I’ll
be watching you
Fitz-James
O'Brien (1828-1862), nato
in Irlanda da famiglia agiata, si trasferì in America dopo aver
sperperato, in soli due anni, la sua ricca eredità.
Considerato
uno
dei
padri
della moderna fantascienza,
è la figura più importante della narrativa fantastica di lingua
inglese nel periodo compreso tra Poe e Lovecraft. Poeta, autore di
racconti e pièces teatrali, giornalista, nella sua pur breve ma
intensa vita, O'Brien fu autore assai prolifico, oltre che una delle
personalità più eclettiche del suo tempo. Le sue invenzioni
letterarie hanno ispirato i più grandi autori del fantastico, da
Maupassant a Lovecraft, da Wells a Merrith. In Italia O'Brien è
apparso come protagonista di una storia della serie a fumetti Dampyr,
scritta da Mauro Boselli, già autore di una versione a fumetti del
racconto "La lente di diamante".
La
lente di diamante
(The
Diamond Lens),
è uno dei suoi racconti più famosi. È
narrato
in prima persona dal protagonista che
ci
parla
della sua
passione,
coltivata
fin
dall’infanzia, per i
microscopi e la microscopia, scienza che può aprirgli le porte di un
universo ancora in gran parte inesplorato: l’infinitesimalmente
piccolo. Nella
spasmodica ricerca di una lente perfetta, non
esita a consultare una medium per mettersi in contatto con lo
spirito del
padre della moderna microscopia che gli consiglia di usare, appunto,
un diamante di insolita grandezza e purezza per realizzarla. Quando
scopre che il possessore di questo raro gioiello è il suo vicino,
non si fa scrupolo di ucciderlo per impossessarsene. Ottenuta
la lente perfetta, la mette alla prova osservando una semplice goccia
d’acqua. E qui scopre
un mondo inaspettato: “un
universo cromatico”
di incredibile bellezza abitato da una meravigliosa, microscopica
silfide a cui dà il nome di ‘Animula.’ Trascorre le sue giornate
ad osservare la deliziosa creatura, angosciato dal fatto che i loro
mondi non potranno mai venire in contatto. E quando infine il suo
sogno d’amore evaporerà, la vita per lui perderà ogni
significato.
Il
racconto appartiene
di buon diritto al genere fantascientifico,
con
i suoi strumenti avveniristici e
l’esplorazione di ‘nuovi’ mondi popolati
da
creature ‘aliene.’
Non mancano, tuttavia, ‘prestiti’
da
altri generi, come il soprannaturale della seduta spiritica, o
il delitto della porta chiusa, inaugurato da Le Fanu (Uncle
Silas)
e
sviluppato ne I
Delitti della Rue Morgue
di Poe. Ma
l’aspetto più importante, ed esotico, è sicuramente quello
romantico: l’amore improbabile dell’umano per la sua Animula,
fatto di sguardi, al limite del voyerismo.
📌Per approfondire:
Sul sito American Stories potrete ascoltare e leggere il testo, inoltre troverete anche materiale didattico e relativi quiz per autovalutazione o da usare in classe:
Parte 1, Parte 2
La
lente
di
diamante
di
Fitz-James
O'brien
I
Fin
da un periodo molto precoce della mia vita, l’intero arco delle mie
inclinazioni è stato rivolto alle indagini al microscopio. Quando
non avevo più di dieci anni, un lontano parente della mia famiglia,
sperando di stupire la mia inesperienza, mi costruì un semplice
microscopio praticando un forellino in un disco di rame in cui una
goccia di acqua pura era mantenuta dall’attrazione capillare.
Questo apparato estremamente primitivo, che ingrandiva di circa
cinquanta volta il diametro del foro, mostrava, in verità, soltanto
forme indistinte ed imperfette, ma tuttavia sufficientemente
meravigliose a stimolare la mia immaginazione ad uno stato di
straordinaria eccitazione.
Vedendomi
così interessato a questo rudimentale strumento, mio cugino mi
spiegò tutto ciò che sapeva sui principi del microscopio, mi
raccontò alcune meravigliose imprese che erano state compiute grazie
ad esso, e finì col promettermi che me ne avrebbe spedito uno
regolarmente costruito, appena
fosse rientrato in città. Contai i giorni, le ore, i minuti che si
frapponevano tra quella promessa e la sua partenza.
Nel
frattempo, non restai senza far niente. Mi
impossessai
avidamente di
ogni
sostanza trasparente che avesse la più remota rassomiglianza con una
lente, e la usai
in inutili tentativi di realizzare quello strumento la cui teoria di
costruzione allora
comprendevo solo vagamente. Tutte
le lastre di vetro che contenevano quegli
oblati sferoidali familiarmente conosciuti come ‘occhi di bue,’
erano spietatamente distrutte
nella speranza di ottenere lenti di straordinaria potenza.
Mi
spinsi
fino al punto di estrarre l’umore cristallino dagli occhi dei pesci
e degli animali e provai ad inserirlo
nel mio rudimentale microscopio. Mi confesso colpevole di aver rubato
le lenti dagli occhiali di zia Agata, con la vaga idea di triturarli
per ottenerne lenti dalle
stupefacenti capacità di ingrandimento – nel quale tentativo è
appena necessario dire che fallii totalmente.
Alla
fine, il promesso strumento arrivò. Era di quel tipo conosciuto come
microscopio elementare di Field, ed era forse costato circa quindici
dollari. Al
solo scopo didattico,
non si sarebbe
potuto
scegliere uno strumento migliore. Insieme
ad esso, c’era un trattatello sul microscopio – la sua storia,
gli usi e le scoperte. Compresi allora, per la prima volta, le “Mille
e una notte.”
L’opaco
velo dell’esistenza ordinaria che ricopriva il mondo, sembrò
improvvisamente alzarsi e mettere a nudo una terra di meraviglie. Nei
confronti dei miei compagni, mi sentivo come il veggente potrebbe
sentirsi nei confronti delle masse
ordinarie degli uomini. Conversavo con la natura in una lingua che
loro non potevano capire. Ero in costante comunicazione con
meraviglie viventi quali loro non immaginavano nemmeno nelle loro più
selvagge visioni. Penetrai oltre il portale sterno delle cose e vagai
attraverso i santuari.
Là
dove loro vedevano solo una goccia di pioggia scivolare lentamente
lungo i vetri di una finestra, io vedevo un universo di esseri
animati, con tutte le passioni comuni alla vita fisica, e che
agitavano il loro minuscolo ambiente con lotte feroci e protratte
come quelle degli uomini. Nelle comuni macchie di muffa che mia
madre, da buona casalinga qual’era, toglieva
via ostinatamente dai suoi barattoli di marmellata, lì per me
dimoravano, sotto il nome di muffa, giardini incantati, pieni di
valli e viali ricoperti dal fogliame più denso e dalla più
stupefacente vegetazione, mentre dai fantastici rami di quelle
microscopiche foreste pendevano strani frutti risplendenti di verde,
argento e oro.
Non
era la sete di sapere scientifico che al quel tempo occupasse la mia
mente. Era il puro godimento di un poeta a cui è stato dischiuso un
mondo di meraviglie. Non parlavo a nessuno dei miei piaceri solitari.
Solo con il mio microscopio, consumai la mia vista, giorno dopo
giorno e notte dopo notte, osservando attentamente le meraviglie che
mi rivelava. Ero come uno che, avendo scoperto che l’antico Eden
esisteva ancora in tutta la sua primitiva gloria, avesse deciso di
goderne in solitudine e di non rivelare ad anima viva dove si
trovasse. Il sentiero della mia vita stava prendendo la sua direzione
in quel momento. Decisi che sarei diventato un microscopista.
Naturalmente,
come tutti i novizi, mi
illudevo di essere un pioniere. A quel tempo, ignoravo le migliaia di
acuti intelletti impegnati nella mia stessa impresa e con il
vantaggio di strumenti migliaia di volte più potenti del mio. I nomi
di Leeuwenhoek, Williamson, Spencer, Ehrenberg, Schultz, Dujardin,
Schact e Schleiden mi erano allora completamente sconosciuti o, se
conosciuti, ignoravo le loro pazienti e meravigliose ricerche.
In
ogni nuovo campione di crittogame che posizionavo sotto il mio
strumento, credevo di scoprire meraviglie che il mondo ancora
ignorava. Ricordo bene il brivido di piacere e ammirazione che mi
pervase la prima volta che scoprii la comune
rotifera
volgare (Rotifera
vulgaris)
espandere e contrarre i suoi raggi flessibili,
dando l’impressione di ruotare attraverso l’acqua. Ahimè, quando
crebbi e mi procurai alcuni saggi che trattavano del mio studio
preferito, scoprii di essere soltanto sulla soglia di una scienza
alla cui indagine alcuni dei più grandi uomini dell’epoca stavano
dedicando le loro vite e i loro intelletti.
Crescendo,
i miei genitori erano ansiosi di farmi scegliere una professione,
vedendo ben poche probabilità che qualcosa di pratico risultasse
dall’esame di pezzetti di muschio e gocce di acqua attraverso un
tubo di ottone e un pezzo di vetro.
Era
loro desiderio che entrassi nell’ufficio commerciale di mio zio,
Ethan Blake, un ricco mercante, che aveva la sua attività a New
York. Mi opposi con decisione a quella proposta. Non avevo nessuna
inclinazione per il commercio, sarebbe
stato di sicuro un fallimento; in breve, rifiutai di diventare un
mercante.
Ma
era necessario che
io scegliessi
un’occupazione. I miei genitori erano
gente prudente del New England, che insistevano sulla necessità di
un lavoro e, pertanto, sebbene
grazie al lascito della povera zia Agata, una volta diventato
maggiorenne, avrei ereditato una piccola fortuna sufficiente a
mettermi al sicuro dal bisogno, si decise che, invece di aspettare,
avrei
dovuto agire per il meglio e impiegare quell’intervallo di tempo
per rendermi indipendente.
Dopo
lunga riflessione, assecondai i desideri della mia famiglia e scelsi
una professione. Decisi
di studiare medicina alla New York Academy. Questa disposizione del
mio futuro faceva al mio caso. Un allontanamento dai miei parenti mi
avrebbe permesso di disporre del mio tempo come mi pareva senza paura
di essere scoperto. Fino a che avessi pagato le tasse all’Accademia,
potevo astenermi dal seguire le lezioni, se volevo e, dal momento che
non avevo la minima intenzione di sostenere un esame, non c’era
alcun pericolo si essere ‘pizzicato.’
Inoltre,
una metropoli era il posto per me. Lì potevo procurarmi eccellenti
strumenti, le più recenti pubblicazioni, amicizia con uomini
impegnati in ricerche simili alla mia – in breve, tutte
quelle cose necessarie ad assicurarmi una proficua consacrazione
della mia vita alla mia amata scienza. Avevo denaro in abbondanza,
pochi desideri che non si limitassero, da una parte al mio specchio
illuminato, dall’altra al mio obbiettivo: pertanto, cosa mi avrebbe
impedito di diventare un illustre studioso dei mondi invisibili? Fu
dunque con le più ottimistiche speranze che lasciai la mia casa nel
New England e mi stabilii a New York.
II
Il
mio primo passo, naturalmente, fu
di trovare una sistemazione soddisfacente. La trovai, dopo un paio di
giorni di ricerca, nella Quarta Strada: un secondo piano molto
grazioso, non ammobiliato, che comprendeva soggiorno, camera da letto
e un vano più piccolo che intendevo organizzare come un laboratorio.
Arredai il mio alloggio in maniera sobria, ma piuttosto elegante e
poi dedicai tutte le mie energie al decoro del tempio della mia
religione.
Feci
visita a Pike, il famoso ottico, e passai in rivista la sua splendida
collezione di microscopi – il Field complesso, lo Hingham, lo
Spencer, il binoculare di Nachet (che si fondava sui principi dello
stereoscopio), e alla fine mi decisi per quel tipo conosciuto come il
microscopio con
perno
di articolazione di Spencer, che combinava il più grande numero di
miglioramenti con una quasi perfetta assenza di tremore.
Insieme
ad esso acquistai ogni possibile accessorio – tubi
ottici, micrometri, una camera
lucida, un
porta oggetti mobile,
condensatori
acromatici,
illuminatore
a luce bianca, condensatori parabolici, apparati polarizzanti,
forcipi, scatole
acquatiche,
pipette
aspiranti, con
una miriade di altri articoli che sarebbero stati utili nelle mani di
un esperto microscopista, ma come scoprii in seguito, per me, in quel
momento, non erano di alcun valore.
Ci
vogliono anni di pratica per sapere usare un microscopio complesso.
L’ottico mi guardava con sospetto mentre facevo questi acquisti
costosi. Evidentemente era incerto se considerarmi una celebrità
scientifica o un matto.
Penso che fosse incline per questa seconda opzione. Suppongo che
fossi matto. Ogni grande genio è
matto per il soggetto in cui eccelle. Il matto senza successo è
disprezzato e considerato folle.
Matto
o non matto, mi misi al lavoro con uno zelo che ben pochi studenti di
scienza hanno mai eguagliato. Avevo tutto da imparare riguardo al
difficile
studio in cui mi ero imbarcato – uno studio che richiedeva la più
scrupolosa pazienza, le più rigide capacità analitiche, la mano più
ferma, l’occhio più instancabile, la più raffinata e precisa
manualità.
Per
lungo tempo metà delle mie attrezzature giacquero inutilizzate sugli
scaffali del mio laboratorio, che adesso era ampiamente fornito di
ogni possibile dispositivo per facilitare le mie indagini. Il fatto
era che io non sapevo come usare alcuni dei miei strumenti
scientifici - non avendo mai studiato microscopia – e quelli il cui
uso capivo solo
teoricamente,
sarebbero
stati
di scarsa utilità fino a quando, con la pratica, avrei
potuto
acquisire la necessaria delicatezza di manipolazione.
Tuttavia,
tale era la furia della mia ambizione, tale l’instancabile
perseveranza dei miei esperimenti che, sebbene sia difficile da
credere, nel corso di un anno divenni un esperto microscopista, sia
nella teoria che nella pratica.
Durante
questo travagliato periodo, in cui sottomisi all’azione delle mie
lenti campioni di qualunque sostanza mi capitasse di osservare,
divenni uno scopritore – in scala ridotta, è vero, perché ero
molto giovane, ma tuttavia uno scopritore.
Fui
io a distruggere la teoria di Ehrenberg secondo cui il Volvox
globator fosse
un animale, e provai che le sue ‘monadi’ con occhi e stomaco
erano semplicemente fasi nella formazione di una cellula vegetale ed
erano, quando raggiungevano la maturazione, incapaci di riproduzione
sessuata, o di qualsiasi atto riproduttivo, senza cui nessun
organismo che assurga a uno stadio di vita superiore a quello
vegetale può essere considerato completo. Fui io a risolvere il
singolare problema della rotazione nelle cellule e
nei peli delle piante dovuta all’attrazione ciliare,
a dispetto delle asserzioni di Wenhame altri che la mia spiegazione
fosse
il risultato di un’illusione ottica.
Ma
nonostante queste scoperte, ottenute così faticosamente e
dolorosamente, mi sentivo terribilmente insoddisfatto. Ad ogni passo
mi trovavo bloccato dall’imperfezione dei miei strumenti. Come
tutti i microscopisti attivi, davo pieno spazio alla mia
immaginazione. Infatti, è un critica comune nei loro confronti il
fatto che suppliscano ai difetti dei loro strumenti con le creazioni
della loro mente. Immaginavo profondità, oltre le profondità della
natura, che la limitata potenza delle mie lenti mi proibiva di
esplorare.
La
notte, giacevo insonne costruendo immaginari microscopi di
incommensurabile potenza, con cui mi sembrava di penetrare tutti
gli strati della materia fino al suo atomo originale. Come maledicevo
quegli imperfetti strumenti che, a causa dell’ignoranza, la
necessità mi costringeva ad usare! Come ardevo dal desiderio di
scoprire una lente perfetta, la cui capacità di ingrandimento
dovesse essere limitata soltanto dalla risolubilità dell’oggetto e
che, allo stesso tempo, dovesse essere libera da ogni aberrazione
sferica o cromatica – in breve, da tutti quegli ostacoli in cui il
povero microscopista si trova continuamente ad inciampare!
Mi
ero fatto convinto che il microscopio semplice, composto di una
singola lente di una potenza così grande ma perfetta, fosse di
possibile realizzazione. Tentare di portare il microscopio complesso
ad un tale livello sarebbe stato iniziare dalla parte sbagliata,
essendo quest’ultimo semplicemente uno sforzo riuscito per
rimediare proprio a quegli
stessi
difetti dello strumento
più semplice che,
se superati, non avrebbero lasciato altro da desiderare.
Fu
con questo spirito che divenni un microscopista costruttore.
Dopo un altro anno trascorso in questa nuova impresa, sperimentando
ogni immaginabile sostanza – vetro, gemme, ossidiane, cristalli,
cristalli artificiali costituiti da leghe di vari materiali vitrei –
in breve, avendo costruito tante varietà di lenti quanti occhi aveva
Argo – mi ritrovai esattamente al punto di partenza, non avendo
guadagnato altro che un’ampia conoscenza nel campo della
lavorazione del vetro, ero quasi morto dalla disperazione. I miei
genitore erano sorpresi dalla mia apparente volontà di andare avanti
negli studi medici (non avevo frequentato una sola lezione dal mio
arrivo in città) e le spese della mia folle impresa erano state così
grandi da imbarazzarmi seriamente.
Ero
in questo stato d’animo quando
un giorno, mentre ero nel mio laboratorio a fare esperimenti
su un piccolo diamante – quella pietra,
a causa del suo grande potere di rifrazione, aveva sempre attirato la
mia attenzione più di ogni altra – un giovane francese
che viveva sul piano sopra il mio, e che aveva l’abitudine di farmi
visita occasionalmente, entrò nella stanza.
Penso
che Jules Simon fosse ebreo. Aveva molti tratti del carattere
ebraico: una passione per i gioielli, il vestire e la bella vita.
C’era qualcosa di misterioso in lui. Aveva sempre qualcosa da
vendere e
tuttavia frequentava la migliore società. Quando dico vendere, forse
avrei dovuto dire vendere al minuto, perché le sue operazione,
generalmente, si limitavano alla vendita di singoli articoli – un
dipinto, per esempio, o un raro intaglio in avorio, o un paio di
pistole da duello, o l’abito di un caballero
messicano.
Quando
iniziai ad ammobiliare il mio appartamento, mi fece una visita che si
concluse col mio acquisto di una lampada d’argento, che mi assicurò
fosse un Cellini – era comunque abbastanza bella – ed altri
soprammobili per il mio soggiorno. Perché Simon dovesse praticare
questo piccolo commercio, non sono mai riuscito a capirlo.
Apparentemente aveva denaro a sufficienza ed
era ammesso
nelle migliori case della città – avendo
cura, comunque, credo, di non fare affari nel cerchio incantato delle
‘Upper
Ten.i’
Alla
fine, giunsi alla conclusione che queste vendite al minuto non erano
altro che una maschera per coprire qualcosa di più importante, e
arrivai al punto di credere che il mio giovane vicino fosse implicato
nel commercio degli schiavi. Questo, tuttavia, non era affar mio.
Questa
volta, Simon entrò nella stanza in uno stato di considerevole
eccitazione.
“Ah!
mon ami!” esclamò,
prima che potessi potessi rivolgergli l’ordinario
saluto, “mi è capitato di essere testimone delle più sorprendenti
cose del mondo. Mi recai alla casa di Madame…Quel piccolo animale -
le renard – come si
chiama in latino?”
“Vulpes,”
risposi.
“Ah!
si...Vulpes. Mi recai alla casa di Madame Vulpes.”
“La
medium?”
“Sì,
la grande medium. Santo cielo! Che donna! Scrissi su di un pezzo di
carta diverse domande concernenti alcune mie faccende delle più
segrete – faccende che si celano negli abissi più profondi del mio
cuore e, guarda un po,’ che succede? Quel diavolo di una donna
risponde esattamente a tutte quante. Mi parla di cose di cui non amo
parlare nemmeno con me stesso. Cosa devo pensare? Sono uno con i
piedi per terra!”
“Devo
forse intendere, M. Simon, che questa Mrs. Vulpes ha risposto a
domande da lei scritte nascostamente, le quali domande si riferivano
ad avvenimenti conosciuti soltanto da lei?”
“Ah!
Molto di più, molto di più,” rispose, con un’aria alquanto
preoccupata. “Mi informò di cose… Ma,” aggiunse dopo una
pausa, e cambiando improvvisamente atteggiamento, “perché
occuparci di certe follie? Era soltanto biologia, senza dubbio. Non
c’è bisogno di dire che non gli attribuisco alcun credito. Ma
perché restiamo qui, mon
ami?
Mi
è capitato di scoprire la cosa più bella che lei possa immaginare –
un vaso decorato con lucertole verdi, opera del grande Bernard
Palissy. Si trova nel mio appartamento, andiamo su. Voglio
mostrarglielo.”
Seguii
Simon meccanicamente, ma i miei pensieri erano lontani da Palissy e
il suo vaso smaltato,
sebbene io, come lui, stessi cercando nelle
tenebre
una grande scoperta. Questa fortuita
menzione della medium, Madame Vulpes, mi mise su di una nuova pista.
E
se, attraverso la comunicazione con organismi più perspicaci
di
me,
avessi potuto arrivare,
in un sol balzo, all’obbiettivo
che forse una vita di estenuante fatica mentale non mi avrebbe mai
permesso di raggiungere?
Mentre
compravo il vaso di Palissy dal mio amico Simon, stavo mentalmente
organizzando una visita a Madame Vulpes.
III
Due
sere dopo, grazie ad un accordo epistolare e alla
promessa di una generosa ricompensa, trovai Madame Vulpes che mi
aspettava da sola nella sua residenza. Era una donna di aspetto
rozzo, con penetranti e crudeli occhi scuri ed un’espressione della
bocca e della mandibola estremamente
sensuale. Mi
ricevette in perfetto silenzio, in un appartamento al piano terra,
scarsamente ammobiliato. Al centro della stanza, vicino a dove
sedeva Mrs. Vulpes, c’era un comune tavolo rotondo di mogano.
Se
fossi venuto per
pulire il camino, la
donna non sarebbe sembrata più indifferente alla mia persona. Non
c’era alcun tentativo di ispirare timore nel visitatore. Ogni cosa
aveva un aspetto semplice e pratico. Questo intercorso con il mondo
spirituale era evidentemente, per Mrs. Vulpes, un’occupazione
familiare come pranzare o prendere l’omnibus.
“È
venuto per una comunicazione, Mr. Linley?” disse la medium, con un
tono di voce asciutto e professionale.
“Su
appuntamento… sì.”
“Che
sorte di comunicazione desidera… per iscritto?”
“Sì,
ne desidero una per iscritto.”
“Con
un particolare spirito?”
“Sì.”
“Ha
mai conosciuto questo spirito su questa terra?”
“Mai.
È morto molto prima che io nascessi. Voglio semplicemente ottenere
da lui alcune informazioni che dovrebbe essere in grado di darmi
meglio di chiunque altro.”
“Vuole
sedersi al tavolo, Mr. Linley,” disse la medium, “e posarvi sopra
le mani?”
Obbedii,
Mrs. Vulpes sedeva di fronte a me, anche lei con le mani sul tavolo.
Rimanemmo così per circa un minuto e mezzo, quando una violenta
successione di colpi si abbatté
sul tavolo, sulla spalliera della mia sedia, sul pavimento proprio
sotto i miei piedi, e perfino sui vetri della finestra. Mrs. Vulpes
sorrise
senza scomporsi.
“Sono
molto forti, stanotte,” esclamò. “Lei è fortunato.” Poi
continuò, “vogliono gli spiriti comunicare con questo gentiluomo?”
A
questa domanda seguì un confuso battere.
“So
cosa significa,” disse Mrs. Vulpes, rivolgendosi a me, “vogliono
che lei scriva il nome del particolare spirito con cui desidera
conversare. È
così?”
aggiunse, rivolgendosi ai suoi invisibili ospiti.
Che
fosse così, fu evidente dalle numerose risposte affermative. Nel
frattempo, strappai un pezzo di carta dal mio taccuino e, sotto il
tavolo, vi scribacchiai un nome.
“Vuole
questo spirito comunicare per iscritto con questo gentiluomo?”
chiese di nuovo la medium.
Dopo
un momento di pausa, sembrò
che la sua mano fosse presa da un violento tremore, agitandosi
così forte che il tavolo si mise a vibrare. Disse che uno spirito le
aveva afferrato la mano e voleva scrivere. Le passai alcuni fogli di
carta che erano sul tavolo e una penna.
Prese
quest’ultima senza
stringerla e la sua
mano
iniziò immediatamente a muoversi sulla carta con un moto singolare e
apparentemente involontario. Dopo che furono trascorsi alcuni
momenti, mi passò il foglio, su cui trovai scritto, in una grafia
grande ed elementare, le parole, “Non è qui, ma lo abbiamo mandato
a chiamare.” Seguì
una pausa di circa un minuto, durante la quale Mrs. Vulpes rimase in
completo silenzio, ma i colpi continuarono ad intervalli regolari.
Trascorso
questo breve periodo, la mano della medium fu di nuovo presa dal suo
tremore convulsivo e la donna, sotto questa strana influenza, scrisse
alcune parole su di un foglio di carta che poi mi passò. Erano le
seguenti:
“
Sono
qui. Interrogatemi.”
“Leeuwenhoek.ii”
Rimasi
di sasso. Il nome era identico a quello
che avevo scritto sotto il tavolo e tenuto attentamente nascosto. Ed
era del tutto improbabile che una donna ignorante come Mrs. Vulpes
conoscesse almeno il nome del grande padre della microscopia. Forse
era stata biologia, ma questa teoria fu immediatamente destinata ad
essere smentita.
Sul
mio pezzo di carta, che ancora tenevo nascosto da Mrs. Vulpes,
scrissi una serie di domande che, per non annoiarvi, riporterò
insieme alle risposte, nell’ordine in cui avvennero:
Io
– Il microscopio può essere portato alla perfezione?
Spirito
– Sì.
Io
– Sono destinato a condurre a termine questo grande compito?
Spirito
– Lo sei.
Io
– Voglio sapere come fare per ottenere questo risultato. Per
l’amore che porti alla scienza, aiutami!
Spirito
– Un diamante di centoquaranta carati, sottoposto a correnti
elettromagnetiche per lungo tempo, subirà una riorganizzazione dei
suoi atomi inter se e da quella pietra otterrai la lente
universale.
I
— Dall’uso di questa lente, ne deriveranno grandi scoperte?
Spirit—
Così
grandi, che tutto quello che è venuto prima è niente.
I—
Ma il potere rifrattivo del diamante è così immenso che l’immagine
si formerà all’interno della lente. Come si può superare questa
difficoltà?
Spirit—
Fora
la lente lungo il suo asse e questa difficoltà sarà ovviata.
L’immagine si formerà nello spazio perforato, che servirà anche
come tubo attraverso cui guardare. Ora mi chiamano. Buona notte.
Non
posso assolutamente descrivere l’effetto che queste straordinarie
comunicazioni ebbero su di me. Mi sentivo completamente frastornato.
Nessuna teoria biologica poteva spiegare la scoperta
della
lente. La medium avrebbe potuto, grazie ad un
rapporto
biologico con la mia mente, arrivare
fino
al punto di
leggere le mie domande e rispondere
ad esse coerentemente. Ma la biologia non poteva metterla in grado di
scoprire che le correnti magnetiche avrebbero a tal punto alterato i
cristalli del
diamante da rimediare ai suoi difetti pregressi
e
che gli avrebbero permesso
di diventare una lente perfetta una
volta lucidato.
Una
tale teoria poteva essermi passata per la testa, è vero, ma se così,
lo avevo dimenticato. Nella mia eccitata condizione mentale non c’era
altra alternativa se non diventare un convertito e fu in uno stato
della più dolorosa esaltazione nervosa che lasciai la casa della
medium quella sera. Mi accompagnò alla porta, sperando che fossi
soddisfatto. I colpi ci seguirono mentre attraversavamo l’ingresso,
risuonando sui corrimano, il pavimento e perfino l’architrave
della porta. Espressi brevemente la mia soddisfazione e uscii di
corsa nella fredda aria notturna.
Camminai
verso casa, ma ero posseduto da un unico pensiero, come ottenere un
diamante dell’immensa dimensione richiesta. I miei modesti mezzi
moltiplicati per cento sarebbero stati inadeguati ad acquistarlo.
Inoltre, tali pietre sono rare e diventano storiche. Potevo trovarne
una simile soltanto nei paramenti dei monarchi orientali o europei.
IV
Quando
entrai a casa, c’era
una luce nella stanza di Simon. Un impulso indefinito mi spinse a
fargli visita. Quando
aprii la porta del suo soggiorno senza essermi annunciato, era chino,
con la schiena verso di me, su di una lampada Carceliii,
apparentemente impegnato nel minuzioso esame di un qualche oggetto
che teneva nelle mani. Quando entrai, ebbe un improvviso soprassalto,
infilò la mano nel taschino della giacca e si girò verso di me, con
il volto paonazzo per l’imbarazzo.
“Cosa
vedo!” esclamai, “stai esaminando la miniatura di una bella
signora? Suvvia, non arrossire così, non ti chiederò di vederla.”
Simon
rise abbastanza goffamente, ma non tentò di negare come faceva di
solito in queste occasioni. Mi chiese di sedermi.
“Simon,”
dissi, “Sono appena tornato dalla casa di Madame Vulpes.”
Questa
volta Simon diventò bianco come un lenzuolo e sembrò stupefatto,
come se lo avesse colpito un improvviso shock elettrico. Balbettò
alcune parole incoerenti e andò di corsa ad un armadietto dove, di
solito, teneva i suoi liquori. Sebbene stupito dal suo turbamento,
ero troppo preoccupato dai
miei pensieri
per
prestare molta attenzione a qualcos’altro.
“Dici
il vero quando chiami Madame Vulpes un diavolo di donna.”
continuai. “Simon, questa notte mi ha detto cose meravigliose o,
piuttosto, è stata il mezzo per comunicarmi cose meravigliose. Ah!
Se solo potessi procurarmi un diamante che pesi centoquaranta
carati.”
Il
sospiro con cui avevo espresso questo desiderio si era a malapena
spento sulle mie labbra, quando Simon, con l’espressione di una
bestia selvaggia, mi fissò con ferocia e, correndo verso il
focolare, dove alcune armi straniere erano appese sopra la mensola,
afferrò un kris malese e lo brandì furiosamente davanti a sé.
“No!”
gridò in francese, lingua in cui si esprimeva quando era eccitato.
“No! Non lo avrai! Tu sei perfido! Ti sei consultato con quel
demonio e desideri il mio tesoro! Ma prima preferisco morire! IO, io
sono coraggioso! Non puoi farmi paura!” Tutto questo, profferito a
voce alta e tremando per l’eccitazione, mi stupì. Capii
improvvisamente che mi ero accidentalmente imbattuto nel segreto di
Simon, qualunque esso fosse. Era necessario rassicurarlo.
“Mio
caro Simon,” dissi, “Non riesco proprio a capire cosa vuoi dire.
Sono andato da Madame Vulpes per consultarmi con lei su di un
problema scientifico, per la cui soluzione scoprii che era necessario
un diamante della dimensione che ho appena menzionato. Durante la
serata, non si è fatta alcuna allusione a te, né, per quel che mi
concerne, si è mai pensato a te. Quale può essere il significato di
questa rabbia improvvisa? Se per caso possiedi una serie di diamanti
di valore, non hai niente da temere da me. Non potresti possedere il
diamante di cui ho bisogno o, se tu lo possedessi, non vivresti qui.”
Qualcosa
nel mio tono deve averlo completamente rassicurato, perché la sua
espressione si tramutò immediatamente in una sorta di forzato
divertimento, combinato comunque, con una certa attenzione sospetta
ai miei movimenti. Rise
e disse che dovevo avere pazienza con lui e
che
in certi momenti era soggetto
ad una specie di vertigine, che si manifestava con discorsi
incoerenti e
aggiunse che
quegli attacchi passavano con
la stessa rapidità
con
cui
erano venuti.
Mise
via la sua arma mentre faceva questa spiegazione e si sforzò, con un
certo successo, di assumere un’aria più lieta.
Tutto
questo non mi ingannò minimamente. Ero troppo abituato all’attività
analitica per farmi confondere da un velo così tenue. Ero
determinato a sondare quel mistero fino in fondo.
“Simon,”
dissi allegramente, “dimentichiamo tutto questo con una bottiglia
di Borgogna. Ho una cassa di Clos Vougeot
della ditta Lausseure, fragrante dei profumi della Côte d'Or e
rosso del
suo sole. Beviamoci un paio di bottiglie. Che ne dici?”
“Con
tutto il cuore,” rispose Simon sorridendo.
Portai
il vino e ci sedemmo a bere. Si trattava di una famosa vendemmia,
quella del 1848, un anno in cui guerra e vino prosperavano insieme, e
il suo succo, puro ma potente, sembrava impartire rinnovata vitalità
all’organismo. Avevamo finito la seconda bottiglia, quando la testa
di Simon, che sapevo essere debole, aveva iniziato a cedere, mentre
io rimanevo calmo come sempre, se non che ogni sorso sembrava
infondermi una vampata di vigore per tutto il corpo. Le frasi di
Simon divennero sempre più confuse.
Iniziò
a cantare chansons
francesi
di contenuto non troppo morale. Mi alzai improvvisamente dal tavolo,
proprio alla conclusione di uno di questi versi insensati e, puntando
gli occhi su di lui con un sorriso calmo, dissi, “ Simon, ti ho
ingannato. Io ho appreso il tuo segreto questa sera. Puoi essere
egualmente franco con me. Mrs. Vulpes, o meglio, uno dei suoi
spiriti, me lo ha detto.”
Trasalì
per l’orrore. Sul momento, la sua ebrezza sembrò svanire e fece un
movimento verso l’arma che poco prima aveva messo giù, lo fermai
con la mano.
“Mostro,”
gridò rabbiosamente, “Sono rovinato! Che devo fare? Non lo avrai
mai! Lo giuro su mia madre!”
“Non
lo voglio,” dissi, “stai tranquillo, ma devi essere franco con
me. Raccontami tutto del diamante.”
L’ubriachezza
ricominciò a tornare. Protestò con piagnucolosa
enfasi
che mi ero completamente sbagliato – che ero ubriaco, poi mi chiese
di giurare eterna segretezza e promise di rivelarmi il mistero.
Naturalmente, diedi la mia parola. Con uno sguardo impacciato negli
occhi e le mani tremanti per il bere ed il nervosismo, si tolse dal
petto una scatolina e la aprì. Buon Dio! Incredibilmente, la dolce
luce della lampada si frammentò in un migliaio di frecce
prismatiche appena cadde su di un enorme diamante rosa che luccicava
nella scatola.
Non
ero un esperto di diamanti, ma capii a prima vista che questa era
una gemma di rara grandezza e purezza. Guardai Simon con meraviglia e
– devo confessarlo? - con invidia. Come era riuscito ad ottenere
questo tesoro? In risposta alle mie domande, potei soltanto cogliere
dalle sue dichiarazioni da
ubriaco (da
qui, immagino, derivasse metà dell’incoerenza), che era stato
sovrintendente di una squadra di schiavi impegnati setacciare e
lavare diamanti in Brasile; che
aveva visto uno di loro nascondere un diamante ma, invece di
informare i proprietari,
aveva osservato il negro in silenzio e lo aveva visto sotterrare il
suo tesoro; che lo aveva dissotterrato ed era fuggito con esso, ma,
fino ad oggi, aveva avuto paura di disfarsene pubblicamente
– una gemma così preziosa era certamente destinata ad attrarre
troppa attenzione sui trascorsi del suo possessore – e non
era stato capace di scoprire nessuno di quei canali oscuri attraverso
cui certi affari vengono condotti in sicurezza. Aggiunse che, secondo
l’usanza orientale, aveva dato al suo diamante il fantasioso nome
di ‘L’occhio del mattino.’
Mentre
Simon mi narrava queste cose, guardai il grande diamante con
attenzione. Non avevo mai visto niente di così bello. Tutte le
magnificenze
della luce mai immaginate o descritte sembravano pulsare nelle sue
camere cristalline. Il suo peso, come appresi da Simon, era
esattamente centoquaranta carati. Ecco un’incredibile coincidenza.
Sembrava esserci la mano del destino. La stessa sera in cui lo
spirito di Leeuwenhoek mi comunica il grande segreto del
microscopio, l’inestimabile
strumento che mi aveva istruito ad usare mi si presenta a portata di
mano, decisi, con assoluta risolutezza, di impossessarmi del diamante
di Simon.
Sedevo
di fronte a lui, mentre la sua testa ciondolava sul bicchiere e con
calma analizzavo la faccenda. Nemmeno per un istante avevo preso in
considerazione un’azione così stupida come un comune furto che,
naturalmente, sarebbe stato scoperto e, quanto meno, mi avrebbe
costretto a fuggire e a nascondermi, tutte
cose destinate ad interferire con i miei progetti scientifici. Non
c’era che un solo passo da intraprendere – uccidere Simon. Dopo
tutto, cos’era la vita di un piccolo commerciante ebreo paragonata
agli interessi della scienza? Gli esseri umani vengono prelevati ogni
giorno dalle prigioni dei condannati a morte per essere sottoposti
agli esperimenti dei chirurghi.
Quest’uomo,
Simon, era per propria ammissione un criminale, un ladro e, ne ero
intimamente
convinto, un assassino. Meritava la morte proprio come un qualunque
delinquente condannato dalla legge: perché non avrei dovuto, come il
governo, fare in modo che la sua punizione contribuisse al progresso
della conoscenza umana?
Il
mezzo per realizzare tutto quello che desideravo era a portata di
mano. Sulla mensola del focolare c’era una bottiglia mezza piena di
laudano franceseiv.
Simon era così occupato con il suo diamante, che gli avevo appena
restituito, che fu una faccenda priva di difficoltà drogare il suo
bicchiere. In un quarto d’ora era in un sonno profondo.
Allora,
aprii il suo panciotto,
presi il diamante dalla tasca interna in cui lo aveva riposto, e lo
trascinai fino al letto, dove lo adagiai in modo che i piedi
penzolassero dal bordo. Mi ero impossessato del kris malese, che
tenevo nella mia mano destra, mentre con l’altra localizzai nel
modo più accurato possibile, con l’aiuto dei battiti, l’esatta
posizione del cuore. Era essenziale che tutti gli aspetti della su
morte conducessero all’ipotesi del suicidio.
Calcolai
l’angolo esatto con cui era probabile che l’arma, se sollevata
dalla mano di Simon, sarebbe penetrata nel petto poi, con un potente
colpo, l’affondai fino all’impugnatura, proprio dove avevo
previsto.
Un
brivido convulso percorse le membra di Simon. Sentii
un suono soffocato uscirgli dalla gola, proprio
come l’esplosione di una grande bolla d’aria emessa da un
tuffatore quando raggiunge la superficie dell’acqua; si girò su di
un lato e, quasi ad assecondare i miei piani in maniera più
efficiente, la sua mano destra, mossa da un mero impulso spasmodico,
afferrò l’impugnatura del kris, stringendola con straordinaria
tenacia muscolare.
Oltre
a questo, non ci fu nessuna reazione evidente. Il laudano, presumo,
paralizzò la normale attività nervosa. Doveva essere morto sul
colpo.
Tuttavia,
c’era ancora qualcosa da fare. Per essere certi che ogni sospetto
di quel fatto dovesse essere spostato dagli abitanti della casa allo
stesso Simon, era necessario che, al mattino, la porta fosse trovata
chiusa dall’internov.
Come
riuscirci e poi fuggire via? Non attraverso la finestra, era
fisicamente impossibile. Inoltre, avevo deciso che anche la finestra
dovesse essere trovata chiusa.
La soluzione era abbastanza semplice. Scesi silenziosamente fino alla
mia stanza per prendere un particolare strumento che avevo usato per
afferrare piccole sostanze scivolose, quali piccolissime sfere di
vetro, etc.
Questo
strumento non era altro che un lungo e sottile morsetto a mano, con
una presa molto potente e un considerevole gioco delle leve,
quest’ultimo era accidentalmente dovuto alla forma della maniglia.
Con la chiave nella serratura, niente era più semplice che afferrare
dall’esterno, attraverso la toppa, l’estremità del suo stelo con
il morsetto e così chiudere la porta. Comunque, prima di tutto,
bruciai alcuni fogli nel focolare di Simon. Di solito, i suicidi
bruciano dei fogli di carta prima di darsi la morte.
Inoltre,
versai ancora un po’ di laudano nel bicchiere di Simon – avendo
prima rimosso ogni traccia di vino – pulii l’altro bicchiere e
portai via con me le bottiglie. Se nella stanza fossero state trovate
tracce di due persone che bevevano insieme, sarebbe naturalmente
sorta la domanda: “Chi era il secondo?” Inoltre, le bottiglie di
vino avrebbero potuto essere identificate come appartenenti a me. Il
laudano lo versai per giustificare la sua presenza nel suo stomaco,
in caso di un esame post mortem.
L’idea,
naturalmente, era
che egli dapprima
intendesse
avvelenarsi ma,
dopo aver ingerito un po’ di droga, o era rimasto disgustato dal
suo sapore, o aveva cambiato idea per altri motivi e aveva scelto il
pugnale. Dopo aver preso queste precauzioni, uscii lasciando accesa
la lampada, chiusi la porta col mio morsetto e andai a letto.
La
morte di Simon non fu scoperta fino a quasi le tre del pomeriggio. La
cameriera, stupita nel vedere la lampada accesa – la luce filtrava
sul pianerottolo buio da sotto la porta – spiò attraverso il buco
della serratura e vide Simon sul letto.
Diede
l’allarme. La porta fu spalancata e il vicinato precipitò
in un febbrile eccitazione.
Tutti
gli abitanti della casa furono arrestati, compreso me. Ci fu
un’inchiesta, ma non si poté ottenere nessun indizio circa questa
morte se
non
quello del suicidio. Abbastanza curiosamente, la settimana precedente
Simon
aveva
fatto diversi discorsi con i suoi amici che sembravano andare in
direzione
dell’auto
annientamento. Un gentiluomo giurò che aveva detto in sua presenza
che “era stanco della vita.” Il padrone di casa affermò che, nel
pagargli la
pigione
dell’ultimo mese, Simon
aveva commentato che “non gli avrebbe più pagato l’affitto.”
Ogni
altra prova corrispondeva–la porta chiusa dall’interno, la
posizione del cadavere, i fogli bruciati. Come avevo previsto,
nessuno sapeva che Simon possedesse il diamante, pertanto non si
trovò nessun movente per il suo omicidio. La giuria, dopo un lungo
esame, rientrò con il previsto
verdetto e il vicinato tornò di nuovo alla solita
tranquillità.
V
Durante
i tre mesi successivi alla sventurata morte di Simon, mi dedicai
notte e giorno alla mia lente di diamante. Avevo costruito un’enorme
batteria galvanica, composta da circa duemila paia
di piastre:
non mi azzardai ad osare una potenza maggiore, per timore che il
diamante si calcinasse. Grazie a questo enorme congegno, fui in grado
di inviare ininterrottamente
una potente corrente elettrica attraverso il mio grande diamante, che
mi sembrò acquistare in luminosità giorno dopo giorno.
Trascorso
un mese, iniziai la molatura e la lucidatura della lente, un lavoro
di intensa fatica e squisita delicatezza. La grande densità della
pietra e l’attenzione necessaria con le curvature delle superfici
della le lente, resero quella fatica la più dura e la più
assillante che avessi mai intrapreso.
Alla
fine, il grande momento arrivò: la lente era stata completata.
Restai
tremante
sulla soglia di nuovi mondi. Avevo
davanti a me la realizzazione del famoso desiderio di Alessandro. La
lente era sul tavolo, pronta ad essere sistemata sopra la sua
piattaforma. La mano mi tremava un po’ mentre mentre ricoprivo una
goccia d’acqua con un sottile strato di olio di trementina, per
prepararla al suo esame, un procedimento necessario allo scopo di
prevenire la rapida evaporazione dell’acqua.
Poi,
misi la goccia su di un sottile vetrino sotto la lente e,
proiettandovi sopra, con l’azione combinata di un prisma e di uno
specchio, un potente fascio di luce, avvicinai
l’occhio al piccolo buco che avevo perforato lungo l’asse della
lente. Per un istante non vidi altro che quello che sembrava un caos
illuminato, un vasto, luminoso abisso.
Una
pura luce bianca, senza nuvole, serena e apparentemente infinita,
come lo spazio stesso, fu la mia prima impressione. Delicatamente e
con la massima attenzione, abbassai la lente di qualche
pelo.
La portentosa illuminazione era ancora attiva, ma quando la lente si
avvicinò all’oggetto,
una scena di indescrivibile bellezza si dischiuse alla mia vista.
Mi
sembrava di contemplare un vasto spazio, i cui confini si estendevano
molto oltre il mio sguardo. Un’atmosfera di magica luminosità
permeava l’intero campo visivo. Mi
stupii di non vedere alcuna traccia di animalculivi.
Apparentemente, nessuna cosa vivente abitava quell’abbagliante
distesa. Compresi immediatamente che, grazie all’incredibile
potenza della mia lente, ero penetrato oltre le particelle più
grossolane della materia acquosa, oltre il regno degli infusori e dei
protozoi, giù fino al globulo gassoso originale, nel cui luminoso
interno stavo guardando come in una cupola senza
fine
piena di sopranaturale radiosità.
Tuttavia,
non era un vuoto luminoso, quello in cui stavo guardando. Da
ogni lato, vedevo meravigliose forme inorganiche, di una materia
sconosciuta e colorate con le tinte
più
incantevoli. Queste
forme avevano l’apparenza di quelle che potrebbero essere chiamate,
per mancanza di una definizione più specifica, nuvole fogliate della
specie più rara – cioè, ondeggiavano ed erompevano in forme
vegetali ed erano venate di splendori al cui confronto, il colore
dorato dei nostri boschi autunnali è come ruggine, se paragonato
all’oro.
Lontano,
in questa illimitata distanza, si dipanavano
i lunghi viali di queste foreste gassose, vagamente trasparenti e
dipinte a
tinte prismatiche di inimmaginabile brillantezza. I rami cascanti
ondulavano lungo le fluide radure finché ogni prospettiva sembrò
farsi strada attraverso file semi-lucenti di penduli stendardi setosi
e variopinti. Ciò che sembrava essere frutta oppure fiori, dalle
multicolori sfumature, lucenti e mutevoli, spuntavano dalle cime di
questo magico fogliame.
Non
si vedevano colline, laghi, o fiumi né forme animate o inanimate, ad
eccezione di quei boschi aurorali che fluttuavano serenamente in quel
luminoso silenzio, con foglie e frutti e fiori risplendenti di fuochi
sconosciuti, inconcepibili con la semplice immaginazione.
Che
strano, pensai, che questa sfera dovesse essere condannata alla
solitudine in questo modo! Avevo sperato, almeno, di scoprire alcune
nuove forme di vita animale, forse di una classe inferiore a quelle
che ci sono attualmente familiari, ma pur sempre organismi viventi.
Trovavo che il mio mondo appena scoperto fosse, se così posso dire,
uno splendido deserto cromatico.
Mentre
speculavo sui singolari ordinamenti dell’economia interna della
natura, con cui essa così frequentemente fa
a pezzi le nostre più solide teorie, mi sembrò di vedere una forma
muoversi lentamente attraverso le radure di una delle foreste
prismatiche. Guardai più attentamente e scoprii che non mi ero
sbagliato. Le parole non possono descrivere l’ansia con cui attesi
un approccio ravvicinato con questo misterioso oggetto. Era
semplicemente una qualche sostanza inanimata, tenuta in sospensione
nell’atmosfera attenuata del globulo, o era un animale dotato di
vitalità e movimento?
Si
avvicinò, guizzando dietro gli impalpabili veli colorati del
fogliame nebuloso, vagamente visibile per qualche secondo, per poi
svanire. Infine, gli stendardi viola, che penzolavano
più vicino a me, vibrarono: furono delicatamente scostati e la forma
fluttuò
in piena luce.
Era
una forma umana femminile. Quando dico umana, voglio dire che
possedeva fattezze
umane,
ma qui l’analogia finisce. La sua adorabile bellezza la elevava
ad altezze incommensurabilmente
al di sopra delle più amabili figlie di Adamo.
Non
posso, non oso, tentare l’inventario delle attrattive di questa
rivelazione di perfetta bellezza. Quegli occhi di mistico violetto,
umidi e limpidi, vanno oltre le mie parole. I suoi capelli lunghi e
lucenti, che
assecondano la sua magnifica testa con
una scia
dorata, come
il sentiero tracciato nel cielo da una stella cadente, sembrano
spegnere le mie frasi più infuocate con il loro splendore. Se tutte
le api di Iblavii
facessero il nido sulle mie labbra, non canterei con una voce più
roca le armonie della sagoma che racchiudeva la sua forma.
Avanzò
tra i tendaggi arcobaleno di
quegli
alberi nebulosi fino al vasto mare di luce che si estendeva lì
davanti. I
suoi movimenti erano quelli di una graziosa naiade che, con un mero
sforzo di volontà, fendeva le chiare e tranquille acque che
riempivano le camere del mare. Procedeva fluttuando con la serena
grazia di una fragile bolla che ascenda su per la calma atmosfera di
un giorno di giugno.
La
perfetta rotondità delle sue membra formava curve soavi ed
incantevoli. Guardare quell’armonioso fluire di linee era come
ascoltare la più spirituale sinfonia di Beethoven il divino.
Questo, infatti, era un piacere convenientemente acquistato a
qualunque prezzo. Che mi importava se avevo guadato il portale di
questa meraviglia attraverso il sangue di un altro. Avrei dato il mio
per godere di un tale momento di ebrezza e piacere.
Senza
fiato per
la visione di quell’amabile meraviglia e dimentico per un istante
di ogni altra cosa salvo la sua presenza, ritrassi con impazienza
l’occhio dal microscopio. Ahimè! Quando il mio sguardo cadde sul
sottile vetrino sistemato sotto il mio strumento, l’intensa luce
riflessa dallo specchio e dal prisma scintillava su di un’incolore
goccia d’acqua! Lì, in quella minuscola perla di rugiada,
quell’essere meraviglioso era imprigionato per sempre. Il pianeta
Nettuno non era più distante da me di quanto non lo fosse lei. Mi
affrettai ad applicare di nuovo l’occhio al microscopio.
Animula
(lasciate che la chiami con il caro nome che le diedi in seguito)
aveva cambiato la sua posizione. Si era di nuovo avvicinata alla
fantastica foresta e stava guardando verso l’alto con insistenza.
Subito dopo, uno degli alberi – devo chiamarli così
– dispiegò
un lungo processo ciliare, con il quale afferrò uno dei frutti
luminosi che brillavano sulla sua sommità e, strisciando lentamente
verso il basso, lo tenne a portata di mano di Animula.
La
silfide lo prese nella sua delicata mano e iniziò a mangiare. La mia
attenzione era così totalmente assorbita da lei che non riuscii ad
applicarmi al compito di determinare se questa singolare pianta
agisse per istinto o per volontà.
La
guardai, mentre consumava il suo pasto, con la più profonda
attenzione. La flessuosità dei suoi movimenti mi mandò un brivido
di piacere per tutto il corpo, il cuore batté all’impazzata quando
girò i suoi meravigliosi occhi nella mia direzione.
Cosa
non avrei dato per avere il potere di tuffarmi in quel luminoso
oceano e fluttuare con lei attraverso quei solchi di porpora e oro!
Mentre ero intento a seguire, col fiato in gola, ogni suo movimento,
lei ebbe un improvviso soprassalto, sembrò
mettersi
in ascolto per
un istante e poi, fendendo l’etere brillante in cui stava
fluttuando, penetrò attraverso la foresta opalina come un lampo di
luce e sparì.
Fui
immediatamente
assalito
da una serie di
sensazioni le più singolari. Era come se fossi diventato
immediatamente cieco. La sfera luminosa era ancora davanti a me, ma
la luce dei miei occhi era svanita. Cosa aveva causato questa
improvvisa sparizione? Aveva un amante o un marito? Sì, era questa
la soluzione! Un segnale da un felice compagno aveva vibrato
attraverso i viali della foresta e lei aveva obbedito al richiamo.
Quando
arrivai a questa conclusione, fui sopraffatto dall’angoscia
delle mie sensazioni. Provai a rigettare la convinzione che la
ragione mi imponeva. Combattei contro questa fatale conclusione –
ma in vano. Era così. Non avevo scampo. Amavo un animalculo.
È
vero che, grazie alla meravigliosa potenza del mio microscopio, lei
appariva di fattezze umane. Invece di presentare il ripugnante
aspetto di creature più primitive, che vivono e combattono e muoiono
nelle parti più facilmente visibili di una goccia d’acqua, lei era
aggraziata e delicata e di una bellezza insuperabile. Ma a che pro?
Ogni volta che il mio occhio si ritraeva dallo strumento, tutto
quello che vedeva era una misera goccia d’acqua, dentro cui, dovevo
accontentarmi di sapere, viveva tutto ciò che poteva rendere felice
la mia vita.
Se
avesse potuto vedermi solo una volta! Se
avessi
potuto, per un momento, penetrare le mistiche mura che così
inesorabilmente si ergevano a dividerci e sussurrare tutto quello che
mi riempiva l’anima, avrei potuto accettare di essere soddisfatto
per il resto della vita con la consapevolezza della sua remota
considerazione.
Sarebbe
stato già qualcosa aver stabilito un legame personale, anche se
estremamente fragile, che ci legasse insieme – sapere che, a volte,
mentre vagava per queste radure incantate, potesse pensare a quel
meraviglioso straniero che aveva interrotto la monotonia
della sua vita con la sua presenza e lasciato un gentile ricordo nel
suo cuore.
Ma
non era possibile. Nessuna invenzione di cui l’intelletto umano era
capace poteva abbattere le barriere erette dalla natura. Potevo
satollare la mia anima con la sua meravigliosa bellezza, tuttavia lei
doveva rimanere ignorante degli occhi adoranti che giorno e notte la
osservavano e che, anche quando erano chiusi, la vedevano in sogno.
Con un amaro grido di angoscia fuggii dalla stanza e mi gettai sul
letto, e singhiozzai fino ad addormentarmi.
VI
Il
mattino seguente mi svegliai quasi all’alba e mi precipitai al
microscopio, tremavo mentre cercavo il luminoso mondo in miniature
che conteneva tutto il mio. Animula era lì. Avevo lascito la lampada
a gas accesa, protetta dal suo schermo, quando ero andato a letto la
notte precedente. Trovai la silfide che faceva il bagno, per così
dire, nella brillante luce che la circondava, con un’espressione di
piacere che animava i suoi lineamenti.
Scuoteva
i
suoi lucidi capelli d’oro sopra le spalle con innocente malizia.
Giaceva distesa in quel medium trasparente, in cui si sosteneva senza
sforzo, e faceva
giravolte
con l’incantevole grazia che la ninfa Salmace aveva esibito quando
cercò di conquistare il timido Ermafroditoviii.
Tentai un esperimento per capire
se
le sue capacità reattive
fossero sviluppate. Abbassai considerevolmente la
luce della lampada.
Con
la poca luce rimasta,
riuscii a vedere un’espressione di dolore
attraversarle il viso. Guardò di colpo verso l’alto e la sua
fronte si corrugò. Inondai di nuovo la piattaforma del microscopio
con un flusso di luce pieno e tutta la sua espressione cambiò. Saltò
in avanti come una sostanza priva di peso. I suoi occhi scintillarono
e le labbra si mossero.
Ah! Se solo la scienza avesse gli strumenti per trasmettere e
duplicare i suoni, come fa con i raggi luminosi, quali canti di
felicità avrebbero estasiato le mie orecchie! Quali inni di giubilo
per
Adoneix
avrebbero emozionato
quell’aura luminosa.
Adesso
comprendevo come mai il conte della Cabalax
popolò il suo mondo mistico con esseri dalle fattezze di stupende
silfidi il cui respiro vitale
era un fuoco luminoso e che si divertivano eternamente in regioni
dell’etere più puro e della luce più pura. I rosacrocexi
avevano anticipato la meraviglia che io avevo realizzato
praticamente.
Non
so bene quanto durò questa adorazione della mia strana divinità.
Persi ogni cognizione del tempo. Per tutto il giorno, dalla prima
alba fino a notte fonda, mi avrebbero trovato a sbirciare attraverso
quella lente prodigiosa. Non
vedevo nessuno, non andavo da nessuna parte e a malapena mi concedevo
sufficiente tempo per i miei pasti. La mia intera vita trascorreva
nella stessa contemplazione estatica di uno dei santi cattolici.
Ogni ora passata ad osservare quella forma divina rafforzava la mia
passione – una passione che era sempre rabbuiata dall’esasperante
convinzione che, sebbene io potessi guardarla a volontà, lei mai e
poi mai avrebbe potuto guardare me.
Alla
lunga, diventai così pallido ed emaciato, per mancanza di riposo ed
il continuo rimuginare sul mio folle amore e le sue crudeli
condizioni,
che
mi decisi a fare uno sforzo per svezzarmi da esso. “Andiamo,”
dissi, “Nel migliore dei casi, questa non è altro che una
fantasia. La tua immaginazione ha attribuito ad Animula fascini che
in realtà non possiede. L’isolamento dalla compagnia femminile ha
prodotto questa morbosa condizione mentale. Confrontala con le belle
donne del tuo mondo e questo falso incantesimo sparirà.”
Per
caso, diedi un’occhiata ai giornali. Lì potei vedere la pubblicità
di una celebre danseuse
che
che si esibiva tutte le sere al
Nibloxii.
La Signorina Caradolcexiii
aveva la reputazione di essere la
donna
più
bella
e aggraziata del mondo. Mi vestii all’istante e andai a teatro.
Il
sipario si alzò. Il solito semicerchio di fate vestite di mussolina
bianca era in piedi sull’alluce destro e circondava il terrapieno,
di tela verde con fiori dipinti, su cui il principe ritardatario
stava dormendo. Improvvisamente
si sente un flauto. Le fate hanno un sussulto. Gli alberi si aprono,
Le fate si mettono tutte sull’alluce sinistro e la regina entra.
Era la Signorina.
Saltò
in avanti tra applausi roboanti e, atterrando su di un piede, rimase
in equilibio nell’aria. Santo cielo! Era questa la grande
incantatrice che aveva attratto i monarchi alle ruote della sua
carrozza? Quelle membra pesanti e muscolose, quelle caviglie robuste,
quegli occhi cavernosi, quel sorriso stereotipato, quelle guance
rozzamente colorate! Dove erano le gemme vermiglie, gli occhi liquidi
ed espressivi, le membra armoniose di Animula?
La
signorina ballò. Che movimenti grossolani e scoordinati!
Il gioco delle membra era completamente falso e artificioso.
I suoi salti erano penosi sforzi atletici, la sua postura era
scomposta e una
sofferenza per gli occhi.
Non
riuscii più a sopportarlo, con un’esclamazione di disgusto, che
attirò su di me lo sguardo di tutti, mi alzai dal mio posto proprio
nel mezzo del pas-de-fascination
della
signorina e lasciai
l’edificio.
Mi
affrettai verso casa per saziare
ancora una volta i miei occhi con l’amabile forma della mia
silfide. Sentivo che da quel momento in poi combattere quella
passione sarebbe stato impossibile. Posai i miei occhi sulla lente.
Animula era lì – ma cosa poteva essere successo? Un terribile
cambiamento sembrava aver avuto luogo durante
la mia assenza. Un cruccio segreto sembrava rannuvolare le
meravigliose sembianze di colei che stavo osservando. Il suo volto
era diventato magro e sparuto, le sue membra si trascinavano
pesantemente, la meravigliosa lucentezza dei suoi capelli d’oro era
svanita.
Era
malata – malata, ed io non potevo assisterla! Credo che in quel
momento avrei rinunciato a tutte le mie prerogative di essere umano
se solo avessi potuto rimpicciolirmi fino alla dimensione di un
animalculo e avere la possibilità di consolare colei da cui il
destino mi aveva separato per sempre.
Mi
torturai il cervello per trovare la soluzione di questo mistero. Che
cos’era che affliggeva la silfide? Sembrava che soffrisse un
intenso dolore. I suoi lineamenti erano contratti e si torceva
perfino, come a causa di un’agonia interiore. Anche le meravigliose
foreste pareva che avessero perso metà della loro bellezza. I loro
colori erano pallidi e in alcuni punti erano completamente spariti.
Osservai
Animula per ore, con il cuore a pezzi mentre lei sembrava svanire
inesorabilmente sotto i miei occhi. Improvvisamente, ricordai che non
avevo controllato la goccia d’acqua da diversi giorni. Infatti,
odiavo guardarla, perché mi ricordava la naturale barriera tra me e
Animula. In
tutta fretta, allungai lo sguardo fino al tavolino del microscopio.
Il
vetrino era ancora lì – ma, santo cielo, la goccia d’acqua era
svanita! La terribile verità mi si rivelò di colpo: era evaporata,
fino a diventare tanto minuscola da essere invisibile ad occhio nudo:
ero rimasto a guardare il suo ultimo atomo, quello che
conteneva Animula
– e lei stava morendo.
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Morte di Ofelia, Paul-Albert Steck, 1894
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di nuovo alla lente e vi guardai attraverso. Ahimè! L’ultima
agonia l’aveva afferrata. Le foreste dai colori dell’arcobaleno
erano svanite e Animula giaceva dibattendosi flebilmente in quello
che sembrava essere un punto debolmente illuminato. Ah!
Che orrenda visione: le membra una volta così rotonde e incantevoli
si erano ridotte a niente, gli occhi, quegli occhi luminosi come il
cielo - si spegnevano sotto una polvere nera, i luminosi capelli
d’oro ora lisci e scoloriti. L’ultimo spasimo giunse. Osservai
l’agonia finale di quella forma sempre più oscura – e persi i
sensi.
Quando
mi svegliai da una trance di molte ore, mi trovai disteso tra i
rottami del mio strumento, io stesso ridotto
egualmente
in frantumi nella mente e nel corpo. Mi trascinai a stento sul letto,
da cui non mi alzai per molti mesi.
Ora
dicono che sono matto, ma si sbagliano. Sono povero, perché non ho
né il cuore né la volontà di lavorare, tutto il mio denaro è
stato speso, e vivo di carità. Associazioni di giovanotti che amano
gli scherzi mi invitano a tenere conferenze sull’ottica alle loro
riunioni, cosa per cui mi pagano, e ridono di me mentre parlo.
‘Linley, il folle microscopista’ è il nome con cui mi chiamano.
Credo di parlare in maniera incoerente mentre tengo le mie
conferenze. Chi potrebbe parlare in modo sensato quando il suo
cervello è tormentato da tali terrificanti ricordi, mentre, di tanto
in tanto, tra le ombre della morte vedo la radiosa forma della mia
perduta Animula.
FINE
i
Upper
Ten:
termine
apparso nel 1852 per indicare le classi alte della società
newyorchese.
ii
Anton van Leeuwenhoek
(1632-1723), olandese, grazie a una eccezionale abilità di ottico
realizzò a fini di ricerca numerose lenti biconvesse a breve
lunghezza focale e piccole sfere di vetro fuso di diametro inferiore
a mm. 2,5, che, inserite in una montatura metallica, funzionavano da
microscopi semplici. Con tali esigue risorse egli compì
osservazioni che
si rivolgevano a ciò che era inaspettato e del tutto ignoto: i
globuli del latte, i globuli rossi nel sangue, quegli "animalculi
spermatici" presenti nell'acqua degli stagni (spermatozoi), cui
attribuì per primo una funzione riproduttiva (1674-77)
iii
Lampada Carcel, inventata da
Guillaume Carcel (1750-1812) e che utilizza olio vegetale.
ivSoluzione
ottenuta tramite macerazione dell'oppio in alcol, con l'aggiunta di
aromi e coloranti, dotata di potere antispastico e antidolorifico.
La formula odierna è quella proposta nel XVIII secolo dal medico
inglese Thomas Sydenham, che lo preparò per primo in forma liquida.
In passato è anche stato utilizzato come droga. Durante l'Ottocento
fu usato nella guerra di secessione americana per alleviare il
dolore dei soldati feriti (soprattutto dopo l'invenzione del fucile
a ripetizione), ma anche per alleviare i disagi psicologici e le
"tensioni
da battaglia".
Questa prassi causò la nascita dei primi veri morfinomani, i
cosiddetti tossicodipendenti da morfina. Sempre nell'Ottocento,
Friedrich Engels, filosofo ed economista tedesco, amico e
collaboratore di Karl Marx, ne denuncia l'abuso da parte della
classe operaia inglese: alcuni preparati che hanno come ingrediente
base il laudano, tra cui lo sciroppo Godfrey’s Cordial, vengono
somministrati dalle lavoratrici ai loro bambini per calmarli.
vNonostante
il genere mistero o investigativo non sia stato stabilito fino al
XIX secolo, ci sono autorevoli predecessori in alcuni scritti
antichi. Il primo esempio di enigma della camera chiusa è
comunemente ritenuto il racconto di Edgar Allan Poe I delitti
della Rue Morgue (1841)[1], anche se cronologicamente questo
titolo andrebbe attribuito al racconto Passage in the Secret
History of an Irish Countess (1839), di Joseph Sheridan Le Fanu,
poi ampliato dall'autore nel romanzo Uncle Silas (1851).
vi
Tradotto
dall'inglese-Animalcule è un termine arcaico per organismi
microscopici che includevano batteri, protozoi e animali molto
piccoli. La parola è stata inventata dallo scienziato olandese del
XVII secolo Antonie van Leeuwenhoek per riferirsi aimicrorganismi
che osservava nell'acqua piovana.
vii
Il miele
ibleo
rappresenta uno dei mieli più noti e celebrati al mondo. In epoca
greca, e in forma ancora maggiore in epoca romana, fu descritto e
citato da numerosissimi scrittori.legato al mito di Ibla, da cui
derivano i nomi di alcune città della Sicilia antica, tra cui la
colonia greca di Megara
Hyblaea,
i cui resti si trovano a pochi km dall’attuale Augusta.
viii
La storia di Salmace
ed Ermafrodito
viene narrata da Ovidio nelle Metamorfosi.
Non è chiaro se Ovidio si limiti a narrare un mito greco
preesistente o aggiunga elementi di propria invenzione. Nel suo
racconto, comunque, Salmace era la ninfa di una fontana nella
regione anatolica della Caria. Quando Ermafrodito, figlio
di Ermes e Afrodite,
giunse presso la fontana, Salmace se ne invaghì e lo abbracciò,
chiedendo agli dei di poter restare eternamente con lui. Gli dei
esaudirono la sua richiesta unendo Ermafrodito e Salmace in un unico
corpo. Ermafrodito maledisse la fonte di Salmace, chiedendo che
chiunque si fosse bagnato nelle sue acque avrebbe dovuto condividere
il suo destino.
Il
mito della fontana di Salmace è narrato nel brano dei Genesis The
Fountain of Salmacis,
dall'album Nursery
Cryme.
ix
Adone, nome che
nelle lingue semitiche significa "Signore" (cfr. "Adonai"
in ebraico), è una figura di origine semitica, dove era oggetto di
un importante culto nelle varie religioni legate ai riti misterici
ispirati dalla apparente morte e resurrezione stagionale della
vegetazione. È relativamente assimilato alla divinità egizia
Osiride, al semitico Tammuz, Baal e Hadad, all'etrusco Atunnis (o
Atunis), all'anatolico Sandan di Tarso e anche al frigio Attis,
tutte divinità legate alla rinascita e alla vegetazione.
Soprattutto nell'attuale Siria era identificato come Adon.
x
Comte de Gabalis
(Conte
di Cabala) è un
testo francese del
XVII secolo
dell’abate
Nicolas-Pierre-Henri de Montfaucon de Villars (1635–1673). Il
protagonista è un occultista che spiega i misteri del mondo
all’autore.
xi
Rosacroce
(dal tedesco Rosenkreuzer)
o Rosa-Croce
è il nome di un leggendario ordine segreto mistico, cabalistico -
cristiano, menzionato storicamente per la prima volta nel XVII
secolo in Germania. L'effettiva esistenza dell'Ordine, come quella
del suo fondatore Christian Rosenkreuz, è ritenuta poco probabile e
le prove della loro esistenza sono debolissime: secondo alcuni
storici, le molte leggende che li riguardano sono prive di
fondamento.
xiiIl
Niblo's Garden è stato un teatro di New York sito a
Broadway, di proprietà di William Niblo. Il grande teatro venne
distrutto dal fuoco due volte e sempre ricostruito. Il nuovo teatro
disponeva di 3.200 posti a sedere ed aveva il palcoscenico più
attrezzato di New York. Nel 1850 iniziarono ad essere rappresentate
opere italiane. L'ultima rappresentazione al Niblo's Garden
venne data il 23 marzo 1895. Alcune settimane più tardi, il teatro
venne abbattuto per far posto ad un edificio da adibire ad uffici.
Poco tempo prima, Niblo aveva acquistato il Metropolitan Hotel
e l'annesso Teatro.
xiiiIn
italiano nel testo. Chiaro riferimento alle bellezze della Bella
Epoque, spesso ‘demì mondaine,’ idolatrate più per la loro
bellezza disinibita che per le loro doti artistiche.