Il pifferaio magico
Dove vai, dove sei stata?(Where Are You Going, Where Have You Been?) è un racconto breve, spesso antologizzato, della scrittrice americana Joyce Carol Oates. La storia apparve per la prima volta nell'edizione dell'autunno 1966 della rivista Epoch. Tema centrale della narrazione è il traumatico passaggio dall’adolescenza alla maturità di Connie Wyatt, una tipica teenager americana che sta per essere rapita da un killer psicopatico.
La trama si ispira ad un tragico fatto di cronaca: gli omicidi di tre adolescenti a Tucson, in Arizona, commessi da Charles Schmid, descritti nella rivista Life in un articolo di Don Moser (4 marzo 1966), intitolato The Pied Piper of Tucson, con chiaro riferimento alla favola del pifferaio magico*. Nella sua storia, la Oates immagina un ipotetico dialogo tra uno psicopatico come Schmid, reincarnato da Arnold Friend, e Connie, la sua probabile futura vittima.
Il titolo originale della storia era La morte e la fanciulla (Death and the Maiden) e si richiamava alla tradizione medioevale della vanità e della caducità. La fanciulla della storia, Connie, cerca sicurezza nella sua avvenenza e, come la fanciulla del quadro di Hans Baldung Grien, Der Tod und das Mädchen (1517), non perde occasione per “...guardarsi in uno specchio” o osservare “la faccia delle altre persone per assicurarsi che la sua fosse a posto.”
Il titolo definitivo, invece, sembra riecheggiare le tipiche domande che i genitori rivolgono ai loro figli quando escono o quando rientrano a casa, ma che a Connie e alle sue amiche nessuno rivolge. Il padre di Connie trascorre la maggior parte del tempo fuori casa a lavorare, e quando torna “voleva cenare e leggere il giornale mentre cenava e dopo cena andava a dormire.” La madre sembra preferirle la sorella maggiore, June, calma e posata, ma che Connie disprezza perché “...era così scialba, tozza.” A Connie, invece, piace uscire con le sue amiche, frequentare il locale centro commerciale, incontrare ragazzi e fantasticare di amori romantici “...com’era sempre nei film e promesso nelle canzoni.” Ed è la musica a scandire le giornate di queste teenager e a riempire la loro testa di sogni “...c’era sempre musica di sottofondo, come la musica durante la messa; era qualcosa su cui fare affidamento.”
La musica è importante anche nella genesi del racconto, che la scrittrice dedica a Bob Dylan perché la sua musica, in particolare la canzone “It’sAll Over Now, Baby Blue,” sembra condividere la stessa atmosfera sospesa che pervade il suo racconto: “I loved the song’s surreal quality and Dylan’s couplets: “The vagabond who’s rapping at your door / Is standing in the clothes that you once wore.” It seemed fitting to dedicate my story to Bob Dylan.” ( The Wall Street Journal, May 19, 2015.)
Curiosità:
👉Nel 1985 dal racconto fu tratto il film Smooth Talk con Treat Williams e Laura Dern
👉Il racconto è stato pubblicato nella raccolta Storie americane edito da Tropea nel 2005 e contiene una selezione dei migliori racconti della Oates pubblicati in America tra il 1963 e il 1977
Dove vai, dove sei stata?
di
Joyce Carol Oates
A Bob Dylan
Si chiamava Connie. Aveva quindici anni e l’abitudine di una breve risatina nervosa mentre allungava il collo per guardarsi in uno specchio o mentre osservava la faccia delle altre persone per assicurarsi che la sua fosse a posto. Sua madre, che notava tutto e sapeva tutto e che non aveva più molte ragioni per osservare la sua faccia, rimproverava sempre Connie per questo. “Basta stare sempre lì a guardarti. Chi sei? Pensi di essere così carina?” era solita dire. Connie inarcava le sopracciglia a questi soliti vecchi rimproveri e guardava oltre sua madre, ad una confusa visione di sé in quel momento: sapeva di essere carina e questo era tutto. Anche sua madre era stata carina un tempo, se si poteva credere a quelle vecchie istantanee nell’album, ma ora la sua bellezza era andata, e per questo stava sempre addosso a Connie.
“Perché non tieni in ordine la tua camera come tua sorella? Come ti sei pettinata i capelli – che diavolo è quella puzza? Lacca per i capelli? Tua sorella non la usa quella spazzatura.”
Sua sorella June aveva ventiquattro anni e viveva ancora a casa. Faceva la segretaria nel liceo che frequentava Connie e come se non fosse abbastanza – stare con lei nello stesso edificio - era così scialba, tozza e posata che Connie era costretta a sentirla lodare tutto il tempo da sua madre e dalla sorella di sua madre. June faceva questo, June faceva quello, metteva da parte i soldi e aiutava a pulire la casa e a cucinare e Connie non sapeva fare niente, la sua testa era piena di sogni da quattro soldi. Il padre era al lavoro per la maggior parte del tempo e quando tornava a casa voleva cenare e leggere il giornale mentre cenava e dopo cena andava a dormire.
Non gli importava molto di parlare con loro, ma dietro la sua testa china la madre di Connie continuava a farle le pulci fino a che Connie si augurava che sua madre morisse e che anche lei morisse e che tutto questo finisse. “Mi fa venire da vomitare a volte,” si lamentava con le sue amiche. Aveva una voce acuta, affannata e divertita che rendeva tutto quello che diceva un po’ forzato, sia che fosse sincera o no. C’era una cosa buona: June andava in giro con le sue amiche, ragazze che erano scialbe e giudiziose proprio come lei, e così quando Connie voleva fare lo stesso sua madre non aveva obbiezioni. Il padre della migliore amica di Connie portava le ragazze in macchina per le tre miglia necessarie ad arrivare in città e le lasciava al centro commerciale così che potessero passeggiare tra i negozi o andare al cinema, e quando tornava a riprenderle alle undici non si preoccupava mai di chiedere cosa avessero fatto.
Dovevano essere state uno spettacolo familiare, mentre passeggiavano per il centro commerciale con i loro short e le ballerine piatte che strisciavano sempre sul marciapiedi e i braccialetti portafortuna che tintinnavano sui loro polsi sottili; se passava qualcuno che le divertiva o le interessava avvicinavano le teste per bisbigliare e ridere di nascosto. Connie aveva lunghi capelli biondo scuro che attiravano lo sguardo di tutti e li portava in parte tirati sulla testa e cotonati e il resto lo faceva cadere dietro le spalle. Indossava una blusa di jersey che sistemava in un modo quando era a casa e in un altro quando era fuori. Tutto quello che la riguardava aveva due facce, una per casa e un’altra per tutto quello che non era casa: la sua camminata, che poteva essere infantile e saltellante, o abbastanza languida da far pensare a chiunque che stesse ascoltando musica nella sua testa; la sua bocca, che era pallida e sorridente per la maggior parte del tempo, ma lucida e rosa in quelle serate fuori casa; la sua rista che era cinica e affettata a casa - “Ha, ha, molto divertente,” - ma acuta e nervosa da ogni altra parte, come il tintinnio dei portafortuna sul suo braccialetto.
Wendy Fritz, 13 anni, l'ultima vittima di Schmid |
A volte andavano a fare compere o al cinema, ma a volte attraversavano l’autostrada, svicolando velocemente attraverso la strada trafficata, fino ad un ristorante drive-in dove i ragazzi più grandi si ritrovavano. Il ristorante aveva la forma di una grande bottiglia, anche se più tozza di una vera bottiglia, e sul suo tappo c’era la figura di un ragazzo sorridente che girava su sé stesso sollevando un hamburger.
Una notte di mezza estate attraversarono di corsa, senza fiato per la bravata, e proprio allora qualcuno si affacciò dal finestrino di un’auto e le invitò a salire, ma era solo un ragazzo del liceo che a loro non piaceva. Il fatto si essere riuscite ad ignorarlo le fece sentire bene. Andarono su attraverso un labirinto di macchine parcheggiate o che si aggiravano lì intorno, fino al ristorante vivacemente illuminato e infestato di mosche, con i volti felici e speranzosi come se stessero entrando in un edificio sacro che si stagliava nella notte per donargli quell’oasi di pace e quella benedizione che agognavano. Si sedettero al bancone incrociando le caviglie, le loro esili spalle irrigidite dall’eccitazione, e ascoltarono la musica che rendeva tutto così bello: c’era sempre musica di sottofondo, come la musica durante la messa; era qualcosa su cui fare affidamento.
Un ragazzo di nome Eddie entrò per parlare con loro. Sedette di spalle sullo sgabello, girando su sé stesso in semicerchi con movimenti a scatti e poi si fermava e si rigirava e dopo un po’ chiese a Connie se gradiva mangiare qualcosa. Lei rispose di sì e così diede un colpetto sul braccio della sua amica mentre andava via – la sua amica assunse una buffa espressione di sfida – e Connie le disse che si sarebbero incontrate alle undici, dall’altra parte della strada. “Odio lasciarla così,” disse Connie con sincerità, ma il ragazzo disse che non sarebbe rimasta sola a lungo.
Così uscirono per andare alla sua macchina e lungo la strada Connie non poté fare a meno di far vagare lo sguardo sui parabrezza e le facce intorno a lei, la sua faccia brillava di una gioia che non aveva niente a che fare con Eddie o perfino con quel posto, poteva essere stata la musica. Tirò su le spalle e succhiò dentro l’aria con il puro piacere di essere viva e proprio in quel momento le capitò di osservare una faccia a poca distanza da lei. Era un ragazzo con degli ispidi capelli neri, in un macinino decapottabile color oro. La fissò e poi le sue labbra si allargarono in un gran sorriso. Connie lo guardò di sottecchi e poi si girò dall’altra parte, ma non poté fare a meno lanciare un’occhiata dietro di sé ed eccolo lì, ancora a fissarla. Puntò un dito e rise e disse, “Verrò a prenderti, bambina,” e Connie si girò di nuovo senza che Eddie si fosse accorto di niente. Trascorse tre ore con lui al ristorante, dove mangiarono hamburger e bevvero coca nei bicchieri di carte che al solito trasudavano, poi giù per un vialetto per quasi un miglio, e quando la fece scendere alle undici meno cinque, solamente il cinema era ancora aperto nel centro commerciale. La sua amica era lì, a chiacchierare con un ragazzo. Quando Connie la raggiunse, le due ragazze si sorrisero e Connie disse, “Com’era il film?” e la ragazza disse, “Dovresti saperlo.” Andarono via con il padre della ragazza, assonnate e soddisfatte, e Connie non poté evitare di voltarsi a guardare il centro commerciale al buio con i suoi parcheggi vuoti e le insegne ormai sbiadite e spettrali e poi su, verso il drive-in, dove c’erano ancora macchine che si aggiravano senza sosta. Non riuscì a sentire la musica a quella distanza.
Il mattino dopo June chiese com’era il film e Connie disse, “Così, così.” Lei e quella ragazza e occasionalmente un’altra ragazza uscivano diverse volte alla settimana e il resto del tempo Connie lo trascorreva in giro per casa – erano le vacanze estive – stando tra i piedi alla madre e fantasticando sui ragazzi che incontrava. Ma tutti i ragazzi si fondevano insieme fino a formare una singola faccia che non era nemmeno una faccia ma un’idea, un sentimento che si mescolava al ritmo pressante e insistente della musica e all’umida aria notturna di luglio. La madre di Connie continuava a riportarla alla realtà trovandole cose da fare o dicendo improvvisamente, “E’ vero quello che si dice della ragazza dei Pettinger?” E Connie diceva nervosamente, “Oh, lei. Quella frana.” Tracciava sempre una linea netta tra sé stessa e certe ragazze, e sua madre era abbastanza semplice e gentile da crederci. Sua madre era così semplice, pensava Connie, che forse era crudele prenderla in giro in quel modo. Sua madre si trascinava per casa in vecchie pantofole e si lamentava al telefono con una sorella di quell’altra e poi quell’altra telefonava e tutte e due si lamentavano della terza. Se veniva nominata June il tono di sue madre era di approvazione, se veniva nominata Connie era di disapprovazione.
Questo non voleva dire che Connie non le piacesse, e in verità Connie pensava che la preferisse a June proprio perché era più carina, ma le due mantenevano una pretesa di esasperazione, una sensazione che stavano litigando e questionando per qualcosa di poco valore per entrambe. A volte, davanti ad un caffè, erano quasi amiche, ma allora succedeva qualcosa – una specie di fastidio simile ad una mosca che ronzasse improvvisamente intorno alle loro teste – e il disprezzo induriva le loro facce.
Una domenica Connie si svegliò alle undici – nessuno di loro si preoccupava di andare in chiesa – e si lavò i capelli così da poterli lasciare ad asciugare al sole tutto il giorno. I genitori e la sorella stavano andando ad un barbecue a casa di una zia e Connie disse che no, non era interessata, alzando gli occhi al cielo così che sua madre sapesse quello che pensava veramente. “Stai a casa da sola, allora,” le disse la madre bruscamente. Connie si sedette all’aperto in una sdraio sul retro della casa e li guardò andare via in macchina, suo padre tranquillo e pelato, piegato all’indietro per fare retromarcia, sua madre con un’espressione ancora arrabbiata e per niente addolcita dal parabrezza, e sul sedile posteriore la povera vecchia June, tutta vestita a festa come se non sapesse che razza di barbecue fosse, con tutti quei ragazzini che correvano urlando e le mosche.
Connie sedeva al sole con gli occhi chiusi, sognando, stordita dal caldo intorno a lei come se fosse una specie di amante, le carezze di un amante, e la sua mente si immerse nei pensieri del ragazzo con cui era stata la sera prima e di come era stato carino, di come tutto ciò era sempre dolce, e non nella maniera che avrebbe supposto una come June, ma dolce, gentile, com’era sempre nei film e promesso nelle canzoni; e quando riaprì gli occhi a mala pena sapeva dove si trovava, il giardino sul retro infestato dalle erbacce e una fila di alberi come recinzione dietro a cui il cielo era perfettamente blu e immobile. La casa prefabbricata di asbesto che ora aveva tre anni la fece trasalire – sembrava piccola. Scosse la testa come per svegliarsii.
Faceva troppo caldo. Entrò in casa e accese la radio per soffocare il silenzio. Sedette sul bordo del suo letto, a piedi nudi, ed ascoltò per un’ora e mezza un programma chiamato XYZ Sunday Jamboree, disco dopo disco di canzoni dure, veloci, urlate insieme a cui cantava, intercalate dagli annunci di “Bobby King”: “E guardate qui, voi ragazze del Napoleon - Son e Charley vogliono che voi prestiate veramente molta attenzione alla prossima canzone!”ii E la stessa Connie prestò molta attenzione, immersa nel bagliore di una gioia dal ritmo lento che sembrava sorgere misteriosamente dalla musica stessa e spargersi languidamente nella piccola stanza senza aria, inspirata ed espirata ad ogni gentile sollevarsi ed abbassarsi del suo seno.
Morning Sun (Sole del mattino), 1952, Edward Hopper |
Dopo un po’ sentì arrivare una macchina su per il vialetto. Si mise a sedere di colpo, sconcertata, perché non poteva essere suo padre così presto. La ghiaia continuò a scricchiolare per tutto il tragitto dalla strada all’ingresso – il vialetto era lungo – e Connie corse alla finestra. Era una macchina che non conosceva. Era una carretta decappottabile, di un brillante color oro che catturava opacamente la luce del sole. Il cuore cominciò a batterle e le dita corsero ai capelli, per controllarli, e sussurrò, “Cristo, Cristo,” chiedendosi quanto sembrasse brutta. La macchina si arrestò alla porta sul retro e seguirono quattro brevi colpi di clacson, come se fosse un segnale che Connie conosceva.iii
Andò in cucina e si avvicinò lentamente alla porta, poi uscì fuori dalla zanzariera, con le dita dei piedi ricurve sul bordo del gradino. C’erano due ragazzi nella macchina e allora riconobbe il guidatore: aveva neri capelli ispidi e arruffati che sembravano quelli di una folle parrucca e le stava facendo un gran sorriso.
“Non sono in ritardo, vero?” disse
“Chi diavolo pensi di essere?” disse Connie.
“Te lo dissi che sarei venuto, no?”
“Se non ti conosco nemmeno.”Parlava con tono imbronciato per non dare a vedere alcun interesse o piacere e lui parlava con una cantilena veloce e brillante. Connie spostò lo sguardo verso l’altro ragazzo, con tutta calma. Aveva i capelli castano chiaro, con un ricciolo che gli cadeva sulla fronte. La basette gli conferivano un aspetto aggressivo e imbarazzato, ma fino a quel momento non l’aveva degnata nemmeno di uno sguardo. I due ragazzi indossavano occhiali da sole. Gli occhiali del guidatore erano metallici e rispecchiavano tutto in miniatura.
“Vuoi venire a fare un giro?” disse.
Connie fece un sorrisetto e lasciò cadere i capelli sciolti su una spalla.
“Non ti piace la mia macchina? Appena pitturata,” disse. “Ehi.”
“Cosa?”
“Sei
proprio carina.”
Fece finta di essere infastidita, cacciando via le mosche dalla porta.
“Non mi credi, o cosa?” disse il ragazzo.
“Senti, nemmeno ti conosco,” disse Connie schifata.“Ehi, Ellie ha una radio, guarda. La mia si è rotta.” Sollevò il braccio dell’amico e le mostrò la piccola radio a transistor che il ragazzo teneva in mano, e allora Connie incominciò a sentire la musica. Era lo stesso programma che stava ascoltando in casa.
“Bobby King?” disse.
“Lo ascolto sempre. Penso che è grande.”
“E’ tipo grande,” disse Connie con riluttanza.
“Ascolta, questo qui è grande. Sa dove c’è movimento.”
Connie arrossì un po’, perché gli occhiali le impedivano di capire cosa stesse guardando quel ragazzo. Non riusciva a decidere se le piacesse o se fosse solo un rompiscatole, e così indugiava sulla porta e non scendeva né rientrava. Disse, “Cos’è tutta quella roba dipinta sulla tua macchina?” “Non riesci a leggere?” Aprì lo sportello con molta attenzione, come se avesse paura che potesse cadere. Scivolò fuori con la stessa cautela, piantando fermamente i piedi per terra, il piccolo mondo metallico dei suoi occhiali oscillava lentamente, come una gelatina che si raddensa, e nel mezzo c’era la blusa verde brillante di Connie. “Per cominciare, questo è il mio nome,” disse. Su di una fiancata c’era scritto ARNOLD FRIEND in caratteri nero catrame, col disegno di una faccia tonda sorridente che a Connie ricordò una zucca, solo che indossava gli occhiali.
“Voglio presentarmi, mi chiamo Arnold Friend e questo è il mio vero nome e voglio essere tuo amico, tesoro, e nella macchina c’è Ellie Oscar, è tipo un po’ timido.” Ellie si portò la radio a transistor alla spalla e ce la sistemò. “Guarda, questi numeri sono un codice segreto, tesoro.” spiegò Arnold Friend. Lesse ad alta voce i numeri 33, 19, 17iv e sollevò le sopracciglia verso di lei per vedere che cosa ne pensava, ma lei non ci fece molto caso. Il paraurti posteriore era stato sfasciato e tutto intorno c’era scritto, sul lucido fondo dorato: FATTO DA UNA FOLLE GUIDATRICE. Connie fu costretta a ridere. Arnold Friend fu contento della sua risata e la osservò attentamente. “Sull’altro lato c’è ne è molto di più – vuoi venire a vedere?”
“No.”
“Perché no?”
“Perché dovrei?”
“Non vuoi vedere che c’è sulla macchina? Non vuoi venire a fare un giro?”
“Non lo so.”
“Perché no?”
“Devo fare delle cose.”
“Di che tipo?”
“Cose.”
Rise come se lei avesse detto qualcosa di buffo. Si diede una pacca sulle cosce. Stava in piedi in un modo strano, con la schiena piegata verso la macchina come se si tenesse in equilibrio. Non era alto, sarebbe stato solo qualche centimetro più alto di lei se si fosse avvicinata. A Connie piaceva il modo in cui era vestito: scoloriti jeans attillati infilati in un paio di stivali neri consumati, una cintura stretta in vita che mostrava quanto fosse magro, e una polo bianca non troppo pulita che metteva in evidenza i piccoli muscoli duri delle braccia e della spalle. Aveva l’aspetto di chi probabilmente faceva un lavoro pesante, sollevando e trasportando oggetti. Perfino il collo sembrava muscoloso. E la sua faccia era una faccia familiare, in qualche modo: la mascella e il mento e le guance leggermente scure perché erano un paio di giorni che non si era rasato, e il naso lungo e simile a quello di un falcov, che annusava l’aria come se lei fosse un bocconcino che lui stesse per divorare ed era tutto per scherzo.“Connie, non mi stai dicendo la verità. Questo è il giorno che tu hai riservato per fare un giro con me, e lo sai,” disse, ancora ridendo. Il modo in cui si ricompose e si riprese dal suo scoppio di risa mostrava che era stata tutta una finta.
“Come sai il mio nome?” disse con sospetto.
“E’ Connie.”
“Forse o forse no.”
“Conosco la mia Connie,” disse puntando il dito. Ora se lo ricordò anche meglio, lì al ristorante, e le sue guance avvamparono al pensiero di come aveva succhiato l’aria proprio nel momento in cui era passata davanti a lui – come doveva averlo guardato. E lui se ne era ricordato. “Ellie ed io siamo venuti fin qui proprio per te,” disse. “Ellie può sedere dietro. Che ne dici?”
“Dove?”
“Dove cosa?”
“Dove andiamo?”
La guardò. Si tolse gli occhiali e lei vide come fosse pallida la pelle intorno ai suoi occhi, come buchi che non erano nell’ombra ma invece nella luce. I suoi occhi erano simili a schegge di vetro rotto che catturano la luce in una maniera gradevole. Sorrise. Era come se l’idea di andare a fare un giro da qualche parte, in qualche posto, fosse nuova per lui.
Il vero volto di Schmid, e come usava truccarsi per adescare le sue vittime |
“Solo un giro in macchina, Connie tesoro.”
“Non ho mai detto che il mio nome è Connie,” disse.
“Ma so che lo è. Conosco il tuo nome e so tutto di te, un sacco di cose,” disse Arnold Friens. Non si era ancora mosso ma rimaneva fermo appoggiato contro la fiancata della sua carretta. “Ho provato per te un interesse speciale, una ragazza così carina, e ho scoperto tutto su di te – per esempio so che i tuoi genitori e tua sorella sono andati da qualche parte e so dove e quanto ci resteranno e so con chi eri l’altra sera e che il nome della tua migliore amica è Betty. Corretto?”
Parlava con una voce cantilenante, proprio come se stesse recitando le parole di una canzone. Il suo sorriso la rassicurava che andava tutto bene. Nella macchina Ellie alzò il volume della sua radio e non si curò di guardare verso di loro. “Ellie può mettersi sul sedile posteriore,” disse Arnold Friend. Indicò il suo amico con un cenno noncurante del mento, come se Ellie non contasse e lei non se ne dovesse preoccupare.
“Come hai scoperto tutte queste cose?” disse Connie.
“Ascolta: Betty Schultz e Tony Fitch e Jimmy Pettinger e Nancy Pettinger,” disse con una cantilena. “Raymond Stanley e Bob Hutter—”
“Conosci tutti questi ragazzi?”
“Conosco tutti.”
“Senti, tu stai scherzando. Non sei di queste parti.”
“Sicuro.”
“Ma… com’è che non ti ho mai visto prima?”
“Sicuro che mi hai già visto,” disse. Si guardò gli stivali come se fosse un po’ offeso. “Solo che non te ne ricordi.”
“Credo che mi ricorderei di te.” disse Connie.
“Sii?” A questo alzò lo sguardo, raggiante. Era contento. Cominciò a seguire il ritmo della musica che veniva dalla radio di Ellie, battendo leggermente un pugno contro l’altro. Connie spostò lo sguardo dal suo sorriso alla macchina, che era stata dipinta con un colore così brillante che quasi le facevano male gli occhi a fissarlo. Guardò quel nome, ARNOLD FRIEND. E sopra il paraurti anteriore c’era un’espressione che le era familiare – EQUIPAGGIARE I DISCHI VOLANTI. Era un’espressione che i ragazzi avevano usato l’anno precedente, ma non usavano più quest’anno. La guardò per un po’, come se quelle parole le significassero qualcosa che lei ancora non sapevavi.
“A cosa stai pensando, eh?” le chiese Arnold Friend. “Non è che ti stai preoccupando per i tuoi capelli che svolazzano in giro per la macchina, eh?”
“No.”
“Forse pensi che non guido bene?”
“Che ne so?”
“Sei una ragazza difficile da prendere. Come mai?” disse. “Non lo sai che sono tuo amico? Non mi hai visto tracciare il mio segno in aria quando mi sei passata vicino?”
“Quale segno?”
“Il mio segno.” E disegnò una X nell’aria chinandosi verso di lei. Erano distanti forse tre metri l’uno dall’altra. Dopo che la mano gli ricadde sul fianco la X era ancora nell’aria, quasi visibile. Riconobbe molte cose di lui, i jeans stretti che mettevano in mostra le cosce e i glutei e gli stivali di cuoio morbido e la camicia attillata, e perfino quel suo viscido sorriso amichevole, quel sonnolento sorriso sognante che tutti i ragazzi usavano per comunicare idee che non volevano esprimere a parole. Riconobbe tutto questo e anche il suo modo cantilenante di parlare, un po’ canzonatorio, scherzoso, ma serio e un po’ malinconico, e riconobbe il modo in cui batteva i pugni uno contro l’altro in omaggio alla musica perpetua dentro di lui. Ma tutte queste cose non stavano insieme.
Improvvisamente disse, “Ehi, quanti anni hai?”
Il suo sorriso si dissolse. Allora lei poté vedere che non era un ragazzo, era molto più vecchio – trenta, forse di più. A questa scoperta il suo cuore incominciò a battere più in fretta.
“E’ pazzesco che tu me lo chieda. Non vedi che ho la tua età?”
“Col cavolo che ce l’hai.”
“O forse un paio di anni di più. Ho diciotto anni.”
“Diciotto?” disse dubbiosa.
Sorrise per rassicurarla e agli angoli della bocca apparvero delle rughe. I suoi denti erano grandi e bianchi. Il suo sorriso era così largo che gli occhi divennero due fessure e la ragazza vide com’erano spesse le sue ciglia, spesse e nere come se fossero state dipinte con un materiale nero simile al catrame. Allora, improvvisamente, sembrò diventare imbarazzato e si voltò a guardare Ellie. “Lui, è pazzo,” disse. “Non è uno spasso? E’ svitato, proprio un personaggio.” Ellie stava ancora ascoltando la musica. I suoi occhiali da sole non rivelavano niente di quello che stava pensando. Indossava una camicia di un arancione brillante sbottonata a metà per mostrare il petto, che era un petto pallido, bluastro e non muscoloso come quello di Arnold Friend. Il collo della camicia era tutto girato in su e le punte del colletto arrivavano oltre il mento come se lo proteggessero. Teneva la sua radio a transistor premuta contro l’orecchio e stava seduto lì in una specie di stordimento, in pieno sole.
“E’ un po’ strano,” disse Connie.
“Ehi, dice che sei un po’ strano. Un po’ strano!” gridò Arnold Friend. Colpì la macchina per attirare l’attenzione di Ellie. Per la prima volta Ellie si voltò e Connie vide con stupore che nemmeno lui era un ragazzo – aveva un faccia pallida, le guance appena arrossate come se le vene crescessero troppo vicine alla superficie della pelle, la faccia di un bambino di quaranta anni. Connie sentì un’ondata di smarrimento alzarsi dentro di lei e lo fissò come se aspettasse qualcosa che cambiasse lo smarrimento di quel momento e rimettesse tutto a posto. Le labbra di Ellie continuavano a formulare parole, borbottando insieme alle parole che risuonavano nel suo orecchio.
“Forse voi due fareste meglio ad andar via.” Disse Connie con voce flebile.
“Cosa? Come?” gridò Arnold Friend. “Siamo qui per portarti a fare un giro. E’ domenica.” Adesso aveva la voce dell’uomo alla radio. Era la stessa voce, pensò Connie. “Non lo sai che è domenica oggi? E, tesoro, non importa con chi eri ieri sera, oggi sei con Arnold Friend, e non dimenticarlo! Forse faresti meglio a venire qui fuori,” disse, e quest’ultima frase fu detta con una voce differente. Era un po’ più piatta, come se la tensione alla fine avesse preso anche lui.
“No. Devo fare delle cose.”
“Ehi.”
“Voi due fareste meglio ad andar via.”
“Non ce ne andiamo se non vieni con noi.”
“Col cavolo che...”
“Connie, non scherzare con me. Voglio dire… voglio dire non scherzare con me.” Disse, scuotendo la testa. Rise incredulo. Si mise gli occhiali sulla testa, con attenzione, come se indossasse veramente una parrucca, e sistemò le stanghette dietro le orecchie. Connie lo fissò, mentre dentro di lei si levava un’altra ondata di stordimento e paura così che per un momento lui non fu nemmeno a fuoco ma fu soltanto una sagoma indistinta sullo sfondo della sua macchina dorata, e le venne l’idea che era vero che era venuto su per il vialetto, ma prima di quello non era esistito da nessuna parte e che ogni cosa che lo riguardava e che riguardava perfino la musica che le era così familiare era vera solo per metà.
“Se mio padre viene e ti vede...”
“Non verrà. E’ al barbecue.”
“Come fai a saperlo?”
“Dalla zia Tllie. Proprio in questo momento stanno… stanno bevendo. Sono tutti seduti,” disse in modo vago, strizzando gli occhi come se stessero guardando giù fino alla città e poi fino al cortile sul retro di zia Tillie. Allora la visione sembrò farsi più chiara e lui annuì energicamente. “Sì. Tutti seduti. C’è tua sorella con un vestito blu, uh? E i tacchi alti, che poveraccia – niente a che vedere con te, tesoro! E tua madre sta aiutando una donna grassa con il mais, stanno pulendo il mais – tolgono le foglie...”
“Quale donna grassa?” gridò Connie.
“Che ne so quale donna grassa. Non conosco ogni dannata donna grassa del mondo!” Arnold Friend rise.
“Oh, quella è la signora Hornsby… chi l’ha invitata?” disse Connie. Si sentiva un po’ stordita. Il respiro le si stava facendo affannoso.
“E’ troppo grassa. Non mi piacciono quelle grasse. Mi piacciono quelle come te, tesoro,” disse, accennando un sorriso. Si osservarono per un po’, attraverso la porta a rete. Disse dolcemente, “Ora, questo è quello che farai: uscirai da quella porta. Ti siederai davanti con me, mentre Ellie si siederà dietro, al diavolo Ellie, va bene? Questo non è l’appuntamento di Ellie. Tu sei la mia ragazza. Io sono il tuo amante, tesoro.”
“Cosa? Sei pazzo...”
“Sì, sono il tuo amante. Tu non sai che cos’è, ma lo saprai,” disse.”So anche questo. So tutto di te. Ma ascolta: è una cosa veramente bella e tu non potresti sperare di avere uno migliore di me, o più gentile. Mantengo sempre la parola. Ora ti dico come come stanno le cose, dapprincipio sono sempre carino, la prima volta. Ti stringerò così forte che tu non penserai che devi cercare di fuggire via o ribellarti, perché saprai che non puoi. E verrò dentro di te dove è tutto segreto e ti arrenderai a me e mi amerai.”
“Stai zitto! Tu sei pazzo!” disse Connie. Si allontanò dalla porta. Si coprì le orecchie con le mani come se avesse ascoltato qualcosa di terribile, qualcosa che non era diretto a lei. “La gente non parla in quel modo, tu sei pazzovii,” balbettò. Il cuore era quasi troppo grande per il suo petto e pulsava tanto da ricoprirla di sudore. Guardò fuori e vide Arnold Friend fermarsi per poi dirigersi verso il porticato, barcollando. Per poco non cadde. Ma, come un furbo ubriacone, riuscì a recuperare il suo equilibrio. Oscillò nei suoi stivali alti e si afferrò saldamente ad uno dei pali del porticatoviii.
Gli stracci e le lattine con cui Schmid imbottiva i suoi stivali |
“Dolcezza?” disse. “Mi stai ascoltando?”
“Vattene al diavolo!”
“Devi essere gentile, tesoro. Ascolta.”
“Sto andando a telefonare alla polizia...”
Ricominciò a ondeggiare, e sottovoce biascicò una bestemmia, un a parte che non voleva che lei ascoltasse. Ma anche questo “Cristo!” suonava forzato. Allora incominciò di nuovo a sorridere. Lei guardò arrivare quel sorriso, impacciato, come se stesse sorridendo da dietro una maschera. Tutta la sua faccia era una maschera, pensò agitata, abbronzata fino alla gola ma poi più niente, come se avesse spalmato il trucco sulla faccia ma avesse dimenticato la gola.
“Tesoro…? Ascolta, ecco come stanno le cose. Io dico sempre la verità e ti prometto questo: non ti seguirò in casa.”
“Farai meglio! Chiamerò la polizia se tu...se tu non...”
“Tesoro,” disse lui, parlando sopra la sua voce, “tesoro, non verrò io dentro ma sarai tu a uscire fuori. Sai perché?”
La ragazza ansimava. La cucina le sembrò un luogo mai visto prima, una stanza dove era corsa ma che non andava bene, non l’avrebbe aiutata. La finestra della cucina non aveva mai avuto una tendina, dopo tre anni, e nel lavandino c’erano dei piatti da lavare per lei – probabilmente – e se passavi la mano sul tavolo probabilmente ci avresti sentito qualcosa di appiccicoso.
“Mi ascolti, tesoro? Ehi?”
“… andando a chiamare la polizia...”
“Appena tocchi il telefono non sarà necessario mantenere la mia promessa e potrò entrare. Tu non vuoi questo.”
Corse verso la porta e tentò di serrare la porta. Le sue dita tremavano. “Ma perché chiuderla,” disse Arnold Friend gentilmente, parlandole dritto in faccia. “E’ solo una porta a rete. Non è niente.” Uno dei suoi stivali formava uno strano angolo, come se il piede non ci fosse dentro. Puntava fuori a sinistra, piegato alla caviglia. “Voglio dire, chiunque può sfondare una porta a rete e il vetro e il legno e il ferro o qualunque altra cosa se ne ha bisogno, proprio chiunque, e specialmente Arnold Friend. Se questo posto andasse a fuoco, tesoro, tu correresti qui tra le mie braccia, dritto tra le mie braccia e al sicuro a casa – come se tu avessi saputo che ero il tuo amante e avessi smesso di scherzare. Una bella ragazza timida non mi dispiace ma non mi piacciono le prese in giro.” Parte di quelle parole furono pronunciate con una leggera cadenza ritmica, e Connie in qualche modo le riconobbe – l’eco di una canzone dello scorso anno, su una ragazza che correva tra le braccia del suo fidanzato e tornava di nuovo a casa.
Connie era ferma a piedi nudi sul pavimento di linoleum, e lo fissava. “Cosa vuoi?” sussurrò.
“Voglio te,” disse.
“Cosa?”
“Ti ho visto quella sera e ho pensato, quella è lei, sì signore. Non ho mai avuto bisogno di guardare di più.”
“Ma mio padre sta tornando. Sta venendo a prendermi. Prima ho dovuto lavarmi i capelli...” Parlava con una voce asciutta, svelta, alzandola appena per farsi sentire da lui.
“No, tuo papà non sta venendo e sì, tu ha dovuto lavarti i capelli e li hai lavati per me. Ti ringrazio, tesoro,” disse con un inchino beffardo, ma stava quasi per perdere di nuovo l’equilibrio. Dovette piegarsi per sistemare gli stivali. Evidentemente i suoi piedi non andavano fino in fondo, gli stivali dovevano essere stati imbottiti con qualcosa, così che potesse sembrare più alto. Connie guardò fuori verso di lui e dietro di lui, verso Ellie nella macchina che sembrò distogliere lo sguardo alla destra di Connie, nel nulla. Questo Ellie disse, spingendo le parole nell’aria una dopo l’altra come se le stesse scoprendo in quel momento, “Vuoi che strappi via il telefono?”
“Chiudi quella bocca e tienila chiusa,” disse Arnold Friend, con la faccia rossa perché era chinato o forse per l’imbarazzo dal momento che Connie aveva visto i suoi stivali. “Questo non è affar tuo.”
“Che… che vuoi fare? Cosa vuoi?” disse Connie. “Se chiamo la polizia verranno a prenderti, ti arresteranno...”
“La promessa era di non entrare a meno che tu tocchi quel telefono, e manterrò quella promessa,” disse. Riprese la posizione eretta e tentò di spingere dietro le spalle. Aveva lo stesso tono dell’eroe di un film che stesse dichiarando qualcosa di importante. Ma parlava troppo forte ed era come se stesse parlando a qualcuno dietro Connie. “Non ho fatto progetti per entrare in una casa che non mi appartiene ma soltanto perché tu esca e venga da me, come dovresti. Non lo sai chi sono?”
“Tu sei pazzo,” sussurrò. Si allontanò dalla porta ma non voleva andare in un’altra parte della casa, come se questo gli desse il permesso di oltrepassare la porta. “Che cosa… tu sei pazzo, tu...”
“Eh? Che stai dicendo, tesoro?”
Gli occhi della ragazza scandagliarono velocemente la cucina. Non riusciva a ricordare quale fosse, quella stanza.
“Le cose stanno così, tesoro: tu esci fuori e noi ce ne andiamo in macchina, a fare un bel giro. Ma se tu non vieni fuori noi dovremo aspettare finché i tuoi non tornano a casa, e così tutti loro sapranno.”
“Vuoi quel telefono tirato via dal muro?” disse Ellie. Scostò la radio dall’orecchio e fece una smorfia, come se senza la radio l’aria fosse troppa per lui. “Ti ho detto di chiudere la bocca, Ellie,” disse Arnold Friend, “se sei sordo, mettiti un apparecchio acustico, va bene? Datti una sistemata. Questa ragazzina non è un problema, e sarà gentile con me, perciò Ellie, fatti i fatti tuoi, questo non è il tuo appuntamento, va bene? Non mi asfissiare, non t’impicciare, non mi affliggere, non mi tallonare, non starmi addosso,” disse velocemente con voce inespressiva, come se stesse correndo attraverso tutte quelle frasi che aveva imparato ma non sapeva più quali fossero alla moda, per poi correre verso altre, formulandole con gli occhi chiusi. “Non strisciare sotto il mio steccato, non infilarti nella mia buca, non sniffare la mia colla, non succhiare il mio ghiacciolo, tieni le tue luride dita su di te!ix”
Si riparò gli occhi con la mano e scrutò dentro casa in direzione di Connie, che era appoggiata contro il tavolo della cucina. “Non preoccuparti di lui, tesoro, è solo un viscido. E’ una frana. Giusto? Io sono il ragazzo che fa per te, e come ho detto, tu vieni qui fuori gentilmente come una signora e mi dai la mano e nessun altro si farà male, voglio dire, il tuo bel papà pelato, la tua mammina e tua sorella con i suoi tacchi alti. Perché ascolta: per quale motivi tirarli in questa faccenda?”
“Lasciami in pace,” sussurrò Connie.
“Ehi, sai quella vecchia signora in fondo alla strada, quella con le galline e tutto il resto… la conosci?”
“E’ morta!”
“Morta? Cosa? La conosci?” disse Arnold Friend.
“E’ morta...”
“Non ti piace?”
“E’ morta… è… non è più qui...”
“Ma non ti piace, voglio dire, hai qualcosa contro di lei? Qualche risentimento o cosa?” Poi la sua voce si abbassò, come se fosse si fosse accorto di una scortesia. Si toccò gli occhiali infilati sopra la testa come ad accertarsi che fossero ancora lì. “Adesso, fai la brava ragazza.”
“Cosa vuoi fare?”
“Solo due cose, o forse tre,” disse Arnold Friend. “Ma prometto che non durerà molto e ti piacerò allo stesso modo in cui ti piacciono le persone con cui hai intimità. Vedrai. Non hai più niente da fare qui, così esci fuori. Non vuoi che ai tuoi succeda qualche guaio, vero?”
Lei si voltò e inciampò contro la sedia o qualcos’altro, facendosi male alla gamba, ma corse nella stanza sul retro e sollevò la cornetta del telefono. Qualcosa ruggì nel suo orecchio, un ruggito flebile, e stava così male per la paura che non poté fare altro che ascoltarlo – il telefono era così appiccicoso e tanto pesante e le sue dita cercarono a tentoni il disco ma erano troppo deboli per toccarlo. Incominciò a gridare nel telefono, dentro quel ruggito. Gridò forte, chiamò sua madre urlando, sentì il respiro incominciare a entrare e uscire spasmodicamente dai suoi polmoni come se fosse qualcosa con cui Arnold Friend la stesse pugnalando ripetutamente, senza nessuna compassione. Intorno a lei si sollevò un rumoroso lamento di dolore dentro cui era imprigionata proprio come era imprigionata nella sua casa.
Dopo un po’ riuscì di nuovo a sentire. Era seduta sul pavimento con la schiena bagnata contro la parete.
Arnold Friend le stava parlando dalla porta, “Che brava ragazza. Posa il telefono.”
Con un calcio allontanò il telefono da lei.
“No, tesoro. Raccoglilo. Mettilo a posto bene.”
Raccolse il telefono e lo mise a posto. Il segnale di libero si fermò.
“Che brava ragazza. Ora, vieni fuori.”
Era ormai priva di quella che era stata paura ma che ora era solo un senso di vuoto. Tutto quel gridare l’aveva spazzata via. Era seduta, con una gamba piegata sotto di lei, e nel profondo della sua mente c’era qualcosa simile ad un puntino di luce che continuava a brillare e non le permetteva di rilassarsi. Pensò, non rivedrò più mia madre. Pensò, non dormirò più nel mio letto. La sua camicetta verde brillante era tutta bagnata.
Arnold Friend, con una voce impostata simile a una voce di scena, disse, “Il posto da cui vieni non c’è più, e quello dove hai intenzione di andare è stato spazzato via. Il posto dove ti trovi adesso – dentro la casa di tuo padre – non è niente altro che una scatola di cartone che posso buttare già in ogni momento. Lo sai e lo hai sempre saputo. Mi senti?”
Connie pensò, devo riflettere. Devo sapere cosa fare.
“Ce ne andremo in un bel prato, nella campagna qui vicino dove c’è un profumo così buono e tanto sole,” disse Arnold Friend. “Ti stringerò fra le mie braccia così tu non avrai bisogno di provare a fuggire e ti mostrerò che cosa è l’amore, che cosa fa. Al diavolo questa casa! Di sicuro sembra solida,” disse. Fece scorrere l’unghia giù per la rete della porta e il rumore non fece tremare Connie, come sarebbe successo il giorno prima. “Ora metti la mano sul cuore, tesoro. Lo senti? Anche quello sembra solido, ma noi sappiamo bene com’è. Devi essere carina con me, devi essere più dolce che puoi perché cos’altro c’è per una ragazza come te se non essere dolce e carina e arrenderti? - e andartene prima che tornino i tuoi?”
Sentì il cuore batterle forte. La sua mano sembrava racchiuderlo. Per la prima volta nella sua vita pensò che non c’era niente che fosse suo, che le appartenesse, se non una cosa viva e pulsante in quel corpo che non era veramente suo.
“Tu non vuoi che si facciano male,” continuò Arnold Friend. “Adesso, alzati tesoro. Alzati tutta da sola.”
Si alzò.
“Ora, girati da questa parte. Così va bene. Vieni verso di me. - Ellie, dacci un taglio, non te l’ho detto? Pezzo d’idiota. Tu schifoso idiota,” disse Arnold Friend. Le sue parole non erano rabbiose ma solo parte di un incantesimo. L’incantesimo era benevolo. “Ora esci dalla cucina e vieni da me, tesoro, e fammi vedere un sorriso, provaci, sei una dolce ragazzina coraggiosa, e in questo momento stanno mangiando mais e salsicce abbrustoliti sulla graticola e non sanno assolutamente niente di te e non l’hanno mai saputo e tesoro, tu sei migliore di loro perché nessuno di loro avrebbe fatto questo per te.”
Connie sentì il linoleum sotto i suoi piedi, era fresco. Scostò i capelli dagli occhi portandoli indietro. Arnold Friend lasciò andare il palo con cautela e aprì le braccia verso di lei, con i gomiti che puntavano l’uno contro l’altro e i polsi molli, a mostrare che questo era un abbraccio imbarazzato e un po’ per gioco, non voleva metterla a disagio.
Edward Hopper - High Noon-1949 |
Appoggiò la mano sulla rete della porta. Si guardò mentre apriva lentamente la porta come se lei fosse dietro al sicuro da qualche parte nell’altro ingresso, mentre guardava questo corpo e questa testa dai lunghi capelli uscire alla luce del sole dove Arnold Friend aspettava.
“Mia dolce ragazzina dagli occhi blu,” disse con un sospiro quasi cantilenante che non aveva niente a che fare con i suoi occhi marroni, ma che fu raccolto egualmente dalla vasta distesa di terra assolata dietro di lui e tutta intorno a lui – così tanta terra che Connie non ne aveva mai vista prima e nemmeno riconobbe, sapeva soltanto che era lì che stava andando.
FINE
*Schimd, che all’epoca dei fatti aveva 23 anni, come il pifferaio magico, corteggiava e seduceva le sue vittime, che appartenevano alla sua cerchia di amicizie. Egli, infatti, non era un personaggio isolato, veniva anzi considerato un tipo divertente e i suoi omicidi, di cui si vantava e a cui parteciparono anche altri teenagers, vennero coperti dall’omertà del gruppo, finché uno di loro, temendo per la vita della sua ragazza, lo denunciò alla polizia. La sua condanna a morte fu sospesa per una moratoria. Morì dieci anni dopo durante una rissa scoppiata in carcere.
i Asbesto, conosciuto anche come amianto e oggi bandito perché cancerogeno, veniva mescolato al cemento per assemblare pannelli prefabbricati impiegati in edilizia popolare a basso costo. Un altro indizio dell’ambiente piccolo borghese in cui si svolge la vicenda, rafforzato da una sensazione di abbandono spirituale (l’indifferenza per la religione, la mancanza di coesione familiare, la sottocultura delle canzonette e degli shopping malls), insieme alla sciatteria materiale (l’erbaccia, la madre che si trascina in ciabatte, la cucina sporca e trascurata)
iiSi tratta di un programma di dediche che dava agli ascoltatori la possibilità di inviarsi dei messaggi e sembra nutrire i sogni romantici delle teen ager come Connie
iiiLa macchina di Arnold Friend sembra essere ispirata dai versi di Mr Tambourine Man di Bob Dylan:
Take me on a trip / upon your magic swirlin' ship,
ivI numeri sembrano riferirsi alla vera età di Arnold Friend e all’età di due delle vittime del serial killer, ma contengono anche un presagio di morte per Connie, visto che le vittime hanno due anni di differenza, la prossima potrebbe essere proprio lei.
vL’aspetto artefatto di Arnold Friend sembra ispirato al look di Bob Dylan, mentre il naso sembra rivelare il predatore che si nasconde dietro la maschera. Nella realtà Schmid alterava il suo aspetto per rassomigliare a Elvis Presley.
viConnie inizia ad intuire il bluff di Arnold Friend riguardo alla sua età e al suo aspetto.
viiIl linguaggio che Arnold Friend usa per riferirsi al sesso contrasta con la visione sentimentale dell’amore suggerita dalle canzoni e dai film amati da Connie.
viii In effetti, Schmid, pur avendo un fisico atletico, era basso di statura e imbottiva gli stivali con giornali, stracci e lattine vuote per sembrare più alto, cosa che gli dava un'andatura incerta.
ix Arnold Friend continua la sua commedia sciorinando un frasario giovanilistico volgare e allusivo, che contribuisce a creare una specie di crescendo verso l’inevitabile finale.
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