venerdì 20 giugno 2014

IL LADRO DI CADAVERI

 Non dire gatto...


Robert Lous Stevenson scrisse The Body Snatcher (Il ladro di cadaveri) nel 1881. Originalmente doveva far parte di una serie di racconti del terrore, o “crawlers” come preferiva chiamarli Stevenson, insieme a Janet la storta e I Merry Men, raccolti sotto il titolo THE BLACK MAN AND OTHER TALES. The Cornhill Magazine, però, rifiutò di pubblicarlo “the tale being horrid." Quando infine nel 1884 apparve nel Pall Mall Christmas number, fu reclamizzato in maniera così terrificante, che la polizia londinese ne soppresse i poster pubblicitari.

La vicenda prende le mosse da avvenimenti storici a cui si fa riferimento nel racconto: l'impiccagione del serial killer William Burke avvenuta a Edimburgo nel gennaio del 1829. Burke, insieme al suo complice William Hare – tutti e due emigrati in Scozia dall'Irlanda - furono accusati di aver ucciso 17 persone allo scopo di venderne i corpi agli anatomisti, in particolare al dottor Robert Knox. Hare scampò alla forca testimoniando contro il suo complice, mentre il dottor Knox non fu incriminato perché negò sempre di conoscere l'esatta provenienza di quei corpi, ma la sua brillante carriera fu distrutta dallo scandalo che ne conseguì. La risonanza di quest'avvenimento fu tale che nel 1832 il Parlamento si vide costretto ad emanare l'Anatomy Act per modificare la legge esistente che assegnava alle università solo i cadaveri delle esecuzioni dei criminali.
Da questi fatti deriva il termine Burking che originalmente significava commerciare cadaveri con gli anatomisti, o soffocare a morte la vittima.

Protagonisti di questo breve racconto sono due giovani e brillanti medici, Fettes e Macfarlane, assistenti di un famoso anatomista, indicato solo con l'iniziale del suo nome, K (per Knox?), a cui i due procurano corpi (subjects nel testo) da sezionare durante le lezioni di anatomia all'università di Edimburgo, comprandoli dai famigerati Resurrection Men (come venivano ironicamente soprannominati i trafugatori di salme all'epoca) o andando essi stessi a profanare i cimiteri di campagna quando la 'materia prima' scarseggiava. Come si può ben intuire l'argomento è già orrido in sé, e Stevenson non si fa scrupolo di aggiungere elementi raccapriccianti e grotteschi insieme, come ad esempio lo smembramento del cadavere di Gray, ucciso da Macfarlane perché non rivelasse i loro traffici illeciti, ad opera degli zelanti e ignari studenti di anatomia, episodio che sarà poi all'origine della spettrale scena finale, dove i due lestofanti, di ritorno da una delle loro blasfeme scorribande, vedranno le loro colpe prendere letteralmente forma sotto i loro occhi.


Fu fatto un film nel 1945 La iena - L'uomo di mezzanotte, diretto da Robert Wise, ed interpretato da Bela Lugosi e Boris Karloff.

Burke & Hare - Ladri di cadaveri è un film liberamente basato sul caso storico, con Simon Pegg come Burke e Andy Serkis come Hare, diretto da John Landis, e rilasciato nel Regno Unito il 29 ottobre 2010. In Italia è stato proiettato per la prima volta il 25 febbraio 2011.




IL LADRO DI CADAVERI
Robert Louis Stevenson






Tutte le sere dell'anno, nella saletta del George a Debenham1 sedevamo noi quattro: l'impresario di pompe funebri, l'albergatore, Fettes e io. A volte eravamo di più, ma vento o pioggia, neve o gelo, noi quattro eravamo sprofondati nelle nostre personali poltrone. Fettes era un vecchio scozzese ubriacone, evidentemente uno che aveva studiato e che possedeva delle proprietà, dal momento che viveva senza far niente. Era arrivato a Debenham anni addietro, quando era ancora giovane, e per il solo fatto che aveva continuato a viverci ne era diventato cittadino d'adozione. Il suo mantello di cammello blu era un monumento locale, come il campanile della chiesa. Il suo posto nella saletta dell'hotel George, la sua assenza dalla chiesa, i suoi deprecabili vizi da crapulone, erano tutte cose risapute a Debenham. Aveva delle vaghe opinioni radicali e delle fluttuanti infedeltà, che tirava fuori di tanto in tanto ed enfatizzava colpendo il tavolo con mano tremante. Beveva rum, cinque bicchieri regolarmente ogni sera, e per la maggior parte delle sue visite notturne al George rimaneva seduto, con il bicchiere nella mano destra, in uno stato di malinconica saturazione alcolica. Lo chiamavamo il Dottore, perché si riteneva che avesse una particolare conoscenza della medicina, ed era risaputo che, per una bevuta, poteva mettere a posto una frattura o ridurre una lussazione, ma oltre a questi vaghi particolari, non conoscevamo altro del suo carattere e dei suoi precedenti.

Una buia notte d'inverno, erano suonate le nove poco prima che l'oste si unisse a noi, ci fu un malato al George, un grosso proprietario dei dintorni fu improvvisamente colpito da apoplessia mentre era sulla via per il Parlamento, e telegrafarano all'ancor più grande dottore del gand'uomo affinché accorresse al suo capezzale. Era la prima volta che una cosa del genere accadeva a Debenham, dal momento che la ferrovia era stata inaugurata solo di recente, e noi eravamo tutti adeguatamente eccitati dall'avvenimento.
“E' arrivato,” disse l'oste, dopo aver riempito e acceso la sua pipa.
“Arrivato?” dissi. “Chi?...Non il dottore?”
“Proprio lui,” rispose l'oste.
“Come si chiama?”
“Dottor Macfarlane,” disse l'albergatore.
Fettes aveva quasi finito il suo terzo bicchiere, era istupidito, ora ciondolava il capo, ora si guardava intorno con aria stupefatta, ma a quell'ultima parola sembrò risvegliarsi, e ripeté il nome “Macfarlane” due volte, in maniera abbastanza tranquilla la prima volta, con un'improvvisa eccitazione la seconda.
“Sì,” disse l'oste, “si chiama così, dottor Wolfe Macfarlane."
Fettes divenne immediatamente sobrio, i suoi occhi si risvegliarono, la sua voce divenne chiara, alta e ferma, il suo linguaggio energico e convincente. Eravamo tutti sorpresi da quella trasformazione, come se un uomo si fosse ridestato dalla morte.
“Chiedo scusa,” disse. “Temo di non aver prestato molta attenzione a quello che dicevate. Chi è questo Wolfe Macfarlane?” E poi, dopo aver ascoltato l'oste, “Non può essere, non può essere,” aggiunse; “eppure mi piacerebbe vederlo faccia a faccia.”
“Lo conoscete, Dottore?” chiese sorpreso l'impresario di pompe funebri.
“Dio ne guardi!” fu la risposta. “E tuttavia è un nome particolare, sarebbe strano se ce ne fossero due. Ditemi, oste, è vecchio?”
“Beh, disse l'oste, “non è un giovanotto, di sicuro, e i suoi capelli sono bianchi, ma sembra più giovane di voi.”
“E' più vecchio, invece, anni più vecchio. Ma,” battendo la mano sul tavolo, “è il rum che vedete nella mia faccia... rum e peccato. Quest'uomo, forse, ha una coscienza tranquilla e una buona digestione. Coscienza! Ascoltate quello che dico. Potreste pensare che sono stato un buon vecchio decente cristiano, non è vero? Ma no, non io; non sono mai stato un santocchio. Voltaire avrebbe potuto esserlo al posto mio; ma il cervello...” dandosi dei colpetti sulla testa pelata, “il cervello era chiaro e attivo, e io ho visto, non ho fatto deduzioni.”
“Se conoscete questo dottore,” mi avventurai a rimarcare, dopo una pausa alquanto imbarazzante, “mi pare che non condividete la buona opinione dell'oste.”
“Fettes non mi degnò di attenzione.
“Sì,” disse con un'improvvisa decisione, “Devo vederlo faccia a faccia.”
Ci fu un'altra pausa, poi una porta si chiuse in maniera piuttosto brusca al primo piano e si udirono dei passi sulla scala.
“Questo è il dottore,” esclamò l'oste. “Svelto, e riuscirete a raggiungerlo.”
Ci volevano solo due passi per arrivare dalla saletta alla porta del George; l'ampia scala di quercia arrivava quasi alla strada; c'era spazio solo per un tappetino turco e niente altro tra la soglia e l'ultima curva della discesa, ma questo piccolo spazio veniva illuminato brillantemente ogni sera, non solo dalla luce sulle scale e dalla grande lanterna sotto l'insegna, ma anche dal caldo fulgore della vetrina del bar. In quel modo il George si pubblicizzava brillantemente con quelli che passavano nella fredda strada. Fettes si diresse senza esitazione sul posto, e noi, che restavamo dietro, guardammo i due uomini incontrarsi, come aveva detto uno dei due, faccia a faccia. Il dottor Macfarlane era agile e vigoroso. I capelli bianchi incorniciavano il suo volto pallido e placido, ma energico. Era vestito riccamente con il panno più fine e la biancheria più candida, una grande catena d'oro all'orologio, e bottoni e occhiali dello stesso prezioso materiale. Indossava una vaporosa cravatta, bianca a pois lilla, e sul braccio portava un comodo cappotto da viaggio di pelliccia. Non c'era dubbio che portava bene i suoi anni, trasudando, di fatto, ricchezza e considerazione; ed era un sorprendente contrasto vedere il nostro ubriacone – calvo, sporco, brufoloso e abbigliato nel suo  vecchio mantello di cammello – confrontarsi con lui in fondo alla scala.


Ritratto del Dr. Robert Knox


“Macfarlane!” disse con voce piuttosto alta, più come un banditore che come un amico.
Il grande dottore si fermò di botto sul quarto gradino, come se la familiarità di quel richiamo avesse sorpreso e in qualche modo colpito la sua dignità.
“Toddy Macfarlane!” ripeté Fettes.
L'uomo di Londra quasi barcollò. Fissò lo straniero davanti a sé per brevissimi secondi, si guardò dietro con una sorta di paura, poi in un sussurro stupefatto “Fettes!” disse, “voi!”
“Già,” disse l'altro, “io! Pensavate che fossi morto anche io? Non riusciamo a liberarci tanto facilmente della nostra reciproca conoscenza.”
“Zitto, zitto!” esclamò il dottore. “Zitto, zitto! Quest'incontro è cosi inaspettato. Vedo che non siete in compagnia. Vi confesso che dapprincipio quasi non vi riconoscevo, ma sono contentissimo... contentissimo di avere questa opportunità. Per ora devo dirvi “salve” e “arrivederci” allo stesso momento, perché il mio calesse mi aspetta e non posso perdere il treno, ma dovete... vediamo... dovete darmi il vostro indirizzo, e potete contare di ricevere presto mie notizie. Dobbiamo fare qualcosa per voi, Fettes. Temo che siate un po' a corto, ma dobbiamo porci rimedio in memoria dei vecchi tempi, come cantavamo una volta a tavola”
“Danaro!” gridò Fettes, “danaro da voi! Il danaro che ho ricevuto da voi è dove l'ho buttato nella pioggia.”
Il dottor Macfarlane mentre parlava aveva riguadagnato parte della sua superiorità e sicurezza, ma la straordinaria energia di quel rifiuto lo aveva ricacciato nella sua prima confusione.
Un'orribile, spaventosa espressione attraversò per un attimo il suo quasi venerabile volto. “Mio caro amico,” disse, “sia come volete, l'ultima cosa che desidero è di offendervi. Non voglio impormi su nessuno. Comunque, vi lascerò il mio indirizzo...”
“Non lo voglio... non voglio sapere quale tetto vi dà riparo,” lo interruppe l'altro. “Ho sentito il vostro nome; temevo che poteste essere voi, volevo sapere se, dopo tutto, c'era un Dio; ora so che non c'è. Andatevene!”
Rimase ancora fermo nel mezzo del tappetino, tra la scala e l'uscita, e il grande dottore di Londra,  per poter fuggire, dovette farsi di lato. Era chiaro che esitava di fronte al pensiero di una tale umiliazione. Bianco com'era, ci fu un lampo sinistro nei suoi occhiali, ma mentre sostava ancora incerto, si accorse che il vetturino del suo calesse stava spiando quell'insolita scena dalla strada, e, allo stesso tempo, diede una rapida occhiata al nostro piccolo gruppo della saletta, ammucchiato all'angolo del bar. La presenza di così tanti testimoni lo fece subito decidere a fuggire. Si ricompose, spolverandosi il gilè con la mano, poi guizzò come un serpente e fuggì verso la porta. Ma le sue tribolazioni non erano ancora finite, perché proprio mentre stava passando, Fettes lo afferrò per il braccio e queste parole furono pronunciate bisbigliando eppure in modo terribilmente chiaro, “Lo avete visto di nuovo?”
Il grande, ricco dottore di Londra emise un urlo acuto e soffocante, oltrepassò il suo interlocutore correndo attraverso lo spazio libero e, con la mano sulla testa, si precipitò fuori dalla porta, come un ladro quando viene scoperto. Prima che a qualcuno di noi venisse in mente di muoversi, il calessino stava già sferragliando verso la stazione. La scena svanì come un sogno, ma il sogno aveva lasciato prove e tracce del suo passaggio. Il giorno seguente l'inserviente trovò sulla soglia gli eleganti occhiali d'oro rotti, e quella stessa notte eravamo tutti col fiato sospeso vicino alla vetrina del bar, e Fettes accanto a noi, sobrio, pallido e dall'aspetto risoluto.
“Dio ci protegga,  Mr. Fettes!” disse l'oste, ritornando per primo in possesso del suo abituale buon senso. “Cosa significa tutto ciò? Sono ben strane le cose che avete detto.”
Fettes si girò verso di noi, ci guardò in faccia uno dopo l'altro. “Badate di tenere a freno le vostre lingue,” disse. “Non è salutare stuzzicare un uomo come Macfarlane, quelli che l'hanno fatto se ne sono pentiti troppo tardi.”
E quindi, senza nemmeno finire il suo terzo bicchiere, né tanto meno aspettare gli altri due, ci disse addio e si incamminò, sotto la lanterna dell'hotel, nella notte nera.
Noi tre tornammo ai nostri posti nella saletta, con un grande fuoco ardente e quattro candele luminose,  e mentre ripercorrevamo quello che era successo, il primo brivido freddo della nostra sorpresa si trasformò in un caldo bagliore di curiosità. Sedemmo fino a tardi, fu l'ultimo incontro di cui io sia a conoscenza  al vecchio al vecchio George. Prima di separarci, ognuno di noi aveva la sua teoria che si era impegnato a comprovare, e nessuno di noi aveva affare più urgente a questo mondo se non quello di rintracciare il passato del nostro infelice compagno, e scoprire il segreto che divideva con il grande dottore di Londra. Non è un grande vanto, ma credo di essere stato più abile dei miei amici al George nello scovare la storia, e forse non c'è altro uomo al mondo che possa narrarvi i seguenti ripugnanti e innaturali eventi.

Chance Companions
(Tavern scene)
Engraved by anon after a picture by Walter Dendy Sadler.


Quand'era giovane, Fettes studiava medicina a Edimburgo. Aveva un particolare talento, il talento di afferrare subito quello che sentiva, e di farlo prontamente suo. Studiava poco a casa; ma era educato, attento e intelligente alla presenza dei suoi maestri. Essi subito notarono che era un ragazzo che ascoltava attentamente e ricordava bene; inoltre, per quanto mi sembrasse strano quando lo sentii per la prima volta, era anche favorito e avvantaggiato dal suo aspetto esteriore.
In quel periodo, c'era un insegnante esterno di anatomia, che qui indicherò con la lettera K2. Il suo nome divenne poi fin troppo  noto. L'uomo che lo portava strisciava travestito lungo le strade di Edimburgo, mentre la folla che applaudiva all'esecuzione di Burke3 reclamava ad alta voce il sangue del suo padrone. Ma Mr. K era allora al vertice della sua fama, godeva di una popolarità dovuta in parte al suo talento e alla sua destrezza, in parte al professore ordinario dell'univesità. Gli studenti, almeno, giuravano sul suo nome, e Fettes credette, e tutti gli altri lo credettero, di aver gettato le fondamenta del suo successo quando si guadagnò il favore di quell'astro nascente. Mr. K era un bon vivant e un valido insegnante; gli piaceva l'arguta allusione non meno di un'attenta preparazione. In entrambe le cose Fettes aveva e meritava il suo apprezzamento, e al secondo anno di corso egli  rivestiva quasi regolarmente il ruolo di secondo assistente o sotto assistente in classe.
In questa veste, la responsabilità del teatro anatomico e dell'aula delle lezioni ricadeva in particolare sulle sue spalle. Doveva rispondere della pulizia dei locali e della condotta degli altri studenti, ed era parte del suo compito fornire, ricevere e dividere i vari corpi. Ed era proprio in relazione a quest'ultimo compito – ai tempi molto delicato – che era stato alloggiato da Mr. K  nello stesso vicolo, e alla fine nello stesso edificio della sala di anatomia. Là, dopo una notte di turbolenti piaceri, con la mano ancora tremante, la vista ancora annebbiata e confusa,  nelle ore buie che precedono l'alba invernale, veniva tirato giù dal letto da quei sudici e disperati trafficoni che rifornivano il tavolo anatomico. Apriva la porta a questi uomini, considerati infami in tutto il paese. Li  aiutava a trasportare il loro tragico fardello, pagava il loro sordido prezzo, e rimaneva solo, quando erano andati via, con quelle ostili reliquie di umanità. Veniva via da quella scena per rubacchiare un'altra ora o due di sonno, al fine di rimediare ai bagordi della notte e ristorarsi per il lavoro del giorno.
Pochi giovani avrebbero potuto essere più insensibili alle impressioni di una vita trascorsa tra le insegne della mortalità. La sua mente era chiusa ad ogni considerazione di tipo generale. Era incapace di provare interesse per il destino e le sorti degli altri, schiavo dei suoi desideri e basse ambizioni. Freddo, superficiale e insensibile oltre ogni misura, possedeva quel briciolo di prudenza, scambiato per moralità, che tiene un uomo lontano dall'ubriachezza sconveniente e dal furto punibile. In più, teneva molto alla considerazione dei suoi maestri e dei suoi compagni e non desiderava fallire in modo evidente negli aspetti esteriori della vita. Così gli dava piacere  distinguersi negli studi, e giorno dopo giorno rendeva un servizio impeccabile al suo principale, Mr. K. Per ogni giornata di lavoro si remunerava con notti di sfrenati bagordi, e quando aveva fatto pari, l'organo che chiamava la sua coscienza si dichiarava soddisfatto.
L'approvvigionamento di corpi era un problema continuo per lui e il suo capo4. In quella classe grande e attiva, la materia prima degli anatomisti era perpetuamente carente, e quel commercio diventato pertanto necessario non era solo spiacevole in sé, ma minacciava pericolose conseguenze a tutti coloro che vi erano coinvolti. Era politica di Mr. K non fare domande su come conduceva quella faccenda. “Loro portano il corpo, noi paghiamo il prezzo,” era solito dire, sfoggiando l'allitterazione “qui pro quo.” E di nuovo, con una certa irriverenza,  “Non fate domande,” era solito dire ai suoi assistenti, “per amore di coscienza.” Nessuno immaginava che i corpi erano procurati con l'assassinio. Se quell'idea gli fosse stata comunicata a parole, sarebbe fuggito per l'orrore; la leggerezza con cui parlava di un argomento così serio era, di per sé, un'offesa contro le buone maniere e una tentazione per gli uomini con cui aveva a che fare. Fettes, per esempio, si era spesso soffermato sulla singolare freschezza dei corpi. Era stato ripetutamente colpito dall'abominevole aspetto da pendaglio da forca dei lestofanti che arrivavano da lui prima dell'alba; e mettendo accortamente insieme queste cose nei suoi intimi pensieri, aveva finito con l'attribuire un significato forse troppo immorale e troppo categorico ai consigli incauti del suo superiore. In breve, aveva capito che il suo compito aveva tre aspetti: prendere quello che veniva portato, pagarne il prezzo, e distogliere lo sguardo da ogni evidenza di crimine.

La ronda di notte sorprende l'anatomista e il suo complice con un cadavere trafugato


Una mattina di novembre questa politica del silenzio fu messa improvvisamente alla prova. Era rimasto sveglio tutta la notte a causa di un tormentoso mal di denti, camminando per la stanza come un animale in gabbia o gettandosi di furia sul letto, e alla fine era caduto in quel sonno profondo e irrequieto che così spesso segue ad una notte di sofferenza, quando fu svegliato dalla terza o quarta furiosa ripetizione del segnale stabilito. C'era un leggero, luminoso chiaro di luna; il tempo era gelido e c'era vento e brina, la città non si era ancora svegliata, ma un'indefinibile agitazione già preludeva al rumore e ai traffici del giorno. I due tagliagole erano arrivati più tardi del solito e sembravano avere più fretta del solito di andare via. Fettes, sopraffatto dal sonno, gli fece luce lungo le scale. Sentiva  il brontolio delle loro voci irlandesi come in sogno, e quando alleggerirono il sacco della sua triste mercanzia, si appoggiò al muro ancora addormentato, e dovette scuotersi per trovare il danaro da dargli. Ad un tratto i suoi occhi misero a fuoco quel volto morto. Sobbalzò, si fece più vicino con la candela alzata.
“Dio onnipotente!” gridò. “Quella è  Jane Galbraith!" i due uomini non risposero niente, ma si avvicinarono alla porta. “La conosco, vi dico,” continuò. “Era viva e  vegeta ieri. E' impossibile che sia morta; è impossibile che abbiate ottenuto questo corpo in modo onesto.”
“Di sicuro, signore, vi siete completamente sbagliato,” disse uno degli uomini. Ma l'altro guardò cupamente Fettes negli occhi e chiese che gli fosse dato il denaro immediatamente. Era impossibile fraintendere la minaccia o esagerare il pericolo. Il ragazzo si sentì venir meno. Balbettò delle scuse, contò il danaro e vide partire i suoi odiosi visitatori. Non appena se ne furono andati si affrettò a confermare i suoi dubbi. Da una dozzina di segni inequivocabili identificò la ragazza con cui aveva scherzato il giorno prima. Con orrore, sul suo corpo vide segni che potevano benissimo indicare violenza. Fu preso dal panico e si rifugiò nella sua stanza. Là rifletté a lungo sulla scoperta che aveva fatto; considerò sobriamente l'appropriatezza delle istruzioni di Mr. K e il pericolo per sé stesso nell'interferire in un faccenda così seria e alla fine, con dolorosa perplessità, decise di aspettare il consiglio del suo immediato superiore, l'assistente di classe. 
Questo era un giovane dottore, Wolfe Macfarlane, molto popolare tra tutti gli studenti scavezzacollo, intelligente, corrotto e senza scrupolo all'ennesima potenza. Aveva viaggiato e studiato all'estero. Le sue maniere erano gradevoli e alquanto sfrontate. Era un'autorità in fatto di teatro, abile sul ghiaccio e sui campi da golf con i pattini e le mazze; vestiva con elegante audacia, e, per dare il tocco finale alla sua magnificenza, possedeva un calessino e un forte trottatore. Con Fettes era in termini amichevoli, infatti le loro rispettive attività reclamavano una certa comunanza di vita, e quando i corpi erano scarsi, i due si avventuravano nelle lontane campagne sul carrozzino di Macfarlane, visitavano e profanavano i cimiteri solitari e ritornavano con il loro bottino alla porta della sala settoria prima dell'alba.
Quella particolare mattina Macfarlene arrivò un po' prima del solito. Fettes lo sentì e gli andò incontro sulle scale, gli raccontò la sua storia e gli mostrò la causa del suo allarme. Macfarlene esaminò i segni sul corpo della ragazza.
“Sì,” disse, “la cosa puzza.”
“Allora, cosa dovrei fare?” chiese Fettes.
“Fare?” ripeté l'altro. “Volete fare qualcosa? Meno si parla meno si sbaglia, direi.”
“Qualcun altro potrebbe riconoscerla,” obbiettò Fettes. “Era famosa come il castello di Edimburgo.”
“Speriamo di no,” disse Macfarlane, “e se qualcuno lo farà, non sarete stato voi,  capite, e questo è tutto. Il fatto è, che questa cosa è durata troppo a lungo. Se solleverete il polverone, K si troverà in un dannato guaio, e anche voi vi troverete in una posizione difficile. Anche io, se è per questo. Mi piacerebbe sapere con che faccia ci potremmo presentare o che diavolo dovremmo dire in nostra difesa in un banco dei testimoni cristiano. Per me, una sola cosa è certa, che, praticamente, tutti i nostri corpi sono stati assassinati.”
“Macfarlane!” gridò Fettes.
“Andiamo!!” sogghignò l'altro. “Come se voi non l'aveste mai sospettato!”
“Sospettare è una cosa...”
“E provarlo è un'altra. Sì, lo so, e sono spiacente come voi che questo sia arrivato qui,” aggiunse picchiettando il  cadavere col suo bastone. “La miglior cosa da fare, secondo me, è di non riconoscerla, e” aggiunse freddamente, “io non lo farò. Voi potete, se vi va. Non do ordini, ma penso che ogni uomo di mondo si comporterebbe come me. E potrei aggiungere, credo che questo sia quello che Mr. K si aspetta da noi. La domanda è: perché ha scelto noi due come suoi assistenti? E io rispondo: perché non aveva bisogno di vecchie comari.”
Questo fu fra gli altri il motivo più adatto ad influenzare la mente di un ragazzo come Fettes. Egli acconsentì a fare come Macfarlane. Il corpo della sfortunata ragazza fu debitamente sezionato  e nessuno fece osservazioni o sembrò riconoscerla.
Un pomeriggio, dopo aver finito la sua giornata di lavoro, Fettes capitò in una famosa taverna e trovò Macfarlane seduto con uno straniero. Questo era una ometto, molto pallido, con capelli scuri e occhi neri come il carbone. I suoi lineamenti promettevano un'intelligenza  e una finezza che le sue maniere mantenevano solo minimamente, perché, ad una conoscenza più ravvicinata, risultò essere rozzo, volgare e stupido. Tuttavia, esercitava un notevole controllo su Macfarlane: dava ordini come il gran pascià, si infiammava alla più piccola discussione o ritardo e commentava rozzamente il servilismo con cui veniva obbedito.

Ritratto di William Burke


Questa persona così sgradevole provò immediata simpatia per Fettes, gli offriva continuamente da bere e lo onorava con insolite confidenze sulla sua passata carriera. Se solo un decimo di quello che confessò fosse stato vero, egli doveva essere un odioso farabutto, e la vanità del ragazzo fu solleticata dall'attenzione di un uomo così esperto.
“Anche io sono un pessimo soggetto,” ammise lo straniero, “Ma Macfarlane è inarrivabile... Toddy Macfarlane, come lo chiamo io. Toddy, ordinate un altro bicchiere al vostro amico.” Oppure,  “Toddy, alzatevi e chiudete la porta.” “Toddy mi odia,” disse un'altra volta. “Oh, sì, Toddy, è così!”
“Non chiamatemi con quel maledetto nome,” ringhiò Macfarlane.
“Sentitelo! Avete mai visto i ragazzi fare il gioco del coltello? Gli piacerebbe farlo  su tutto il mio corpo,” rimarcò lo straniero.
“Noi medici abbiamo metodi migliori di quello,” disse Fettes. “Quando un nostro vecchio amico morto non ci piace, lo dissezioniamo.”
Macfarlane gli diede un'occhiataccia, come se quello scherzo gli fosse piaciuto poco. Il pomeriggio passò. Gray, tale era il nome dello straniero, invitò Fettes ad unirsi a loro per la cena, ordinò un banchetto così sontuoso che la taverna fu messa in subbuglio, e quando tutto finì, ordinò a Macfarlane di pagare il conto. Era ormai tardi quando si separarono, l'uomo di nome Gray era istupidito dal bere. Macfarlane, reso sobrio dalla rabbia, masticava veleno per i soldi che era stato costretto a sperperare e i rospi che aveva dovuto ingoiare. Fettes, con i diversi liquori che gli cantavano in testa, ritornò a casa a passi incerti e la mente completamente annebbiata. Il giorno successivo Macfarlane non si presentò in classe, e Fettes sorrise fra sé  mentre se lo immaginava scortare quell'insopportabile Gray di taverna in taverna. Non appena la campanella suonò la fine delle lezioni, andò da un posto all'altro alla ricerca dei compagni della  notte precedente. Non riuscì a trovarli da nessuna parte, così se ne tornò subito nelle sue stanze, andò a letto presto e dormì il sonno del giusto.
Alle quattro del mattino fu svegliato dal ben noto segnale. Quando scese alla porta, fu sopraffatto dallo stupore nel trovare Macfarlane con il suo carrozzino, e  sul carrozzino uno di quei lunghi e spaventosi pacchi che conosceva tanto bene.
“Cosa?” gridò. “Siete andato fuori da solo? Come ci siete riuscito?”
Ma Macfarlane lo zittì bruscamente, ordinandogli di badare alle sue faccende. Dopo aver portato su il corpo e averlo steso sul tavolo, in un primo momento Macfarlane fece la mossa di andar via. Poi si fermò e sembrò esitare, e poi, “E' meglio se guardate la faccia,” disse, con tono imbarazzato. “E' meglio,” ripeté, mentre Fettes lo guardava stupito.
“Ma dove e come e quando lo avete trovato?” gridò l'altro.
“Guardate la faccia,” fu l'unica risposta.
Fettes era scosso, strani dubbi lo assalirono. Lo sguardo andava dal giovane dottore al corpo, e viceversa. Alla fine, con un soprassalto, fece come gli veniva ordinato. Si era quasi aspettato di vedere ciò che vide, tuttavia fu un terribile colpo. Vedere, fisso nella rigidità della morte e nudo sul rozzo tessuto del sacco, l'uomo che aveva lasciato sulla soglia di una taverna ben vestito e pieno di cibo e peccato, risvegliò, perfino nel superficiale Fettes, alcuni dei terrori della coscienza. Nella sua anima riecheggiava un cras tibi5,  il fatto cioè che a due che aveva conosciuto era capitato di giacere su quei gelidi tavoli. Eppure quelli erano solo pensieri secondari. La sua principale preoccupazione riguardava Wolfe.  Impreparato ad una prova così drammatica, non sapeva come guardare in faccia il suo camerata. Non osava incontrare i suoi occhi e non aveva più il controllo delle parole e della  voce. Fu Macfarlane in persona a fare la prima mossa. Arrivò silenziosamente alle spalle e posò gentilmente, ma con fermezza, una mano sulla spalla dell'altro.
“Richardson,” disse, “potrebbe avere la testa.”
Ora questo Richardson era uno studente che desiderava da molto tempo sezionare quella porzione del corpo umano. Non ci fu alcuna risposta, e l'assassino riprese: “Parlando di affari, mi dovete pagare, i vostri conti, vedete, devono quadrare.”
Fettes ritrovò una voce che era solo il fantasma della sua: “Pagarvi!” gridò. “Pagarvi per quello?”
“Certo, è logico che dovete. In ogni modo e a buon motivo, dovete.” replicò l'altro. “Non oso darvelo per niente, voi non oserete prenderlo per niente: ci comprometteremmo entrambi. Questo è un altro caso come quello di Jane Galbraith. Più le cose sono sbagliate, più dobbiamo agire come se fossero giuste. Dove tiene il denaro il vecchio K?”
“Là,” disse Fettes con voce roca, indicando una credenza nell'angolo.
“Datemi la chiave, allora,” disse l'altro, allungando la mano. Ci fu un momento di esitazione, poi il dado fu tratto. Macfarlane non poté trattenere un tic nervoso, segno impercettibile di un immenso sollievo, quando sentì la chiave fra le dita. Aprì  la credenza, tirò fuori penna, inchiostro e un registro  posti in uno scomparto, e prelevò dal danaro che si trovava in un cassetto la somma adatta al caso.
“Ora, guardate qui,” disse, “ecco che il pagamento è fatto...prima prova della vostra buona fede: primo passo verso la vostra salvezza. Ora dovete assicurarvela con un secondo. Segnate il pagamento nel vostro registro, e poi da parte vostra potrete sfidare il diavolo.”
I pochi secondi successivi furono una dolorosa agonia per la mente di Fettes, ma nel soppesare i suoi terrori fu quello più immediato a trionfare. Ogni futura difficoltà sembrava quasi benvenuta se adesso poteva evitare una discussione con Macfarlane. Posò la candela che aveva retto fino a quel momento e con mano ferma scrisse nel registro la data, la natura e l'ammontare della transazione.
“Ed ora,” disse Macfarlane, “è assolutamente giusto che voi dobbiate intascare il vostro profitto. Io ho già avuto la mia parte. Inoltre, quando a un uomo di mondo capita di avere un po' di fortuna, e gli arriva qualche scellino extra in tasca, mi vergogno di parlarne, ma c'è una regola di condotta al riguardo. Niente festeggiamenti, niente acquisti di libri di testo costosi, nessun pagamento di vecchi debiti; prendete in prestito, non prestate.”
“Macfarlane,” iniziò Fettes, ancora un po' rauco, “Ho messo la testa nel capestro per farvi un favore.” “Fare un favore a me?” gridò Wolfe. “Oh, andiamo! A ben guardare, voi avete fatto quello che giustamente dovevate fare per salvaguardare la vostra persona. Supponete che io mi trovi nei guai, dove vi trovereste voi? Questa seconda faccenduola deriva chiaramente dalla prima. Mr. Gray è la continuazione di Miss Galbraith. Non potete iniziare e fermarvi.  Se iniziate dovete anche continuare, questa è la verità. Non c'è riposo  per il malvagio6.”
Un orribile senso di oscurità e di tradimento del destino si impossessò dell'infelice studente.
“Mio Dio!” gridò, “ma cosa ho fatto? E quando ho iniziato? Essere nominato assistente di classe, a lume di ragione, è forse un male? Service desiderava quel posto; Service avrebbe potuto ottenerlo. Sarebbe qui dove mi trovo io ora?”
“Mio caro amico,” disse Macfarlane, “siete proprio un ragazzino! Che male ve n'è venuto? Che male ve ne può venire se tenete la lingua a posto? Ebbene, amico, sapete che cosa è la vita? Siamo divisi in due squadre... i leoni e gli agnelli. Se siete un leone, vi capiterà di giacere su questi tavoli come  Gray o Jane Galbraith; se siete un leone, vivrete e guiderete un carrozzino come me, come K, come tutte le persone con un po' di cervello o coraggio. All'inizio si ha paura. Ma guardate K!  Mio caro amico, voi siete intelligente e avete fegato. Mi piacete e piacete a K. Siete nato per andare a caccia, e vi assicuro, sul mio onore e la mia esperienza di vita, fra tre giorni riderete di questi spauracchi come uno scolaretto ad una farsa.”
Ciò detto,  Macfarlane si congedò e andò via su per il vicolo nel suo carrozzino per arrivare di nascosto prima dell'alba. Fettes fu così lasciato da solo con i suoi rimpianti. Vide il miserabile pericolo in cui era coinvolto. Vide, con inesprimibile sgomento, che non c'era limite alla sua debolezza, e che, di concessione in concessione,  da arbitro del  destino di Macfarlane  aveva finito con l'esserne il complice prezzolato e disperato. Avrebbe dato via il mondo intero se allora avesse potuto essere più coraggioso, ma non gli  venne neppure in mente che avrebbe potuto ancora essere coraggioso. Il segreto di Jane Galbrait e quella maledetta trascrizione nel regisro gli avevano chiuso la  bocca.
Le ore passarono, la classe iniziò ad arrivare, le membra dell'infelice Gray furono distribuite all'uno e all'altro, e ricevute senza commento. Richardson fu fatto felice con la testa, e prima che suonasse la fine delle lezioni, Fettes tremava di esultanza nel vedere come stavano ormai andando verso la salvezza.

Caricatura del Dr. Knox mentre fa lezione di anatomia


Per due giorni continuò a osservare, con crescente gioia, il macabro procedere di quell'inganno.
Il terzo giorno Macfarlane fece la sua apparizione. Era stato male, disse, si rifece del tempo perso dirigendo con energia gli studenti. In particolare, diede a Rchardson l'assistenza e i consigli più validi, e quello studente, incoraggiato dalla stima dell'assistente, avvampò di ambiziose speranze e già si vedeva in pugno la medaglia.
Prima che la settimana fosse trascorsa, la profezia di Macfarlane si era avverata. Fettes aveva superato i suoi terrori e dimenticato la sua bassezza. Incominciò a inorgoglirsi del suo coraggio, e nelle sua testa aveva organizzato la storia in modo tale che poteva ricordare quegli avvenimenti con orgoglio malsano. Vide ben poco il suo complice. Si incontravano, naturalmente, per le faccende della classe, tutti e due ricevevano i loro ordini da K. A volte scambiavano una parola o due in privato, e Macfarlane era sempre particolarmente gentile e gioviale. Ma era chiaro che evitava ogni riferimento al loro comune segreto, e anche quando Fettes gli sussurrò che aveva scelto di stare  dalla parte dei leoni e abbandonato gli agnelli, quello si limitò a sorridere facendogli segno di stare zitto.
Alla fine si presentò un'occasione che ancora una volta costrinse i due a una stretta collaborazione.  Il signore K era di nuovo a corto di cadaveri. Gli studenti lavoravano senza sosta, e quell'insegnante si faceva vanto di essere sempre ben rifornito. Contemporaneamente si ebbe notizia di un funerale in un cimitero di campagna di Glencorse. Il tempo ha cambiato poco il posto in questione. Era situato, come ora, ad un incrocio, fuori dall'abitato, e sprofondato nel fogliame di sei cedri. I belati delle pecore sulle colline vicine, i ruscelli ai due lati, uno che scorreva cantando ad alta voce tra i ciottoli, l'altro che gocciava furtivamente da pozza a pozza, il fruscio del vento  tra i vecchi e fiorenti ippocastani di montagna, e una volta ogni sette giorni i vecchi inni del maestro del coro, erano gli unici suoni che disturbavano il silenzio intorno alla chiesetta rurale. L'uomo della resurrezione, per usare un soprannome di quel periodo, non si faceva certo spaventare dalla santità della comune pietà. Faceva parte del suo mestiere disprezzare e profanare i cartigli e le trombe incise sulle vecchie tombe, i sentieri consumati dai piedi dei fedeli e dei cortei funebri, le offerte e le iscrizione dell'affetto dolente. Verso quelle località campestri, dove l'amore è più tenace che altrove, e dove legami di sangue e amicizia uniscono l'intera comunità di una parrocchia, il ladro di cadaveri, lungi dall'essere respinto dal naturale rispetto, era attratto dalla facilità e dalla sicurezza del lavoro. Per i corpi che erano stati deposti nella terra, in gioiosa attesa di un risveglio molto diverso, c'era la resurrezione precipitosa, illuminata da una lampada e colma di terrore della vanga e del piccone. La bara veniva forzata, il sudario strappato, e le malinconiche reliquie infilate nel sacco,  e dopo essere state scarrozzate per ore su stradine buie, venivano infine esposte alle peggiori indegnità davanti ad una classe di ragazzotti a bocca aperta.
Allo stesso modo in cui due avvoltoi planano su un agnello morente, Fettes e Macfarlane stavano per avventarsi su una tomba in quel luogo di riposo verde e tranquillo. La moglie di un fattore, una donna che aveva vissuto sessanta anni e che era conosciuta per niente altro che il suo buon burro e la sua timorata conversazione, stava per essere sradicata dal suo sepolcro a mezzanotte e trasportata, morta e nuda, a quella lontana città che aveva sempre onorato con il suo miglior vestito della domenica; il posto accanto alla sua famiglia stava per essere svuotato fino al giorno del giudizio, le sue membra innocenti e quasi venerabili esposte all'ultima curiosità dell'anatomista.
Un tardo pomeriggio i due partirono, ben avvolti nei mantelli e con una formidabile bottiglia. Pioveva senza remissione, una pioggia fredda, densa e battente. Ogni tanto si alzava il  vento, ma quella coltre  di acqua lo teneva giù. Nonostante la bottiglia, fu un viaggio triste e silenzioso fino a Penicuick, dove avevano deciso di trascorrere la sera. Si fermarono una volta, per nascondere la loro attrezzatura in un fitto cespuglio non lontano dal cimitero, e ancora una volta alla Fisher's Tryst, per fare un brindisi davanti al focolare in cucina e variare i sorsi di  whisky con un boccale di birra. Quando arrivarono a destinazione il carrozzino fu messo al coperto, il cavallo fu nutrito e accudito, e i due giovani dottori si sedettero in una saletta privata per godersi la miglior cena e il miglior vino che la casa potesse offrire. Le luci, il fuoco, la pioggia che batteva sui vetri, l'idea del freddo, assurdo lavoro che li aspettava, aggiungevano ancora più gusto alla cena. La loro cordialità aumentava ad ogni bicchiere. Poco dopo Macfarlane consegnò una piccola pila di monete d'oro al suo compagno.
“Un omaggio,” disse. “Tra amici questi piccoli dannati accomodamenti dovrebbero andare via liscio come l'olio.”
Fettes intascò il danaro e applaudì quel pensiero con gran risonanza. “Voi siete un filosofo.” gridò. “Ero un asino finché non vi ho conosciuti. Voi e K, tra voi due, per Belzebù! farete di me un uomo.”
“Naturalmente,” applaudì Macfarlane. “Un uomo? Vi assicuro, ci voleva un uomo per appoggiarmi l'altra mattina. Ci sono alcuni codardi di quarant'anni grossi e fracassoni che si sarebbero sentiti male alla vista di quella dannata cosa, ma voi no, voi non avete perso la testa. Vi ho osservato.”
“Beh, e perché mai?” si pavoneggiò allora Fettes. “Non era affar mio. Da un canto non c'era niente da guadagnare se non fastidi, dall'altro potevo contare sulla vostra gratitudine, vedete?” e si batté la tasca fino a far tintinnare i pezzi d'oro. Macfarlane avvertì un senso di allarme a quelle parole spiacevoli. Avrebbe potuto rimpiangere di aver insegnato con tanto successo al suo giovane compagno, ma non ebbe tempo di interferire, perché l'altro continuava rumorosamente la sua tirata da spaccone: “La cosa importante è di non spaventarsi. Ora, fra voi e me, io non voglio essere impiccato, è evidente, ma verso tutti quei pregiudizi, provo un'avversione innata. L'inferno, Dio, il diavolo, giusto, sbagliato, peccato, crimine e tutta questa vecchia galleria di anticaglie... possono spaventare i ragazzi, ma gli uomini di mondo, come noi due, le disprezzano. E brindiamo alla memoria di Gray.”
Si stava facendo ormai tardi. Il carrozzino, secondo gli ordini, fu portato davanti alla porta con entrambe le lampade che brillavano luminose; ai due giovani non restava che pagare il conto e mettersi in strada. Annunciarono di essere diretti a Peebles, e guidarono in quella direzione fino a che si lasciarono alle spalle le ultime case della città, allora, spente le lampade, ritornarono sui loro passi, e seguirono una strada secondaria verso Glencorse. Non c'era altro suono se non quello del loro passaggio, e l'incessante, stridente cadere della pioggia. Era buio pesto, qua e là un cancello bianco o una pietra bianca in un muro li guidavano per un breve tratto attraverso la notte; ma per lo più fu a passo d'uomo, e quasi a tentoni, che trovarono la strada attraverso quell'oscurità risonante fino alla loro solenne e isolata destinazione. Nei fitti boschi in prossimità del cimitero l'ultimo barlume di luce venne meno, e fu necessario accendere un fiammifero e illuminare di nuovo una delle lanterne del carrozzino. Così, sotto gli alberi gocciolanti, e circondati  da ombre enormi e mobili, raggiunsero la scena del loro blasfemo lavoro.
Erano entrambi esperti in tali faccende e forti con la vanga, e non erano ancora passati venti minuti quando il loro lavoro fu premiato da un sordo battere sul coperchio della bara. Nello stesso momento Macfarlane, feritosi la mano contro un sasso, lo buttò incurante al di sopra della testa. La tomba, in cui erano ora calati fin quasi alle spalle, era vicino al bordo dell'altopiano  del cimitero; la lampada del carrozzino, per meglio illuminare il loro lavoro, era stata appoggiata ad un albero nelle immediate vicinanze di un argine scosceso che scendeva fino al ruscello. Il caso aveva preso una mira sicura con il sasso. Ci fu allora un clangore di vetri rotti, la notte cadde su di loro, suoni a volte cupi, a volte tintinnanti annunciarono i rimbalzi della lanterna giù per l'argine e le sue occasionali collisioni con gli alberi. Un paio di pietre, smosse durante la discesa, le rotolarono dietro nelle profondità della valle, e poi il silenzio e la notte ripresero il sopravvento; e avrebbero potuto sforzare il loro udito al massimo grado, ma non avrebbero potuto sentire niente altro che la pioggia, che trasportata dal vento, cadeva senza sosta per miglia nell'aperta campagna

I 'Resurrection Men' all'opera



Erano così vicini alla fine del loro aborrito lavoro, che giudicarono più saggio completarlo al buio. La bara fu esumata e forzata, il corpo infilato nel sacco sgocciolante e tutti e due lo trasportarono al carrozzino; uno salì per tenerlo fermo, e l'altro, prendendo il cavallo per il morso, andò a tentoni lungo muri e  cespugli finché raggiunsero la strada più ampia presso il Fisher's Tryst. Là c'era un debole chiarore diffuso che essi salutarono come la luce del giorno; a quel punto spronarono il cavallo ad una buona andatura, e incominciarono a sferragliare allegramente verso la città.
Durante le loro operazioni si erano bagnati fino al midollo, ed ora, mentre il carrozzino sobbalzava lungo i profondi solchi della strada, la cosa che era appoggiata tra di loro cadeva ora addosso all'uno, ora addosso all'altro. Ogni volta che quell'orrido contatto si ripeteva, ognuno lo respingeva istintivamente in fretta e furia; e quel processo, sebbene naturale, incominciò a dar loro sui nervi. Macfarlane fece qualche infelice battuta sulla moglie del fattore, ma risultarono insensate sulla sua bocca e furono lasciate cadere in silenzio. Il loro innaturale fardello continuava a saltare da una parte e dall'altra, e ora la testa si appoggiava, come se fossero in confidenza, sulle loro spalle, ora il sacco fradicio sbatteva gelido sulle loro facce. Un freddo strisciante incominciò ad impossessarsi dell'animo di Fettes. Egli sbirciò l'involto, e gli sembrò in qualche modo più grande di prima. Per tutta la campagna e da ogni dove, i cani delle fattorie accompagnavano il loro passaggio con tragici ululati, e si faceva sempre più strada nella sua mente l'idea che un qualche innaturale miracolo si era compiuto, che qualche oscuro cambiamento era accaduto a quel corpo morto, e che i cani ululavano per paura del loro carico maledetto.
“Per amor di Dio,” disse, facendo un grande sforzo per riuscire a parlare, “per amor di Dio, facciamo un po' di luce!”
Evidentemente Macfarlane era dello stesso umore, perché, sebbene non rispondesse, fermò il cavallo, passò le redini al suo compagno, scese giù, e si diede da fare per accendere l'altra lampada. Fino a quel momento, non erano andati oltre l'incrocio giù ad Auchenclinny. La pioggia continuava a cadere implacabile come se stesse ricominciando il diluvio, e non era facile accendere un fiammifero in quel mondo di umidità e tenebra. Quando infine la baluginante fiammella blu fu trasferita al lucignolo e incominciò ad espandersi e a diventare brillante e formò un ampio cerchio di nebbiosa luminosità intorno al carrozzino, fu possibile per i due vedersi l'un l'altro e osservare la cosa che avevano portato con loro. La pioggia aveva modellato il ruvido sacco intorno alle fattezze del corpo sottostante; si distingueva la testa dal tronco, le spalle erano nitidamente modellate, qualcosa allo stesso tempo spettrale e umano inchiodava i loro occhi sul loro spaventoso compagno di viaggio.
Per un attimo Macfarlane rimase immobile, tenendo alta la lampada. Un terrore sconosciuto  avvolgeva il corpo di Fettes come un lenzuolo bagnato e gli tirava la pelle bianca del viso, una paura insensata, l'orrore di qualcosa che non poteva essere, iniziò a montare nella sua testa. Un altro istante e avrebbe parlato. Ma il suo compagno lo precedette.
“Quella non è una donna,” disse Macfarlane con voce soffocata.
“Era un donna quando ce l'abbiamo messa,” sussurrò Fettes.
“Reggete la lampada,” disse l'altro, “devo vederla in faccia.”
E mentre Fettes prendeva la lampada, il suo compagno aprì il sacco e scoprì la testa. La luce illuminò distintamente i lineamenti scuri e ben modellati e le guance rasate di fresco di un volto fin troppo familiare, spesso apparso nei sogni di quei due giovani. Un urlo selvaggio risuonò nella notte, con un salto si fecero di lato, la lampada cadde, si ruppe e si spense, e il cavallo, spaventato da quell'insolita confusione, scartò e corse al galoppo verso Edimburgo, portando con sé, unico passeggero del carrozzino, il corpo dell'ormai defunto e sezionato Gray.


                                     FINE


1 Debenham è un popoloso villaggio nel Mid Suffolk, nell'Inghilterra orientale.
Si riferisce al dottor Robert Knox (Edimburgo, 1791 – 1862) che è stato un     chirurgo scozzese. Popolare lettore di anatomia prima che la sua carriera fosse rovinata per aver acquistato da Burke e Hare i cadaveri delle loro vittime ad un prezzo irrisorio.
3   Burke (1792 – 28 gennaio 1829), e Hare (1792 – Edimburgo, …), di origine irlandese, sono stati due serial killer che agirono ad Edimburgo, Scozia, dal novembre 1827 al 31 ottobre 1828, allo scopo di vendere cadaveri agli anatomisti. Dal loro particolare modo di uccidere le vittime deriva il termine "burking", che significa soffocare e comprimere volutamente il petto di una vittima. Burke venne impiccato, mentre Hare ebbe salva la vita per aver testimoniato contro il suo complice.
4   Agli inizi del XIX secolo la scienza medica cominciò a fiorire, ma allo stesso tempo gli unici cadaveri che potevano essere usati - ovvero quelli delle esecuzioni dei criminali - cominciavano a scarseggiare a causa di una forte riduzione del tasso di esecuzione, portato dall'abrogazione del Bloody Code. Erano disponibili solo 2 o 3 corpi all'anno, ma gli studenti erano molti. Questa situazione attirò i criminali (detti resurrection men) che volevano ottenere denaro in ogni modo. Il passo tra il rubare cadaveri e l'omicidio fu breve.
5   La locuzione latina Hodie mihi, cras tibi, tradotta letteralmente, significa oggi a me domani a te.
  La frase deriva dalla Bibbia – Isaia 57: “Non c'è pace per il malvagio.”
 
 

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