Non
entrare in quella stanza
The
Spook House, scritta
da Ambrose “Bitter” Bierce nel 1889,
narra le vicende di due viaggiatori che, in una notte di tempesta,
trovano rifugio in una vecchia casa abbandonata da anni e già
oggetto di superstiziose paure che, purtroppo per i protagonisti,
alla fine si riveleranno vere. Uno di loro, infatti, resta
prigioniero della casa, intrappolato, per sempre, in una stanza che
era diventato il cupo sepolcro dei suoi precedenti abitanti e di
altri sfortunati viaggiatori,
improvvisamente scomparsi, senza lasciar traccia di sé.
Il
tema della stanza segreta, e dei suoi orrori, è caro alla
letteratura di tutti i tempi, compresa
quella per l'infanzia, come nella favola di Barbablù.
Ma
per Bierce quella stanza non è solo la metafora della parte oscura
del nostro subconscio e dei suoi fantasmi, il suo orrore è molto più
simile all'orrore cosmico teorizzato da Lovecraft. I
viaggiatori,
nell'oltrepassare
la
soglia di
quella casa hanno
la netta sensazione di aver attraversato il varco che porta ad
un'altra dimensione, completamente avulsa dalla realtà esterna: “Non
un baluginio dell'incessante bagliore dei fulmini penetrava
attraverso le finestre o le crepe dei muri, non un sussurro del
terribile tumulto esterno li raggiungeva.”
La
sua
architettura labirintica la rende simile ad un disegno di Escher;
quando,
infatti,
il
protagonista cerca
di uscire fuori attraverso la porta d'ingresso, scopre
che ora questa “Conduceva
in un'altra stanza!” Quando
alcuni mesi dopo torna in quella casa per recuperare almeno il
cadavere del suo compagno, della stanza segreta non si trova più
traccia,
essa sembra sparita dalla faccia della terra con tutto il suo carico
di orrore.
Quasi
una premonizione della
sua
misteriosa
fine: “Bitter” Bierce sparì nel 1913 mentre, forse, era al
seguito della rivoluzione di Pancho Villa. Ma cosa sia veramente
successo di lui, nessuno lo sa. Svanì,
per dirlo con
le sue parole,
in uno spazio
“attraverso cui
oggetti animati e inanimati possono cadere nel mondo invisibile e non
essere più visti né sentiti.”
Su You Tube potete ascoltare una suggestiva drammatizzazione interpretata da Giancarlo Giannini
La
casa del fantasma
di
Ambrose
Bierce
Lungo la
strada che da Manchester, nel Kentucky orientale, conduce a nord, a
venti miglia da Boonville, c'era, nel 1862, una casa coloniale in
legno la cui qualità era alquanto superiore alla maggioranza delle
abitazioni del luogo. L'anno successivo, la casa fu distrutta da un
incendio – probabilmente ad opera di alcuni sbandati della colonna
in ritirata del generale George W. Morgan, ricacciata dal generale
Kirby dal passo di Cumberland verso il fiume Ohio. Quando fu
distrutta, la casa era disabitata da quattro o cinque anni. I campi
tutto intorno erano infestati di rovi, i recinti scomparsi, e perfino
le poche baracche degli schiavi e gli edifici esterni in generale,
erano parzialmente in rovina a causa dell'abbandono e dei saccheggi,
perché i negri e i bianchi poveri del vicinato trovavano
nell'edificio e negli steccati un'abbondante riserva di legna, di cui
si approfittavano senza esitazione, apertamente e alla luce del
giorno. Solamente alla luce del giorno: al cadere delle
tenebre nessun essere umano, eccetto i forestieri di passaggio, osava
avvicinarsi a quel luogo.
Era
conosciuta come la “casa del fantasma.” Che fosse abitata da
spiriti maligni, visibili, udibili e attivi, era un fatto di cui
nessuno in quella zona dubitava più di quanto si potesse dubitare
di quello che veniva raccontato la domenica dal predicatore
itinerante. L'opinione del suo proprietario era sconosciuta, lui e la
sua famiglia erano spariti una notte e nessuna traccia di loro era
mai stata trovata. Lasciarono ogni cosa – masserizie, abiti,
provviste, i cavalli nella stalla, le vacche nei campi, gli schiavi
nei loro alloggi – così com'era, non mancava niente – eccetto un
uomo, una donna, tre ragazze, un ragazzo e un neonato! Non era
affatto sorprendente che una piantagione dove sette esseri umani
potevano essere cancellati tutti nello stesso momento senza che
nessuno sapesse come, fosse oggetto di qualche sospetto. Una notte di
giugno, nel 1859, due cittadini di Frankfort, il colonnello J. C.
McArdle, avvocato, e il giudice Myron Veigh, della guardia nazionale,
stavano viaggiando da Boonville a Manchester. Gli affari che dovevano
sbrigare erano così importanti che decisero di proseguire, a
dispetto del buio e dei brontolii di un temporale in arrivo, che alla
fine li colse proprio mentre arrivavano di fronte alla “casa del
fantasma.” I fulmini erano così frequenti che trovarono facilmente
la strada dal cancello fino ad una tettoia, dove legarono i loro
cavalli e gli tolsero i finimenti. Si recarono alla casa, sotto la
pioggia, e bussarono a tutte le porte senza ottenere risposta.
Pensando che fosse colpa del continuo fragore dei tuoni, spinsero
una delle porte finché quella cedette. Entrarono senza altri
convenevoli e chiusero la porta. In quel preciso momento si trovarono
immersi nell'oscurità e nel silenzio. Non un baluginio
dell'incessante bagliore dei fulmini penetrava attraverso le finestre
o le crepe dei muri, non un sussurro del terribile tumulto esterno li
raggiungeva. Era come se fossero improvvisamente diventati ciechi e
sordi, e in seguito McArdle disse che per un istante aveva creduto
di essere stato ucciso da un fulmine mentre attraversava la soglia.
Il resto di questa avventura può essere benissimo raccontata con le
sue stesse parole, dal Frankfort Advocate del
6 Agosto 1876:
“Quando
mi fui un po' ripreso dall'effetto stordente del passaggio dal
fracasso al silenzio, il mio primo impulso fu di riaprire la porta
che avevo chiuso, dalla cui maniglia non avevo coscienza di aver
tolto la mano; infatti la sentivo ancora distintamente nella presa
delle mie dita. La mia idea era di uscire di nuovo nella tempesta per
capire se fossi stato privato della vista e dell'udito. Girai la
maniglia e spalancai la porta. Conduceva in un'altra stanza! Il
locale era soffuso da una tenue luce verdastra, di cui non riuscivo a
capire la sorgente, che rendeva chiaramente visibile ogni cosa,
sebbene niente fosse definito in maniera netta.
Ambrose
Bierce (Right next to woman), San Francisco writer Herman George
Scheffauer and a number of unidentified ladies in the Santa Cruz
Mountains.
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Ho detto “ogni
cosa,” ma in verità gli unici oggetti nel perimetro dei muri
spogli della stanza erano cadaveri di esseri umani. Ce n'erano
all'incirca otto o dieci – si può ben capire che non li ho contati
con precisione. Erano di diverse età, o meglio corporature,
dall'infanzia in poi, e di entrambi i sessi. Erano tutti distesi sul
pavimento, eccetto uno, apparentemente una giovane donna, che sedeva
con le spalle appoggiate ad un angolo della parete. Un'altra donna,
più anziana, stringeva tra le braccia un neonato. Un ragazzino
giaceva con la faccia in giù di traverso le gambe di un uomo
barbuto. Uno o due erano quasi nudi, e le mani di una ragazza
stringevano il frammento di un vestito che aveva lacerato sul petto.
I corpi erano in diversi stadi di decomposizione, tutti estremamente
rinsecchiti nel volto e nella figura. Altri erano poco più che
scheletri. Mentre rimanevo lì
pietrificato dall'orrore di quella visione spettrale e
continuavo
a tenere ancora
aperta la porta, per non so
quale sorta di perversità, la mia attenzione venne
distratta da quella scena scioccante e fu attratta da dettagli
insignificanti.
Forse la mia mente, guidata
da un istinto di autoconservazione, cercava sollievo in argomenti che
potessero calmarne la pericolosa tensione. Fra le altre cose,
osservai che la porta che tenevo ancora aperta, era era fatta di
pesanti piastre di ferro, rivettate. A eguale distanza l'una
dall'altra, e dall'alto in basso, tre robuste barre di ferro
sporgevano dai bordi smussati. Girai la maniglia e quelle si
ritrassero e si allinearono al bordo, la rilasciai, e quelle
rispuntarono fuori. Si trattava di una serratura a molla. All'interno
non c'era maniglia, né altre sporgenze, solo una liscia superficie
di ferro.
Mentre
notavo queste cose con un interesse ed un'attenzione che ancora oggi
mi stupisce nel ripensarci, mi sentii spinto da parte e il giudice,
che avevo dimenticato a causa dell'intensità e del turbamento dei
miei sentimenti, mi passò accanto per entrare nella stanza. “Per
amor di Dio,” gridai, “non andate là dentro! Andiamo via da
questo posto spaventoso!” Non fece alcun caso ai miei avvertimenti,
ma (da gentiluomo coraggioso, come mai ne sono vissuti in tutto il
Sud) avanzò svelto fino al centro della stanza, si inginocchiò
accanto ad uno dei corpi per esaminarlo da vicino, e sollevò
delicatamente nella mano la testa annerita e avvizzita. Un fetore
intenso e sgradevole oltrepassò la porta stordendomi completamente.
I miei sensi vacillarono, mi sentii cadere e mentre mi afferravo al
bordo della porta per sorreggermi, la la spinsi fino a che si chiuse
con uno scatto secco!
Non ricordo
altro; sei settimane dopo ritornai in me in un albergo di Manchester,
dove ero stato portato da alcuni forestieri il giorno dopo. Per tutte
quelle settimane ero stato afflitto da una febbre nervosa,
accompagnata da un delirio costante. Ero stato trovato disteso sulla
strada a diverse miglia dalla casa, ma non ho mai saputo come fossi
riuscito a fuggire e ad arrivare fin là. Quando mi ripresi, o appena
i miei medici mi permisero di parlare, mi informai sul destino del
giudice Veigh, e (per tranquillizzarmi, come ora so) mi fu detto che
stava bene e a casa sua. Nessuno
credette ad una sola parola della mia storia, e chi potrebbe
meravigliarsene?
E chi potrebbe immaginare il mio dolore quando, arrivando a casa mia
a Frankfort due mesi più
tardi, appresi che, da quella
notte, non si era saputo più niente del giudice Veigh? Allora
rimpiansi amaramente quell'orgoglio che fin dai primi giorni dopo la
mia guarigione mi aveva impedito di ripetere la mia discreditata
storia e insistere sulla sua veridicità. Tutto
quello
che accadde dopo – l'ispezione della casa, il mancato ritrovamento
di una stanza che corrispondesse a quella che avevo descritta, il
tentativo di farmi dichiarare pazzo, e la vittoria sui miei
accusatori – è ben noto ai lettori dell'Advocate.
Dopo tutti questi anni sono ancora certo che grazie ad opportuni
scavi, che non ho né il diritto legale di intraprendere né la
ricchezza per portare
a compimento, si sarebbe
potuto scoprire il segreto della scomparsa del mio sfortunato amico,
e forse dei precedenti inquilini e proprietari di quella casa
abbandonata e ormai distrutta. Ancora non dispero di poter effettuare
una tale ricerca, ed è per me causa di grande dolore che venga
ritardata dall'immeritata ostilità e dall'improvvida incredulità
della famiglia e degli amici del defunto giudice Veigh.”
Il
colonnello McArdle morì a Franckfort il 13 dicembre del 1879.
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