente impegnato nel minuzioso esame di un qualche oggetto che teneva nelle mani. Quando entrai, ebbe un improvviso soprassalto, infilò la mano nel taschino della giacca e si girò verso di me, con il volto paonazzo per l’imbarazzo.

Cosa vedo!” esclamai, “stai esaminando la miniatura di una bella signora? Suvvia, non arrossire così, non ti chiederò di vederla.”

Simon rise abbastanza goffamente, ma non tentò di negare come faceva di solito in queste occasioni. Mi chiese di sedermi.

Simon,” dissi, “Sono appena tornato dalla casa di Madame Vulpes.”

Questa volta Simon diventò bianco come un lenzuolo e sembrò stupefatto, come se lo avesse colpito un improvviso shock elettrico. Balbettò alcune parole incoerenti e andò di corsa ad un armadietto dove, di solito, teneva i suoi liquori. Sebbene stupito dal suo turbamento, ero troppo preoccupato dai miei pensieri per prestare molta attenzione a qualcos’altro.

Dici il vero quando chiami Madame Vulpes un diavolo di donna.” continuai. “Simon, questa notte mi ha detto cose meravigliose o, piuttosto, è stata il mezzo per comunicarmi cose meravigliose. Ah! Se solo potessi procurarmi un diamante che pesi centoquaranta carati.”

Il sospiro con cui avevo espresso questo desiderio si era a malapena spento sulle mie labbra, quando Simon, con l’espressione di una bestia selvaggia, mi fissò con ferocia e, correndo verso il focolare, dove alcune armi straniere erano appese sopra la mensola, afferrò un kris malese e lo brandì furiosamente davanti a sé.

No!” gridò in francese, lingua in cui si esprimeva quando era eccitato. “No! Non lo avrai! Tu sei perfido! Ti sei consultato con quel demonio e desideri il mio tesoro! Ma prima preferisco morire! IO, io sono coraggioso! Non puoi farmi paura!” Tutto questo, profferito a voce alta e tremando per l’eccitazione, mi stupì. Capii improvvisamente che mi ero accidentalmente imbattuto nel segreto di Simon, qualunque esso fosse. Era necessario rassicurarlo.

Mio caro Simon,” dissi, “Non riesco proprio a capire cosa vuoi dire. Sono andato da Madame Vulpes per consultarmi con lei su di un problema scientifico, per la cui soluzione scoprii che era necessario un diamante della dimensione che ho appena menzionato. Durante la serata, non si è fatta alcuna allusione a te, né, per quel che mi concerne, si è mai pensato a te. Quale può essere il significato di questa rabbia improvvisa? Se per caso possiedi una serie di diamanti di valore, non hai niente da temere da me. Non potresti possedere il diamante di cui ho bisogno o, se tu lo possedessi, non vivresti qui.”

Qualcosa nel mio tono deve averlo completamente rassicurato, perché la sua espressione si tramutò immediatamente in una sorta di forzato divertimento, combinato comunque, con una certa attenzione sospetta ai miei movimenti. Rise e disse che dovevo avere pazienza con lui e che in certi momenti era soggetto ad una specie di vertigine, che si manifestava con discorsi incoerenti e aggiunse che quegli attacchi passavano con la stessa rapidità con cui erano venuti.

Mise via la sua arma mentre faceva questa spiegazione e si sforzò, con un certo successo, di assumere un’aria più lieta.

Tutto questo non mi ingannò minimamente. Ero troppo abituato all’attività analitica per farmi confondere da un velo così tenue. Ero determinato a sondare quel mistero fino in fondo.

Simon,” dissi allegramente, “dimentichiamo tutto questo con una bottiglia di Borgogna. Ho una cassa di Clos Vougeot della ditta Lausseure, fragrante dei profumi della Côte d'Or e rosso del suo sole. Beviamoci un paio di bottiglie. Che ne dici?”

Con tutto il cuore,” rispose Simon sorridendo.

Portai il vino e ci sedemmo a bere. Si trattava di una famosa vendemmia, quella del 1848, un anno in cui guerra e vino prosperavano insieme, e il suo succo, puro ma potente, sembrava impartire rinnovata vitalità all’organismo. Avevamo finito la seconda bottiglia, quando la testa di Simon, che sapevo essere debole, aveva iniziato a cedere, mentre io rimanevo calmo come sempre, se non che ogni sorso sembrava infondermi una vampata di vigore per tutto il corpo. Le frasi di Simon divennero sempre più confuse.

Iniziò a cantare chansons francesi di contenuto non troppo morale. Mi alzai improvvisamente dal tavolo, proprio alla conclusione di uno di questi versi insensati e, puntando gli occhi su di lui con un sorriso calmo, dissi, “ Simon, ti ho ingannato. Io ho appreso il tuo segreto questa sera. Puoi essere egualmente franco con me. Mrs. Vulpes, o meglio, uno dei suoi spiriti, me lo ha detto.”

Trasalì per l’orrore. Sul momento, la sua ebrezza sembrò svanire e fece un movimento verso l’arma che poco prima aveva messo giù, lo fermai con la mano.

Mostro,” gridò rabbiosamente, “Sono rovinato! Che devo fare? Non lo avrai mai! Lo giuro su mia madre!”

Non lo voglio,” dissi, “stai tranquillo, ma devi essere franco con me. Raccontami tutto del diamante.”

L’ubriachezza ricominciò a tornare. Protestò con piagnucolosa enfasi che mi ero completamente sbagliato – che ero ubriaco, poi mi chiese di giurare eterna segretezza e promise di rivelarmi il mistero. Naturalmente, diedi la mia parola. Con uno sguardo impacciato negli occhi e le mani tremanti per il bere ed il nervosismo, si tolse dal petto una scatolina e la aprì. Buon Dio! Incredibilmente, la dolce luce della lampada si frammentò in un migliaio di frecce prismatiche appena cadde su di un enorme diamante rosa che luccicava nella scatola.

Non ero un esperto di diamanti, ma capii a prima vista che questa era una gemma di rara grandezza e purezza. Guardai Simon con meraviglia e – devo confessarlo? - con invidia. Come era riuscito ad ottenere questo tesoro? In risposta alle mie domande, potei soltanto cogliere dalle sue dichiarazioni da ubriaco (da qui, immagino, derivasse metà dell’incoerenza), che era stato sovrintendente di una squadra di schiavi impegnati setacciare e lavare diamanti in Brasile; che aveva visto uno di loro nascondere un diamante ma, invece di informare i proprietari, aveva osservato il negro in silenzio e lo aveva visto sotterrare il suo tesoro; che lo aveva dissotterrato ed era fuggito con esso, ma, fino ad oggi, aveva avuto paura di disfarsene pubblicamente – una gemma così preziosa era certamente destinata ad attrarre troppa attenzione sui trascorsi del suo possessore – e non era stato capace di scoprire nessuno di quei canali oscuri attraverso cui certi affari vengono condotti in sicurezza. Aggiunse che, secondo l’usanza orientale, aveva dato al suo diamante il fantasioso nome di ‘L’occhio del mattino.’

Mentre Simon mi narrava queste cose, guardai il grande diamante con attenzione. Non avevo mai visto niente di così bello. Tutte le magnificenze della luce mai immaginate o descritte sembravano pulsare nelle sue camere cristalline. Il suo peso, come appresi da Simon, era esattamente centoquaranta carati. Ecco un’incredibile coincidenza. Sembrava esserci la mano del destino. La stessa sera in cui lo spirito di Leeuwenhoek mi comunica il grande segreto del microscopio, l’inestimabile strumento che mi aveva istruito ad usare mi si presenta a portata di mano, decisi, con assoluta risolutezza, di impossessarmi del diamante di Simon.

Sedevo di fronte a lui, mentre la sua testa ciondolava sul bicchiere e con calma analizzavo la faccenda. Nemmeno per un istante avevo preso in considerazione un’azione così stupida come un comune furto che, naturalmente, sarebbe stato scoperto e, quanto meno, mi avrebbe costretto a fuggire e a nascondermi, tutte cose destinate ad interferire con i miei progetti scientifici. Non c’era che un solo passo da intraprendere – uccidere Simon. Dopo tutto, cos’era la vita di un piccolo commerciante ebreo paragonata agli interessi della scienza? Gli esseri umani vengono prelevati ogni giorno dalle prigioni dei condannati a morte per essere sottoposti agli esperimenti dei chirurghi.

Quest’uomo, Simon, era per propria ammissione un criminale, un ladro e, ne ero intimamente convinto, un assassino. Meritava la morte proprio come un qualunque delinquente condannato dalla legge: perché non avrei dovuto, come il governo, fare in modo che la sua punizione contribuisse al progresso della conoscenza umana?

Il mezzo per realizzare tutto quello che desideravo era a portata di mano. Sulla mensola del focolare c’era una bottiglia mezza piena di laudano franceseiv. Simon era così occupato con il suo diamante, che gli avevo appena restituito, che fu una faccenda priva di difficoltà drogare il suo bicchiere. In un quarto d’ora era in un sonno profondo.

Allora, aprii il suo panciotto, presi il diamante dalla tasca interna in cui lo aveva riposto, e lo trascinai fino al letto, dove lo adagiai in modo che i piedi penzolassero dal bordo. Mi ero impossessato del kris malese, che tenevo nella mia mano destra, mentre con l’altra localizzai nel modo più accurato possibile, con l’aiuto dei battiti, l’esatta posizione del cuore. Era essenziale che tutti gli aspetti della su morte conducessero all’ipotesi del suicidio.

Calcolai l’angolo esatto con cui era probabile che l’arma, se sollevata dalla mano di Simon, sarebbe penetrata nel petto poi, con un potente colpo, l’affondai fino all’impugnatura, proprio dove avevo previsto. Un brivido convulso percorse le membra di Simon. Sentii un suono soffocato uscirgli dalla gola, proprio come l’esplosione di una grande bolla d’aria emessa da un tuffatore quando raggiunge la superficie dell’acqua; si girò su di un lato e, quasi ad assecondare i miei piani in maniera più efficiente, la sua mano destra, mossa da un mero impulso spasmodico, afferrò l’impugnatura del kris, stringendola con straordinaria tenacia muscolare.

Oltre a questo, non ci fu nessuna reazione evidente. Il laudano, presumo, paralizzò la normale attività nervosa. Doveva essere morto sul colpo.

Tuttavia, c’era ancora qualcosa da fare. Per essere certi che ogni sospetto di quel fatto dovesse essere spostato dagli abitanti della casa allo stesso Simon, era necessario che, al mattino, la porta fosse trovata chiusa dall’internov.

Come riuscirci e poi fuggire via? Non attraverso la finestra, era fisicamente impossibile. Inoltre, avevo deciso che anche la finestra dovesse essere trovata chiusa. La soluzione era abbastanza semplice. Scesi silenziosamente fino alla mia stanza per prendere un particolare strumento che avevo usato per afferrare piccole sostanze scivolose, quali piccolissime sfere di vetro, etc.

Questo strumento non era altro che un lungo e sottile morsetto a mano, con una presa molto potente e un considerevole gioco delle leve, quest’ultimo era accidentalmente dovuto alla forma della maniglia. Con la chiave nella serratura, niente era più semplice che afferrare dall’esterno, attraverso la toppa, l’estremità del suo stelo con il morsetto e così chiudere la porta. Comunque, prima di tutto, bruciai alcuni fogli nel focolare di Simon. Di solito, i suicidi bruciano dei fogli di carta prima di darsi la morte.

Inoltre, versai ancora un po’ di laudano nel bicchiere di Simon – avendo prima rimosso ogni traccia di vino – pulii l’altro bicchiere e portai via con me le bottiglie. Se nella stanza fossero state trovate tracce di due persone che bevevano insieme, sarebbe naturalmente sorta la domanda: “Chi era il secondo?” Inoltre, le bottiglie di vino avrebbero potuto essere identificate come appartenenti a me. Il laudano lo versai per giustificare la sua presenza nel suo stomaco, in caso di un esame post mortem.

L’idea, naturalmente, era che egli dapprima intendesse avvelenarsi ma, dopo aver ingerito un po’ di droga, o era rimasto disgustato dal suo sapore, o aveva cambiato idea per altri motivi e aveva scelto il pugnale. Dopo aver preso queste precauzioni, uscii lasciando accesa la lampada, chiusi la porta col mio morsetto e andai a letto.

La morte di Simon non fu scoperta fino a quasi le tre del pomeriggio. La cameriera, stupita nel vedere la lampada accesa – la luce filtrava sul pianerottolo buio da sotto la porta – spiò attraverso il buco della serratura e vide Simon sul letto.

Diede l’allarme. La porta fu spalancata e il vicinato precipitò in un febbrile eccitazione.

Tutti gli abitanti della casa furono arrestati, compreso me. Ci fu un’inchiesta, ma non si poté ottenere nessun indizio circa questa morte se non quello del suicidio. Abbastanza curiosamente, la settimana precedente Simon aveva fatto diversi discorsi con i suoi amici che sembravano andare in direzione dell’auto annientamento. Un gentiluomo giurò che aveva detto in sua presenza che “era stanco della vita.” Il padrone di casa affermò che, nel pagargli la pigione dell’ultimo mese, Simon aveva commentato che “non gli avrebbe più pagato l’affitto.”

Ogni altra prova corrispondeva–la porta chiusa dall’interno, la posizione del cadavere, i fogli bruciati. Come avevo previsto, nessuno sapeva che Simon possedesse il diamante, pertanto non si trovò nessun movente per il suo omicidio. La giuria, dopo un lungo esame, rientrò con il previsto verdetto e il vicinato tornò di nuovo alla solita tranquillità.

V

Durante i tre mesi successivi alla sventurata morte di Simon, mi dedicai notte e giorno alla mia lente di diamante. Avevo costruito un’enorme batteria galvanica, composta da circa duemila paia di piastre: non mi azzardai ad osare una potenza maggiore, per timore che il diamante si calcinasse. Grazie a questo enorme congegno, fui in grado di inviare ininterrottamente una potente corrente elettrica attraverso il mio grande diamante, che mi sembrò acquistare in luminosità giorno dopo giorno.

Trascorso un mese, iniziai la molatura e la lucidatura della lente, un lavoro di intensa fatica e squisita delicatezza. La grande densità della pietra e l’attenzione necessaria con le curvature delle superfici della le lente, resero quella fatica la più dura e la più assillante che avessi mai intrapreso.

Alla fine, il grande momento arrivò: la lente era stata completata. Restai tremante sulla soglia di nuovi mondi. Avevo davanti a me la realizzazione del famoso desiderio di Alessandro. La lente era sul tavolo, pronta ad essere sistemata sopra la sua piattaforma. La mano mi tremava un po’ mentre mentre ricoprivo una goccia d’acqua con un sottile strato di olio di trementina, per prepararla al suo esame, un procedimento necessario allo scopo di prevenire la rapida evaporazione dell’acqua.

Poi, misi la goccia su di un sottile vetrino sotto la lente e, proiettandovi sopra, con l’azione combinata di un prisma e di uno specchio, un potente fascio di luce, avvicinai l’occhio al piccolo buco che avevo perforato lungo l’asse della lente. Per un istante non vidi altro che quello che sembrava un caos illuminato, un vasto, luminoso abisso.

Una pura luce bianca, senza nuvole, serena e apparentemente infinita, come lo spazio stesso, fu la mia prima impressione. Delicatamente e con la massima attenzione, abbassai la lente di qualche pelo. La portentosa illuminazione era ancora attiva, ma quando la lente si avvicinò all’oggetto, una scena di indescrivibile bellezza si dischiuse alla mia vista.

Mi sembrava di contemplare un vasto spazio, i cui confini si estendevano molto oltre il mio sguardo. Un’atmosfera di magica luminosità permeava l’intero campo visivo. Mi stupii di non vedere alcuna traccia di animalculivi. Apparentemente, nessuna cosa vivente abitava quell’abbagliante distesa. Compresi immediatamente che, grazie all’incredibile potenza della mia lente, ero penetrato oltre le particelle più grossolane della materia acquosa, oltre il regno degli infusori e dei protozoi, giù fino al globulo gassoso originale, nel cui luminoso interno stavo guardando come in una cupola senza fine piena di sopranaturale radiosità.

Tuttavia, non era un vuoto luminoso, quello in cui stavo guardando. Da ogni lato, vedevo meravigliose forme inorganiche, di una materia sconosciuta e colorate con le tinte più incantevoli. Queste forme avevano l’apparenza di quelle che potrebbero essere chiamate, per mancanza di una definizione più specifica, nuvole fogliate della specie più rara – cioè, ondeggiavano ed erompevano in forme vegetali ed erano venate di splendori al cui confronto, il colore dorato dei nostri boschi autunnali è come ruggine, se paragonato all’oro.

Lontano, in questa illimitata distanza, si dipanavano i lunghi viali di queste foreste gassose, vagamente trasparenti e dipinte a tinte prismatiche di inimmaginabile brillantezza. I rami cascanti ondulavano lungo le fluide radure finché ogni prospettiva sembrò farsi strada attraverso file semi-lucenti di penduli stendardi setosi e variopinti. Ciò che sembrava essere frutta oppure fiori, dalle multicolori sfumature, lucenti e mutevoli, spuntavano dalle cime di questo magico fogliame.

Non si vedevano colline, laghi, o fiumi né forme animate o inanimate, ad eccezione di quei boschi aurorali che fluttuavano serenamente in quel luminoso silenzio, con foglie e frutti e fiori risplendenti di fuochi sconosciuti, inconcepibili con la semplice immaginazione.

Che strano, pensai, che questa sfera dovesse essere condannata alla solitudine in questo modo! Avevo sperato, almeno, di scoprire alcune nuove forme di vita animale, forse di una classe inferiore a quelle che ci sono attualmente familiari, ma pur sempre organismi viventi. Trovavo che il mio mondo appena scoperto fosse, se così posso dire, uno splendido deserto cromatico.

Mentre speculavo sui singolari ordinamenti dell’economia interna della natura, con cui essa così frequentemente fa a pezzi le nostre più solide teorie, mi sembrò di vedere una forma muoversi lentamente attraverso le radure di una delle foreste prismatiche. Guardai più attentamente e scoprii che non mi ero sbagliato. Le parole non possono descrivere l’ansia con cui attesi un approccio ravvicinato con questo misterioso oggetto. Era semplicemente una qualche sostanza inanimata, tenuta in sospensione nell’atmosfera attenuata del globulo, o era un animale dotato di vitalità e movimento?

Si avvicinò, guizzando dietro gli impalpabili veli colorati del fogliame nebuloso, vagamente visibile per qualche secondo, per poi svanire. Infine, gli stendardi viola, che penzolavano più vicino a me, vibrarono: furono delicatamente scostati e la forma fluttuò in piena luce.

Era una forma umana femminile. Quando dico umana, voglio dire che possedeva fattezze umane, ma qui l’analogia finisce. La sua adorabile bellezza la elevava ad altezze incommensurabilmente al di sopra delle più amabili figlie di Adamo.

Non posso, non oso, tentare l’inventario delle attrattive di questa rivelazione di perfetta bellezza. Quegli occhi di mistico violetto, umidi e limpidi, vanno oltre le mie parole. I suoi capelli lunghi e lucenti, che assecondano la sua magnifica testa con una scia dorata, come il sentiero tracciato nel cielo da una stella cadente, sembrano spegnere le mie frasi più infuocate con il loro splendore. Se tutte le api di Iblavii facessero il nido sulle mie labbra, non canterei con una voce più roca le armonie della sagoma che racchiudeva la sua forma.

Avanzò tra i tendaggi arcobaleno di quegli alberi nebulosi fino al vasto mare di luce che si estendeva lì davanti. I suoi movimenti erano quelli di una graziosa naiade che, con un mero sforzo di volontà, fendeva le chiare e tranquille acque che riempivano le camere del mare. Procedeva fluttuando con la serena grazia di una fragile bolla che ascenda su per la calma atmosfera di un giorno di giugno.

La perfetta rotondità delle sue membra formava curve soavi ed incantevoli. Guardare quell’armonioso fluire di linee era come ascoltare la più spirituale sinfonia di Beethoven il divino. Questo, infatti, era un piacere convenientemente acquistato a qualunque prezzo. Che mi importava se avevo guadato il portale di questa meraviglia attraverso il sangue di un altro. Avrei dato il mio per godere di un tale momento di ebrezza e piacere.

Senza fiato per la visione di quell’amabile meraviglia e dimentico per un istante di ogni altra cosa salvo la sua presenza, ritrassi con impazienza l’occhio dal microscopio. Ahimè! Quando il mio sguardo cadde sul sottile vetrino sistemato sotto il mio strumento, l’intensa luce riflessa dallo specchio e dal prisma scintillava su di un’incolore goccia d’acqua! Lì, in quella minuscola perla di rugiada, quell’essere meraviglioso era imprigionato per sempre. Il pianeta Nettuno non era più distante da me di quanto non lo fosse lei. Mi affrettai ad applicare di nuovo l’occhio al microscopio.

Animula (lasciate che la chiami con il caro nome che le diedi in seguito) aveva cambiato la sua posizione. Si era di nuovo avvicinata alla fantastica foresta e stava guardando verso l’alto con insistenza. Subito dopo, uno degli alberi – devo chiamarli così dispiegò un lungo processo ciliare, con il quale afferrò uno dei frutti luminosi che brillavano sulla sua sommità e, strisciando lentamente verso il basso, lo tenne a portata di mano di Animula.

La silfide lo prese nella sua delicata mano e iniziò a mangiare. La mia attenzione era così totalmente assorbita da lei che non riuscii ad applicarmi al compito di determinare se questa singolare pianta agisse per istinto o per volontà.

La guardai, mentre consumava il suo pasto, con la più profonda attenzione. La flessuosità dei suoi movimenti mi mandò un brivido di piacere per tutto il corpo, il cuore batté all’impazzata quando girò i suoi meravigliosi occhi nella mia direzione.

Cosa non avrei dato per avere il potere di tuffarmi in quel luminoso oceano e fluttuare con lei attraverso quei solchi di porpora e oro! Mentre ero intento a seguire, col fiato in gola, ogni suo movimento, lei ebbe un improvviso soprassalto, sembrò mettersi in ascolto per un istante e poi, fendendo l’etere brillante in cui stava fluttuando, penetrò attraverso la foresta opalina come un lampo di luce e sparì.

Fui immediatamente assalito da una serie di sensazioni le più singolari. Era come se fossi diventato immediatamente cieco. La sfera luminosa era ancora davanti a me, ma la luce dei miei occhi era svanita. Cosa aveva causato questa improvvisa sparizione? Aveva un amante o un marito? Sì, era questa la soluzione! Un segnale da un felice compagno aveva vibrato attraverso i viali della foresta e lei aveva obbedito al richiamo.

Quando arrivai a questa conclusione, fui sopraffatto dall’angoscia delle mie sensazioni. Provai a rigettare la convinzione che la ragione mi imponeva. Combattei contro questa fatale conclusione – ma in vano. Era così. Non avevo scampo. Amavo un animalculo.

È vero che, grazie alla meravigliosa potenza del mio microscopio, lei appariva di fattezze umane. Invece di presentare il ripugnante aspetto di creature più primitive, che vivono e combattono e muoiono nelle parti più facilmente visibili di una goccia d’acqua, lei era aggraziata e delicata e di una bellezza insuperabile. Ma a che pro? Ogni volta che il mio occhio si ritraeva dallo strumento, tutto quello che vedeva era una misera goccia d’acqua, dentro cui, dovevo accontentarmi di sapere, viveva tutto ciò che poteva rendere felice la mia vita.

Se avesse potuto vedermi solo una volta! Se avessi potuto, per un momento, penetrare le mistiche mura che così inesorabilmente si ergevano a dividerci e sussurrare tutto quello che mi riempiva l’anima, avrei potuto accettare di essere soddisfatto per il resto della vita con la consapevolezza della sua remota considerazione.

Sarebbe stato già qualcosa aver stabilito un legame personale, anche se estremamente fragile, che ci legasse insieme – sapere che, a volte, mentre vagava per queste radure incantate, potesse pensare a quel meraviglioso straniero che aveva interrotto la monotonia della sua vita con la sua presenza e lasciato un gentile ricordo nel suo cuore.

Ma non era possibile. Nessuna invenzione di cui l’intelletto umano era capace poteva abbattere le barriere erette dalla natura. Potevo satollare la mia anima con la sua meravigliosa bellezza, tuttavia lei doveva rimanere ignorante degli occhi adoranti che giorno e notte la osservavano e che, anche quando erano chiusi, la vedevano in sogno. Con un amaro grido di angoscia fuggii dalla stanza e mi gettai sul letto, e singhiozzai fino ad addormentarmi.

VI

Il mattino seguente mi svegliai quasi all’alba e mi precipitai al microscopio, tremavo mentre cercavo il luminoso mondo in miniature che conteneva tutto il mio. Animula era lì. Avevo lascito la lampada a gas accesa, protetta dal suo schermo, quando ero andato a letto la notte precedente. Trovai la silfide che faceva il bagno, per così dire, nella brillante luce che la circondava, con un’espressione di piacere che animava i suoi lineamenti.

Scuoteva i suoi lucidi capelli d’oro sopra le spalle con innocente malizia. Giaceva distesa in quel medium trasparente, in cui si sosteneva senza sforzo, e faceva giravolte con l’incantevole grazia che la ninfa Salmace aveva esibito quando cercò di conquistare il timido Ermafroditoviii. Tentai un esperimento per capire se le sue capacità reattive fossero sviluppate. Abbassai considerevolmente la luce della lampada.

Con la poca luce rimasta, riuscii a vedere un’espressione di dolore attraversarle il viso. Guardò di colpo verso l’alto e la sua fronte si corrugò. Inondai di nuovo la piattaforma del microscopio con un flusso di luce pieno e tutta la sua espressione cambiò. Saltò in avanti come una sostanza priva di peso. I suoi occhi scintillarono e le labbra si mossero. Ah! Se solo la scienza avesse gli strumenti per trasmettere e duplicare i suoni, come fa con i raggi luminosi, quali canti di felicità avrebbero estasiato le mie orecchie! Quali inni di giubilo per Adoneix avrebbero emozionato quell’aura luminosa.

Adesso comprendevo come mai il conte della Cabalax popolò il suo mondo mistico con esseri dalle fattezze di stupende silfidi il cui respiro vitale era un fuoco luminoso e che si divertivano eternamente in regioni dell’etere più puro e della luce più pura. I rosacrocexi avevano anticipato la meraviglia che io avevo realizzato praticamente.

Non so bene quanto durò questa adorazione della mia strana divinità. Persi ogni cognizione del tempo. Per tutto il giorno, dalla prima alba fino a notte fonda, mi avrebbero trovato a sbirciare attraverso quella lente prodigiosa. Non vedevo nessuno, non andavo da nessuna parte e a malapena mi concedevo sufficiente tempo per i miei pasti. La mia intera vita trascorreva nella stessa contemplazione estatica di uno dei santi cattolici. Ogni ora passata ad osservare quella forma divina rafforzava la mia passione – una passione che era sempre rabbuiata dall’esasperante convinzione che, sebbene io potessi guardarla a volontà, lei mai e poi mai avrebbe potuto guardare me.

Alla lunga, diventai così pallido ed emaciato, per mancanza di riposo ed il continuo rimuginare sul mio folle amore e le sue crudeli condizioni, che mi decisi a fare uno sforzo per svezzarmi da esso. “Andiamo,” dissi, “Nel migliore dei casi, questa non è altro che una fantasia. La tua immaginazione ha attribuito ad Animula fascini che in realtà non possiede. L’isolamento dalla compagnia femminile ha prodotto questa morbosa condizione mentale. Confrontala con le belle donne del tuo mondo e questo falso incantesimo sparirà.”

Per caso, diedi un’occhiata ai giornali. Lì potei vedere la pubblicità di una celebre danseuse che che si esibiva tutte le sere al Nibloxii. La Signorina Caradolcexiii aveva la reputazione di essere la donna più bella e aggraziata del mondo. Mi vestii all’istante e andai a teatro.

Il sipario si alzò. Il solito semicerchio di fate vestite di mussolina bianca era in piedi sull’alluce destro e circondava il terrapieno, di tela verde con fiori dipinti, su cui il principe ritardatario stava dormendo. Improvvisamente si sente un flauto. Le fate hanno un sussulto. Gli alberi si aprono, Le fate si mettono tutte sull’alluce sinistro e la regina entra. Era la Signorina.

Saltò in avanti tra applausi roboanti e, atterrando su di un piede, rimase in equilibio nell’aria. Santo cielo! Era questa la grande incantatrice che aveva attratto i monarchi alle ruote della sua carrozza? Quelle membra pesanti e muscolose, quelle caviglie robuste, quegli occhi cavernosi, quel sorriso stereotipato, quelle guance rozzamente colorate! Dove erano le gemme vermiglie, gli occhi liquidi ed espressivi, le membra armoniose di Animula?


La signorina ballò. Che movimenti grossolani e scoordinati! Il gioco delle membra era completamente falso e artificioso. I suoi salti erano penosi sforzi atletici, la sua postura era scomposta e una sofferenza per gli occhi. Non riuscii più a sopportarlo, con un’esclamazione di disgusto, che attirò su di me lo sguardo di tutti, mi alzai dal mio posto proprio nel mezzo del pas-de-fascination della signorina e lasciai l’edificio.

Mi affrettai verso casa per saziare ancora una volta i miei occhi con l’amabile forma della mia silfide. Sentivo che da quel momento in poi combattere quella passione sarebbe stato impossibile. Posai i miei occhi sulla lente. Animula era lì – ma cosa poteva essere successo? Un terribile cambiamento sembrava aver avuto luogo durante la mia assenza. Un cruccio segreto sembrava rannuvolare le meravigliose sembianze di colei che stavo osservando. Il suo volto era diventato magro e sparuto, le sue membra si trascinavano pesantemente, la meravigliosa lucentezza dei suoi capelli d’oro era svanita.

Era malata – malata, ed io non potevo assisterla! Credo che in quel momento avrei rinunciato a tutte le mie prerogative di essere umano se solo avessi potuto rimpicciolirmi fino alla dimensione di un animalculo e avere la possibilità di consolare colei da cui il destino mi aveva separato per sempre.

Mi torturai il cervello per trovare la soluzione di questo mistero. Che cos’era che affliggeva la silfide? Sembrava che soffrisse un intenso dolore. I suoi lineamenti erano contratti e si torceva perfino, come a causa di un’agonia interiore. Anche le meravigliose foreste pareva che avessero perso metà della loro bellezza. I loro colori erano pallidi e in alcuni punti erano completamente spariti.

Osservai Animula per ore, con il cuore a pezzi mentre lei sembrava svanire inesorabilmente sotto i miei occhi. Improvvisamente, ricordai che non avevo controllato la goccia d’acqua da diversi giorni. Infatti, odiavo guardarla, perché mi ricordava la naturale barriera tra me e Animula. In tutta fretta, allungai lo sguardo fino al tavolino del microscopio. Il vetrino era ancora lì – ma, santo cielo, la goccia d’acqua era svanita! La terribile verità mi si rivelò di colpo: era evaporata, fino a diventare tanto minuscola da essere invisibile ad occhio nudo: ero rimasto a guardare il suo ultimo atomo, quello che conteneva Animula – e lei stava morendo. 

 Morte di Ofelia, Paul-Albert Steck, 1894

Corsi di nuovo alla lente e vi guardai attraverso. Ahimè! L’ultima agonia l’aveva afferrata. Le foreste dai colori dell’arcobaleno erano svanite e Animula giaceva dibattendosi flebilmente in quello che sembrava essere un punto debolmente illuminato. Ah! Che orrenda visione: le membra una volta così rotonde e incantevoli si erano ridotte a niente, gli occhi, quegli occhi luminosi come il cielo - si spegnevano sotto una polvere nera, i luminosi capelli d’oro ora lisci e scoloriti. L’ultimo spasimo giunse. Osservai l’agonia finale di quella forma sempre più oscura – e persi i sensi.

Quando mi svegliai da una trance di molte ore, mi trovai disteso tra i rottami del mio strumento, io stesso ridotto egualmente in frantumi nella mente e nel corpo. Mi trascinai a stento sul letto, da cui non mi alzai per molti mesi.

Ora dicono che sono matto, ma si sbagliano. Sono povero, perché non ho né il cuore né la volontà di lavorare, tutto il mio denaro è stato speso, e vivo di carità. Associazioni di giovanotti che amano gli scherzi mi invitano a tenere conferenze sull’ottica alle loro riunioni, cosa per cui mi pagano, e ridono di me mentre parlo. ‘Linley, il folle microscopista’ è il nome con cui mi chiamano. Credo di parlare in maniera incoerente mentre tengo le mie conferenze. Chi potrebbe parlare in modo sensato quando il suo cervello è tormentato da tali terrificanti ricordi, mentre, di tanto in tanto, tra le ombre della morte vedo la radiosa forma della mia perduta Animula.


FINE

 

i Upper Ten: termine apparso nel 1852 per indicare le classi alte della società newyorchese.

ii Anton van Leeuwenhoek (1632-1723), olandese, grazie a una eccezionale abilità di ottico realizzò a fini di ricerca numerose lenti biconvesse a breve lunghezza focale e piccole sfere di vetro fuso di diametro inferiore a mm. 2,5, che, inserite in una montatura metallica, funzionavano da microscopi semplici. Con tali esigue risorse egli compì osservazioni che si rivolgevano a ciò che era inaspettato e del tutto ignoto: i globuli del latte, i globuli rossi nel sangue, quegli "animalculi spermatici" presenti nell'acqua degli stagni (spermatozoi), cui attribuì per primo una funzione riproduttiva (1674-77)

iii Lampada Carcel, inventata da Guillaume Carcel (1750-1812) e che utilizza olio vegetale.

ivSoluzione ottenuta tramite macerazione dell'oppio in alcol, con l'aggiunta di aromi e coloranti, dotata di potere antispastico e antidolorifico. La formula odierna è quella proposta nel XVIII secolo dal medico inglese Thomas Sydenham, che lo preparò per primo in forma liquida. In passato è anche stato utilizzato come droga. Durante l'Ottocento fu usato nella guerra di secessione americana per alleviare il dolore dei soldati feriti (soprattutto dopo l'invenzione del fucile a ripetizione), ma anche per alleviare i disagi psicologici e le "tensioni da battaglia". Questa prassi causò la nascita dei primi veri morfinomani, i cosiddetti tossicodipendenti da morfina. Sempre nell'Ottocento, Friedrich Engels, filosofo ed economista tedesco, amico e collaboratore di Karl Marx, ne denuncia l'abuso da parte della classe operaia inglese: alcuni preparati che hanno come ingrediente base il laudano, tra cui lo sciroppo Godfrey’s Cordial, vengono somministrati dalle lavoratrici ai loro bambini per calmarli.

vNonostante il genere mistero o investigativo non sia stato stabilito fino al XIX secolo, ci sono autorevoli predecessori in alcuni scritti antichi. Il primo esempio di enigma della camera chiusa è comunemente ritenuto il racconto di Edgar Allan Poe I delitti della Rue Morgue (1841)[1], anche se cronologicamente questo titolo andrebbe attribuito al racconto Passage in the Secret History of an Irish Countess (1839), di Joseph Sheridan Le Fanu, poi ampliato dall'autore nel romanzo Uncle Silas (1851).

vi Tradotto dall'inglese-Animalcule è un termine arcaico per organismi microscopici che includevano batteri, protozoi e animali molto piccoli. La parola è stata inventata dallo scienziato olandese del XVII secolo Antonie van Leeuwenhoek per riferirsi aimicrorganismi che osservava nell'acqua piovana.

vii Il miele ibleo rappresenta uno dei mieli più noti e celebrati al mondo. In epoca greca, e in forma ancora maggiore in epoca romana, fu descritto e citato da numerosissimi scrittori.legato al mito di Ibla, da cui derivano i nomi di alcune città della Sicilia antica, tra cui la colonia greca di Megara Hyblaea, i cui resti si trovano a pochi km dall’attuale Augusta.

viii La storia di Salmace ed Ermafrodito viene narrata da Ovidio nelle Metamorfosi. Non è chiaro se Ovidio si limiti a narrare un mito greco preesistente o aggiunga elementi di propria invenzione. Nel suo racconto, comunque, Salmace era la ninfa di una fontana nella regione anatolica della Caria. Quando Ermafrodito, figlio di Ermes e Afrodite, giunse presso la fontana, Salmace se ne invaghì e lo abbracciò, chiedendo agli dei di poter restare eternamente con lui. Gli dei esaudirono la sua richiesta unendo Ermafrodito e Salmace in un unico corpo. Ermafrodito maledisse la fonte di Salmace, chiedendo che chiunque si fosse bagnato nelle sue acque avrebbe dovuto condividere il suo destino.

Il mito della fontana di Salmace è narrato nel brano dei Genesis The Fountain of Salmacis, dall'album Nursery Cryme.

ix Adone, nome che nelle lingue semitiche significa "Signore" (cfr. "Adonai" in ebraico), è una figura di origine semitica, dove era oggetto di un importante culto nelle varie religioni legate ai riti misterici ispirati dalla apparente morte e resurrezione stagionale della vegetazione. È relativamente assimilato alla divinità egizia Osiride, al semitico Tammuz, Baal e Hadad, all'etrusco Atunnis (o Atunis), all'anatolico Sandan di Tarso e anche al frigio Attis, tutte divinità legate alla rinascita e alla vegetazione. Soprattutto nell'attuale Siria era identificato come Adon.

x Comte de Gabalis (Conte di Cabala) è un testo francese del XVII secolo dell’abate Nicolas-Pierre-Henri de Montfaucon de Villars (1635–1673). Il protagonista è un occultista che spiega i misteri del mondo all’autore.

xi Rosacroce (dal tedesco Rosenkreuzer) o Rosa-Croce è il nome di un leggendario ordine segreto mistico, cabalistico - cristiano, menzionato storicamente per la prima volta nel XVII secolo in Germania. L'effettiva esistenza dell'Ordine, come quella del suo fondatore Christian Rosenkreuz, è ritenuta poco probabile e le prove della loro esistenza sono debolissime: secondo alcuni storici, le molte leggende che li riguardano sono prive di fondamento.

xiiIl Niblo's Garden è stato un teatro di New York sito a Broadway, di proprietà di William Niblo. Il grande teatro venne distrutto dal fuoco due volte e sempre ricostruito. Il nuovo teatro disponeva di 3.200 posti a sedere ed aveva il palcoscenico più attrezzato di New York. Nel 1850 iniziarono ad essere rappresentate opere italiane. L'ultima rappresentazione al Niblo's Garden venne data il 23 marzo 1895. Alcune settimane più tardi, il teatro venne abbattuto per far posto ad un edificio da adibire ad uffici. Poco tempo prima, Niblo aveva acquistato il Metropolitan Hotel e l'annesso Teatro.

xiiiIn italiano nel testo. Chiaro riferimento alle bellezze della Bella Epoque, spesso ‘demì mondaine,’ idolatrate più per la loro bellezza disinibita che per le loro doti artistiche.