Il
fantasma geloso
La
giornalista e scrittrice americana Olivia Howard Dunbar
(1873–1953, vedi nota
biografica*)
nell'articolo
di fondo apparso
sul The Dial
nel primo giugno del 1905 lamentava “la
decadenza del
Fantasma
nella fiction.” La Dunbar sosteneva che “sin dalla nascita della
letteratura... quello che noi chiamiamo soprannaturale
era stata la materia prima dei narratori.” Faceva
notare come
i fantasmi erano onnipresenti nel folklore e nelle ballate inglesi e
che,
durante la metà dell'ottocento, le storie di fantasmi erano
all'ordine del giorno nelle riviste americane e soprattutto negli
annuari natalizi. “Ma,
improvvisamente, e misteriosamente, i fantasmi sparirono dalle
riviste.” Né
potevano essere considerate un argine a questa decadenza le storie di
Henry James, in particolare The
Turn of the Screw,
dal momento che “il suo racconto è probabilmente troppo esoterico
per essere considerato tipico.” Insomma, la Dunbar sperava in un
“ritorno del fantasma nella letteratura.”
La
sua speranza si realizzò negli anni successivi al suo articolo, in
quanto un buon numero di scrittori, molti dei quali donne,
pubblicarono storie con fantasmi di vario genere. Lei stessa
contribuì a quella rinascita, scrivendo diverse storie psicologiche
di fantasmi in cui analizza il ruolo delle donne nel matrimonio e
nella vita sociale.
Pubblicato
tre anni dopo questo saggio, The Shell of Sense
(La
sfera dei sensi),
è
un racconto unico nel suo genere. La
storia, infatti,
è narrata in prima persona dal fantasma della protagonista, una
donna che osserva il marito, ancora
in vita, con gelosia e preoccupazione. La
donna, ormai libera dalle “nebbie... (che avvolgono)
coloro che vivono nella sfera dei sensi,” finalmente realizza che
il suo amore non è mai stato ricambiato, e
che tutte le cure e le attenzioni che il marito aveva avuto per lei
erano state
il
frutto di un profondo senso di colpa, dal momento che l'uomo
è
sempre stato
segretamente innamorato della giovane
cognata
che vive nella
loro casa.
Questa
presa di coscienza, dapprima dolorosa, sarà infine liberatoria,
sia per la protagonista che per i suoi cari.
♣Il tema del triangolo amoroso con fantasma sarà sfruttato dal
commediografo inglese
Noel Coward nella commedia brillante Blithe
Spirit
(Spirito
gaio,
1940),
che
si prende gioco proprio del rinato interesse per
lo
spiritualismo che caratterizzò la prima metà del '900.
La
sfera dei sensi
di
OLIVIA
HOWARD DUNBAR
Magritte "The Lovers" - 1928 |
Era
rimasta insopportabilmente immutata, quella stanza dai toni cupi e indistinti. In una dolorosa ricognizione, il mio sguardo scorreva
dall'uno all'altro degli oggetti confortevoli e familiari tra i quali
avevo trascorso la mia vita terrena. Improvvisamente, notai che anche
gli spazi che io stessa avevo lasciato sugli scaffali della libreria
restavano ancora vuoti; che le dita delicate delle felci di cui mi
ero presa cura erano ancora futilmente tese verso la luce; che il
sommesso chiocciolio del mio orologino, come una vecchia signora con
cui la conversazione era diventata automatica,
era sempre lo stesso.
Immutata
– o così sembrava all'inizio. Ma c'erano delle piccole differenze
insignificanti che dopo un po' mi colpirono. Le finestre erano chiuse
troppo saldamente; io, infatti, avevo sempre tenuto la casa molto
fresca, pur sapendo che Theresa preferiva ambienti caldi. E il mio
cestino da lavoro era in disordine; era assurdo che una cosa così
insignificante dovesse ferirmi tanto. Poi, dato che questa era la mia
prima esperienza di quell'oscura transizione, la strana alterazione
delle mie emozioni mi lasciò stupefatta. Infatti, per un attimo quel
posto mi sembrò così umanamente familiare, così assolutamente
adatto a me, che per amor suo avrei potuto appoggiare la mia guancia
contro il muro; un attimo dopo, invece, ero tristemente consapevole
di strane e nuove note stridenti. Come avrei potuto sopportare – e
le avevo mai sopportate? – quelle ostili emanazioni che percepivo
alla finestra; una luce ed un colore così accecante da oscurare la
forma del vento, un tumulto così discordante che a male pena si
potevano sentire le rose aprirsi giù nel giardino?
Ma
Theresa non sembrava curarsi di quelle cose. A dire il vero, la cara
ragazza non si era mai curata del disordine. Per tutto quel tempo era
rimasta seduta alla mia scrivania – alla mia scrivania – a
scrivere, potevo fin troppo facilmente intuire cosa. Alla luce della
mia abituale precisione, era chiaro che quella triste corrispondenza
avrebbe dovuto essere sbrigata prima; ma non credo di aver veramente
biasimato Theresa, perché sapevo che i suoi biglietti, quando poi li
scriveva, erano forse meno superficiali dei miei. Finì l'ultimo
mentre la guardavo, e lo aggiunse al mucchio di buste bordate di nero
posate sulla scrivania. Povera ragazza! Ora vedevo le lacrime che le
erano costati. Eppure, vivendo accanto a lei giorno dopo giorno, anno
dopo anno, non avevo mai capito di quale profonda tenerezza mia
sorella fosse capace. Era stata nostra abitudine mostrare solo un
moderato affetto l'una per l'altra, e ricordo di essere sempre stata
convinta che, essendole negata la mia felicità, per Theresa fosse
una fortuna poter viver in modo semplice e piacevole, senza emozioni
devastanti... E ora, per la prima volta, l'avrei vista
veramente...Era proprio Theresa, dopo tutto, quel groviglio di
turbolenze soffocate? Non dovete credere che quell'implacabile lucida
capacità di penetrare la verità, che esercitavo per la prima volta,
fosse facile da sopportare; o che, nei suoi primi momenti di
affrancamento, quella timida visione non rimpiangesse le antiche
nebbie.
Improvvisamente,
mentre Theresa era seduta lì, tenendosi la testa, colma di teneri
pensieri per me, tra le sue delicate mani, percepii il passo di Allan
salire le scale coperte dal tappeto. Anche Theresa lo sentì, ma come?
Perché non era udibile. Trasalì, nascose le buste nere, e fece
finta di scrivere in un libricino. Poi, tutta presa dall'arrivo di
Allan, mi dimenticai di lei. Era lui, naturalmente, che stavo
aspettando. Era per lui che avevo fatto questo primo solitario,
spaventoso sforzo per ritornare, per ricominciare... Non che pensassi
che avrebbe permesso a sé stesso di riconoscere la mia presenza,
perché da tempo mi era familiare la sua testarda e tenace negazione
dell'invisibile. Era sempre così ragionevole, così assennato –
così cieco. Ma avevo sperato che proprio a causa del suo rifiuto
della sostanza eterea che ora mi conteneva, avrei potuto in maniera
ancora più sicura e con più segretezza, osservarlo, stargli
affianco. Adesso era vicino, molto vicino, - ma perché Theresa,
sedendo lì in quella stanza che non le era mai appartenuta, si
appropriava del suo arrivo? Era così chiaro che ero stata io ad
attrarlo, che era me che era venuto a cercare.
Felice Casorati - Cesarina Gualino, 1907 |
La
porta era socchiusa. Bussò dolcemente: “Sei in camera, Theresa?”
chiamò. Quindi, si aspettava di trovarla nella mia camera? Mi
ritrassi, avendo quasi paura di restare.
“Finisco
subito,” gli disse Theresa, e lui si sedette ad aspettarla.
Nessuno
spirito ancora prigioniero del corpo può capire lo spasimo che
provai con Allan che sedeva a portata di mano. Quasi
irresistibilmente, mi assalì il desiderio di lasciargli sentire per
un istante la mia vicinanza. Poi, mi controllai, rammentandomi - oh,
assurde, pietose paure umane! - che una mia vicinanza troppo incauta
avrebbe potuto allarmarlo. Non era così lontano il tempo in cui io
stessa li avevo conosciuti, quei timori ciechi e rozzi. Allora, mi
avvicinai un po', ma non lo toccai. Soltanto, mi chinai verso di lui
e, con incredibile dolcezza, sussurrai il suo nome. Non avevo potuto
trattenermi più di così, la magia della vita era ancora troppo
forte in me. Ma questo non gli diede né conforto, né gioia.
“Theresa!” gridò, con una voce spaventosa per la paura – e in
quel momento cadde l'ultimo velo, e disperatamente, stentando a
crederci, capii come stavano le cose tra di loro, tra quei due. Lei
gli rivolse quel suo sguardo gentile.“Perdonami,” mormorò lui
con voce roca. “Ma improvvisamente ho avuto la più bizzarra...
sensazione. Forse ci sono troppe finestre aperte? C'è un tale...
freddo qui dentro.”
“Non
ci sono finestre aperte,” lo rassicurò Teresa. “Ho avuto cura di
chiudere fuori il freddo. Tu non stai bene, Allan!”
“Forse
no.” Fece suo il suggerimento. “Eppure, non mi sento niente, a
parte questa abominevole sensazione che persiste –
persiste...Teresa, dimmi la verità: è una mia fantasia, o anche tu
senti qualcosa... di strano qui?”
“Oh,
c'è qualcosa di strano, qui,” sospirò a mala pena. “Ci sarà
sempre.”
“Santo
cielo, bambina mia, non intendevo quello!” Si alzò e si guardò
intorno. “So che hai le tue convinzioni, naturalmente, e le
rispetto, ma sai altrettanto bene che non le condivido! Pertanto –
non tiriamo in ballo l'inesplicabile.” Rimasi lì, impalpabile e
imponderabile, accanto a lui. Per quanto mi sentissi infelice e
desolata, non avrei potuto lasciarlo mentre mi rinnegava. “Quello
che voglio dire,” continuò, con la sua voce bassa e chiara, “è
che si tratta di un senso di freddo particolare, quasi minaccioso.
Sull'anima mia, Teresa,” – fece una pausa - “se fossi
superstizioso, se fossi una donna, potrei forse immaginare che
si tratti di una... presenza!”
Pronunciò
l'ultima parola con un filo di voce, ma fu sufficiente a far
rabbrividire Theresa. “Non devi dirlo, Allan!” gridò.
“Non devi pensarlo, te ne prego! Ho provato con tutte le mie forze
a non pensarci – e tu devi aiutarmi. Sai bene che a vagare in
questo mondo sono solo gli spiriti infelici e irrequieti. Con lei, è
tutta un'altra faccenda. E' sempre stata così felice – deve
esserlo ancora adesso.” Ascoltavo sbalordita il dolce dogmatismo di
Theresa. Da quali bui recessi provenivano quell'errate certezze, come
era densa, per lei ed Allan, la nebbia che ci separava! Allan si
accigliò. “Non prendermi alla lettere, Theresa,” precisò; ed
io, che un attimo prima lo avevo quasi toccato, ora mi tenevo a
distanza e lo ascoltavo con una strana, inconsueta pietà, che
sentivo nascere in me in quel momento. “Non parlo di quelli che voi
chiamate... spiriti. E' qualcosa di molto più terribile.” Si
lasciò affondare pesantemente la testa nel petto. “Se non fossi
certo di non averle mai fatto del male, potrei credere che si tratti
di senso di colpa, di rimorso... Theresa, tu forse lo sai meglio di
me. E' stata felice, sempre? Credeva in me?”
“Come
non credere in te? - quando conosceva la tua bontà, quando tu la
adoravi!” “Era questo che pensava?
Diceva così? Allora, in nome del cielo, che cosa mi tormenta? - a
meno che le cose non stiano proprio come tu dici, ed ora lei sa
quello che non sapeva allora, e ne soffre...” “Soffrire per cosa?
Cosa vuoi dire, Allan?” Io, che, forse a causa del mio illegittimo
vantaggio, vedevo tutto così chiaramente, sapevo che lui non glielo
avrebbe voluto dire: dovevo ammetterlo, perfino nei miei primi
momenti di gelosia. So non lo avessi torturato in quel modo con la
mia vicinanza, non glielo avrebbe detto. Ma quel momento arrivò, e
fu un fiume in piena, e le confessò quella storia, per quanto
tumultuosa e appassionata fosse. Durante tutta la nostra vita
insieme, la mia e di Allan, egli mi aveva protetto, mi aveva avvolto
nel bianco mantello di una lealtà senza macchia. Ma sarebbe stato
più gentile, pensavo ora con amarezza, se, come molti mariti, anni
fa avesse trovato, per la storia che ora rivelava, un confidente
segreto; non sarei mai venuta a saperlo. Ma lui era fedele e buono, e
così aveva aspettato finché io, muta e incatenata, fossi lì ad
ascoltarlo. Lo conoscevo così bene, era stato così completamente
mio una volta, che potevo leggere nei suoi occhi, sentire nella sua
voce, prima che pronunciasse una parola. Eppure quando successe, mi
sentii colpita dalla frusta di un'insopportabile umiliazione. Perché
io, sua moglie, non avevo mai saputo quanto grande potesse essere il
suo amore.
E
che anche Theresa, con i suoi modi tranquilli, se ne fosse fatta
carico, la piccola dolce traditrice! Dove era il ferro in lei, gemevo
nel mio animo ferito, dove la fermezza? Dal momento che le si
dichiarò, lei volse su di lui i suoi piccoli dolci petali – e la
mia ultima illusione si spense. Era intollerabile, ma ancora più
intollerabile il fatto che, un momento dopo, spinta da un tardivo
pensiero per me, ella aveva rinunciato a lui. Allan era suo, eppure
lei lo allontanava da sé, e io non potevo fare altro che guardarli.
Poi, nell'angoscia di quel momento, ricordai, sciocco e inesperto
spirito che altro non ero, che adesso possedevo la Grande Risorsa.
Per quanto mi fossero insopportabili le cose degli uomini, non ero
costretta a sopportarle. Allora, non feci più l'immane sforzo che mi
teneva insieme a loro. La spietata sofferenza fu lenita, i suoni e le
luci cessarono, gli amanti sparirono dalla mia vista, ed io ero di
nuovo misericordiosamente risucchiata negli spazi bui e infiniti.
Seguì
un periodo di cui non riesco a misurare la lunghezza e durante il
quale non riuscii a fare alcun progresso nella difficile, vertiginosa
esperienza del distacco. Ero tenuta “legata alla terra” dalla mia
implacabile gelosia. Anche se i miei cari avevano rinunciato l'uno
all'altro, non riuscivo a credergli, perché il loro mi sembrava un
amore di una grandezza più che umana. Senza una sentinella eterea
che li tormentasse con spietate paure e terribili ricordi, chi poteva
credere che non avrebbero ceduto? Non avevo dubbi sull'efficacia
della mia sorveglianza, finché potevo decidere di esercitarla,
perché allora ero pervasa da una spaventosa esaltazione provocata da
quel potere che viveva in me. Ripetuti, impalpabili esperimenti mi
avevano insegnato come un tocco o un respiro, un desiderio o un
sospiro, potessero controllare le azioni di Allan, potessero tenerlo
lontano da Theresa. Potevo manifestarmi pallida e fugace come un
pensiero. Potevo influenzare la sua coscienza tremebonda e torturata
semplicemente con un fremito lieve come l'ombra di una foglia appena
aperta. E tutte queste mie incomprese interferenze egli le
interpretava, e sapevo che lo avrebbe fatto, come l'inevitabile
tormento della sua anima. Era arrivato a credere di aver fatto del
male, amando Theresa in silenzio per tutti questi anni, e
lasciarglielo credere, spingerlo a crederci ogni volta da capo, era
la mia vendetta. Sono conscia che questo mio stato d'animo non era
costante. Perché ricordo anche che, quando Allan e Theresa erano
opportunamente separati e sufficientemente infelici, li amavo
teneramente come sempre, forse di più. Perché era impossibile che
non mi rendessi conto, nella mia nuova consapevolezza, che ognuno di
loro era qualcosa di più e di più grande dei due esseri che una
volta mi ero figurati nella mia ignoranza. Per anni, avevano
esercitato una generosità che una volta avrei a malapena potuto
immaginare e che, persino ora, potevo solo ammirare, senza entrare
nel suo mistero. Mentre io avevo vissuto solo per me stessa, queste
due divine creature avevano vissuto squisitamente per me.
Avevano garantito tutto a me, niente a sé stessi. Per il mio immeritevole amore le loro vite erano state solo costante tormento e rinuncia – un tormento che non avevano cercato di alleviare nemmeno scambiandosi un solo sguardo di intesa. C'erano momenti meravigliosi in cui, dalle profondità del mio cuore solo da poco informato, avevo pietà di loro - povere creature, che, privati delle infinite consolazioni che io ero giunta a conoscere, erano ancora completamente relegati dentro la sfera dei sensi. Così fragile, così penosamente concepita per la sofferenza. Nella sfera dei sensi, sì, eppure capaci di esercitare qualità che la trascendevano in modo così sublime. Tuttavia, la timida, esitante compassione che adesso era nata in me non bastava a sconfiggere la precedente e più terrena emozione. Quei due, me ne rendevo conto, si trovavano in un sorta di conflitto, ed io, a ben considerare, capivo che quel conflitto non sarebbe mai finito, che per anni, calcolando il tempo alla maniera di Allan e Theresa, sarei stata costretta a tenermi lontana dai grandi spazi per restare insieme a loro: sofferente, riluttante, umiliata.
Avevano garantito tutto a me, niente a sé stessi. Per il mio immeritevole amore le loro vite erano state solo costante tormento e rinuncia – un tormento che non avevano cercato di alleviare nemmeno scambiandosi un solo sguardo di intesa. C'erano momenti meravigliosi in cui, dalle profondità del mio cuore solo da poco informato, avevo pietà di loro - povere creature, che, privati delle infinite consolazioni che io ero giunta a conoscere, erano ancora completamente relegati dentro la sfera dei sensi. Così fragile, così penosamente concepita per la sofferenza. Nella sfera dei sensi, sì, eppure capaci di esercitare qualità che la trascendevano in modo così sublime. Tuttavia, la timida, esitante compassione che adesso era nata in me non bastava a sconfiggere la precedente e più terrena emozione. Quei due, me ne rendevo conto, si trovavano in un sorta di conflitto, ed io, a ben considerare, capivo che quel conflitto non sarebbe mai finito, che per anni, calcolando il tempo alla maniera di Allan e Theresa, sarei stata costretta a tenermi lontana dai grandi spazi per restare insieme a loro: sofferente, riluttante, umiliata.
Suppongo
che, forse, non sia mai stato spiegato come appaiano i rapporti fra
le creature mortali ad una percezione incorporea come la mia.
Esercitare questa percezione libera dai sensi significa capire che il
dono della profezia, sebbene soggetto di frequente meraviglia, non è
più un mistero. Il più fugace sguardo della nostra visione
sensibile e vigile può scoprire qual'è la forza della relazione tra
due creature, e quindi calcolarne immediatamente la durata. Se vedete
un grosso peso pendere da una corda sottile, potete predire, senza
nessuna stregoneria, che fra pochi secondi la corda si spezzerà;
bene, se accettate l'analogia, la profezia funziona allo stesso modo:
non è altro che previsione. Ed era così che vedevo le cose tra
Theresa e Allan. Perché mi era perfettamente chiaro che avrebbero
avuto ancora per pochissimo tempo la forza di mantenere, così vicini
l'uno all'altro, quello scarno rapporto impersonale in cui loro ed
io, dietro di loro, insistevamo; e che avrebbero dovuto separarsi. Fu
mia sorella, forse la più sensibile, la prima a capirlo. Ora mi era
diventato possibile osservarli quasi costantemente, lo sforzo
necessario a visitarli era diminuito moltissimo; così che io la
guardavo, povera, angosciata ragazza, preparasi a lasciarlo. Vedevo
ognuno dei suoi riluttanti movimenti. Vedevo i suoi occhi, stanchi di
scrutare dentro di sé, sentivo il suo passo intimidito da
inesplicabili paure, entrai nel suo stesso cuore e sentii il suo
penoso, incontrollato battito. Eppure non intervenni.
Perché,
allora, possedevo una meravigliosa, quasi demoniaca capacità di
disporre le cose per soddisfare ogni mia personale volontà. Avrei
potuto fermare le loro sofferenze in ogni momento, avrei potuto
ristabilire la felicità e la pace. Invece, mi dava una gioia
mostruosa, e potrei piangere ad ammetterlo, sapere che Theresa
pensava di lasciare Allan per una sua libera decisione, mentre ero io
che tramavo, escogitavo, insistevo... Eppure, sono sicura che aveva
la desolante percezione della mia presenza accanto a sé. Pochi
giorni prima della data stabilita per la sua partenza, mia sorella
disse ad Allan che doveva parlare con lui dopo cena. La nostra
vecchia, bella casa aveva due ali che partivano da un ingresso
circolare e che terminavano con delle porte ad arco, ed era
attraverso la porta sul retro che d'estate, dopo cena, passavamo nel
giardino adiacente. Come al solito, quando fu il momento, Theresa si
avviò per prima. Lo spaventoso fulgore del giorno, che nel mio
presente stato trovavo così difficile da sopportare, stava ora
incominciando ad addolcire. Una delicata, capricciosa brezza serale
danzava incostante tra il languido sussurrio delle foglie. Graziosi
fiori pallidi spuntavano come piccole lune nel buio, e su di loro si
spargeva l'intenso profumo delle resede. Era un posto perfetto – ed
era stato per tanto tempo nostro, di Allan e mio. Il fatto che quei
due fossero ora lì, insieme, mi rese inquieta e un po' cattiva. Per
un po' passeggiarono, parlando di cose comuni, di tutti i giorni. Poi
improvvisamente Teresa proruppe: “Vado via Allan. Sono rimasta per
sbrigare le cose necessarie. Ora tua madre verrà qui a prendersi
cura di te, ed è tempo che io vada.” Lui si fermò a guardarla.
Theresa era stata lì per tanto tempo che, nella mente di lui,
apparteneva definitivamente a quel luogo. Ed anche io mi ero resa
gelosamente conto che era così bella lì, quella piccola, bruna,
graziosa creatura, nell'antico ingresso, sulle ampie scale, nel
giardino... La vita senza Theresa, perfino quella Theresa che se ne
stava volutamente in disparte, a cui lui aveva rinunciato per sempre
– non l'aveva mai sognata, e non poteva, così all'improvviso,
concepirla. “Siediti qui,” e la tirò giù sulla panchina accanto
a lui, “e dimmi cosa significa, perché vuoi andartene. E' per
qualche cosa che ho... ho fatto?” Lei esitò. Mi chiesi se avrebbe
osato dirglielo. Volse lo sguardo altrove, e lui aspettò a lungo che
parlasse. Le pallide stelle scivolavano silenziose al loro posto. Il
sussurrare delle foglie si era quasi zittito. E ogni cosa intorno a
loro era silenziosa, ombrosa e dolce. Era quel meraviglioso momento
in cui, per l'assenza di un orizzonte visibile, il mondo non ancora
buio sembra infinitamente più grande – il momento in cui tutto può
succedere, a tutto si può credere. Mentre osservavo, ascoltavo e mi
libravo, mi venne una terribile idea ed un terribile coraggio. Se per
un momento, Theresa non solo mi percepisse, ma mi vedesse –
oserebbe ancora parlargliene? Ci fu un breve spazio di terribile
sforzo, tutte le mie instabili, incerte forze si tesero al massimo.
Quell'istante di lotta fu infinitamente lungo e la transizione sembrò
avvenire fuori di me – come uno che siede su di un treno e, senza
muoversi, vede scorrere accanto a sé enormi distanze. E poi, in un
accecante, terribile lampo, seppi di esserci riuscita: avevo ottenuto
la visibilità.
Ero lì, davanti a loro. E per l'istante in cui mantenni lo stato di visibilità guardai dritto nell'anima di Theresa. E allora, da quella cosa fatta di impulsi sciocchi e crudeli che ero, vidi quello che avevo combinato. Avevo precipitato proprio ciò che volevo impedire. Perché Allan, in un empito di terrore e pietà, si era chinato e l'aveva presa tra le sue braccia. Erano insieme per la prima volta, ed ero stata io a spingerli. Allora, a lui che la pregava sottovoce di dirgli il motivo di quell'urlo, Theresa rispose: “Frances era qui, non l'hai vista, ferma sotto i lillà, e non un sorriso sul suo volto?” “Mia cara, mia cara!” fu tutto quello che Alla disse. Ormai avevo vissuto così a lungo con loro in forma invisibile, che Allan sapeva che mia sorella aveva ragione. “Credo che tu sappia cosa significa?” gli chiese, in maniera pacata. “Cara Theresa,” disse Allan, lentamente, “Se tu ed io ce ne andassimo da qualche altra parte, non potremmo sfuggire a tutta questa spettralità? E tu, verresti con me?” “La distanza non la scaccerebbe,” asserì con sicurezza mia sorella. E poi aggiunse, con dolcezza: “Hai mai pensato che essere appena morti deve essere una cosa triste e solitaria? Abbi pietà di lei, Allan. Noi che siamo caldi e vivi, dovremmo avere pietà di lei. Ti ama ancora, - questo è il significato di tutto ciò, lo sai – e lei vuol farci capire che per questo motivo dobbiamo rimanere separati. Oh, era così evidente nel suo volto bianco mentre se ne stava lì. E tu, non l'hai vista?” “Era il tuo volto che guardavo,” le disse Allan solennemente – oh, com'era cambiato dall'Allan che avevo conosciuto! - “e il tuo è l'unico viso che voglia mai vedere.” E di nuovo, l'attrasse a sé. Theresa si allontanò di scatto. “La stai sfidando, Allan!” gridò. “E non devi. E' suo diritto tenerci separati, se lo desidera. Deve essere come vuole lei. Me ne andrò, come ti ho detto. E, te ne prego, Allan, lasciami il coraggio di fare quello che chiede!” Rimasero a guardarsi l'un l'altro nella fitta oscurità, e le ferite che gli avevo inferto si aprivano in squarci rossi e accusatori. “Dobbiamo aver pietà di lei,” Aveva detto Theresa. E mentre ricordavo quello straordinario discorso, e vedevo la disperazione nel suo volto, e una disperazione ancora più grande in quello di Allan, sopraggiunse l'irreparabile frattura fra me e il mondo dei vivi. In una fiammata rapida e clemente l'ultima delle mie emozioni mortali – dovevano essere state meschine e tenaci – si consumò. E ora, la mia fredda presa su Allan si allentò e nel mio cuore fiorì per lui un amore nuovo e spirituale. Adesso, comunque, mi trovavo in una difficoltà che la mia esperienza in questa più recente condizione non era sufficiente ad affrontare. Come potevo far capire ad Allan e Theresa che desideravo riunirli, curare le ferite che avevo inferto? Piena di compassione e rimorso, rimasi con loro tutta quella notte e il giorno successivo. E per allora ero giunta ad una grande determinazione. Nel poco tempo che era rimasto, prima che Theresa se ne andasse e Allan rimanesse solo e desolato, vidi l'unica strada che mi rimaneva per convincerli che avevo accettato il loro destino. Nel momento più buio e silenzioso della notte successiva, feci lo sforzo più grande che avrò mai più bisogno di fare. Quando penseranno a me, Allan e Theresa, prego che si ricordino di quello che feci quella notte e che le mie mille frustrazioni ed egoismi possano appassire e volare via dai loro indulgenti ricordi.
Edgardo Curcio - Figura di donna in giardino, 1915 |
Ero lì, davanti a loro. E per l'istante in cui mantenni lo stato di visibilità guardai dritto nell'anima di Theresa. E allora, da quella cosa fatta di impulsi sciocchi e crudeli che ero, vidi quello che avevo combinato. Avevo precipitato proprio ciò che volevo impedire. Perché Allan, in un empito di terrore e pietà, si era chinato e l'aveva presa tra le sue braccia. Erano insieme per la prima volta, ed ero stata io a spingerli. Allora, a lui che la pregava sottovoce di dirgli il motivo di quell'urlo, Theresa rispose: “Frances era qui, non l'hai vista, ferma sotto i lillà, e non un sorriso sul suo volto?” “Mia cara, mia cara!” fu tutto quello che Alla disse. Ormai avevo vissuto così a lungo con loro in forma invisibile, che Allan sapeva che mia sorella aveva ragione. “Credo che tu sappia cosa significa?” gli chiese, in maniera pacata. “Cara Theresa,” disse Allan, lentamente, “Se tu ed io ce ne andassimo da qualche altra parte, non potremmo sfuggire a tutta questa spettralità? E tu, verresti con me?” “La distanza non la scaccerebbe,” asserì con sicurezza mia sorella. E poi aggiunse, con dolcezza: “Hai mai pensato che essere appena morti deve essere una cosa triste e solitaria? Abbi pietà di lei, Allan. Noi che siamo caldi e vivi, dovremmo avere pietà di lei. Ti ama ancora, - questo è il significato di tutto ciò, lo sai – e lei vuol farci capire che per questo motivo dobbiamo rimanere separati. Oh, era così evidente nel suo volto bianco mentre se ne stava lì. E tu, non l'hai vista?” “Era il tuo volto che guardavo,” le disse Allan solennemente – oh, com'era cambiato dall'Allan che avevo conosciuto! - “e il tuo è l'unico viso che voglia mai vedere.” E di nuovo, l'attrasse a sé. Theresa si allontanò di scatto. “La stai sfidando, Allan!” gridò. “E non devi. E' suo diritto tenerci separati, se lo desidera. Deve essere come vuole lei. Me ne andrò, come ti ho detto. E, te ne prego, Allan, lasciami il coraggio di fare quello che chiede!” Rimasero a guardarsi l'un l'altro nella fitta oscurità, e le ferite che gli avevo inferto si aprivano in squarci rossi e accusatori. “Dobbiamo aver pietà di lei,” Aveva detto Theresa. E mentre ricordavo quello straordinario discorso, e vedevo la disperazione nel suo volto, e una disperazione ancora più grande in quello di Allan, sopraggiunse l'irreparabile frattura fra me e il mondo dei vivi. In una fiammata rapida e clemente l'ultima delle mie emozioni mortali – dovevano essere state meschine e tenaci – si consumò. E ora, la mia fredda presa su Allan si allentò e nel mio cuore fiorì per lui un amore nuovo e spirituale. Adesso, comunque, mi trovavo in una difficoltà che la mia esperienza in questa più recente condizione non era sufficiente ad affrontare. Come potevo far capire ad Allan e Theresa che desideravo riunirli, curare le ferite che avevo inferto? Piena di compassione e rimorso, rimasi con loro tutta quella notte e il giorno successivo. E per allora ero giunta ad una grande determinazione. Nel poco tempo che era rimasto, prima che Theresa se ne andasse e Allan rimanesse solo e desolato, vidi l'unica strada che mi rimaneva per convincerli che avevo accettato il loro destino. Nel momento più buio e silenzioso della notte successiva, feci lo sforzo più grande che avrò mai più bisogno di fare. Quando penseranno a me, Allan e Theresa, prego che si ricordino di quello che feci quella notte e che le mie mille frustrazioni ed egoismi possano appassire e volare via dai loro indulgenti ricordi.
Tuttavia,
il mattino seguente, come aveva progettato, apparve a colazione
vestita per il viaggio. Nella sua stanza al piano superiore si
sentivano i rumori della partenza. Durante il breve pasto parlarono
poco, ma quando finirono Allan disse: “ Theresa, c'è ancora
mezz'ora prima che tu vada. Vuoi venire di sopra con me? Ho fatto un
sogno di cui devo parlarti.” “Allan!” Lo guardò, spaventata,
ma andò con lui. “Hai sognato Frances,” gli disse con calma,
mentre entravano nella biblioteca. “Ho detto che era un sogno?
Invece, ero sveglio, completamente sveglio. Non avevo dormito bene e
per due volte, ho sentito i rintocchi dell'orologio. E, mentre ero a
letto, guardando le stelle e pensando – pensando a te, Theresa, lei
arrivò, era lì davanti a me, nella mia stanza. Non era uno spettro
avvolto nel sudario, capisci, era Frances, proprio lei. In una
maniera alquanto inesplicabile, mi resi conto che voleva farmi capire
qualcosa, e aspettai, fissandola in volto. E pochi momenti dopo, mi
arrivò il suo messaggio. Non parlò, veramente. Cioè, sono sicuro
di non aver sentito alcun suono. Eppure, le parole che provenivano da
lei erano sufficientemente chiare. Disse: “Non permettere a Theresa
di lasciarti. Prendila e tienila con te.” Poi se ne andò. Era solo
un sogno?” “Non avevo intenzione di dirtelo,” rispose
vivacemente Theresa, “ma ora devo. E' così meraviglioso. A che ora
è scoccato il tuo orologio, Allan?” “All'una, l'ultima volta.”
“Sì, è stato allora che mi sono svegliata. E lei era stata da me.
Non l'avevo vista, ma il suo braccio era stato intorno a me e il suo
bacio era impresso sulla mia guancia. Oh, l'ho riconosciuto, era
inconfondibile. E il suono della sua voce era con me.”
“Quindi,
lo ha detto anche a te...”
“Sì,
di stare con te. Sono felice che ce lo siamo detto.”
Sorrise,
commossa, e iniziò ad allacciarsi il soprabito. “Ma non andrai
via – adesso!” gridò Allan. “Sai che non puoi, ora che
ti ha chiesto di restare.” “Allora tu, come me, credi che fosse
lei?” Chiese Theresa. “Non potrò mai capire, ma lo so,” le
rispose. “E ora, non tene andrai?”
Sono
libera. Non ci saranno altre mie apparizioni nella vecchia casa, né
il suono della mia voce, né la più pallida eco della mia vita
terrena. Non hanno più bisogno di me, i due che ho unito. La loro è
la gioia più completa che coloro che abitano la sfera dei sensi
possano conoscere. La mia è la gioia degli spazi invisibili.
FINE
*Nota
biografica
Giornalista,
scrittrice di racconti e biografa, Olivia Howard Dunbar (1873-1953)
fu un'importante figura letteraria nell'ambiente culturale della New
York dei primi del novecento. Nata a Bridgeport, Massacchuset, si
laureò allo Smith College nel 1894, poi lavorò come giornalista per
il New York World fino al 1902, e dedicò il resto della sua
vita a scrivere articoli e racconti per le più importanti riviste
americane. Nel 1914 sposò il poeta Ridgely Torrence, che
fu anche drammaturgo rivoluzionario;
il suo Three Plays for a Negro Theater (1917),
infatti, porta sui palcoscenici di Broadway
un cast di soli attori neri per
la prima volta impegnati in una produzione rispettosa della
cultura degli afroamericani, mentre fino ad allora gli attori di
colore avevano potuto lavorare solo in spettacoli di varietà
(minstrel) basati sullo stereotipo razzista del negro stupido
e pigro.
La
Dunbar fu anche un membro attivo del movimento delle suffragette; in
un numero del 1917 di Everybody's Magazine denunciò “La
grande questione della libertà delle donne” che erano “cittadine
a metà” in quanto prive del diritto di voto. Morì nel 1953, a tre
anni di distanza dal marito.
Tra i molti racconti che scrisse
ci sono storie di fantasmi che esplorano il matrimonio e la vita
delle donne The Shell of Sense apparve nel numero di dicembre del
1908 dell'Harper's.
Nel 1914 “The long Chamber”
sempre per Harper's. Ghost story a sfondo femminista, è
l' indagine psicologica di una donna che ha sacrificato il
proprio genio alla carriera del marito.
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