Testa o croce
Un
altro titolo per questo breve racconto (A
Lodging for the Night,
1877) potrebbe essere Un'avventura
di François
Villon.
Il
protagonista di quest'avventura notturna, in una Parigi trasformata
dalla neve in un paesaggio fantastico e minaccioso, è proprio il
poeta vagabondo
(Parigi,
8 aprile 1431 o
1432 – dopo l'8 gennaio 1463)
autore della famosa Balladedes pendus
(La
ballata degli impiccati, 1462),
dove invoca
pietà per i ladri e gli assassini della
cui consorteria faceva parte a pieno titolo. Laureatosi
in lettere alla Sorbona,
perseguitato dalla miseria, fu spesso coinvolto in furti e risse,
fino ad essere condannato a morte, riuscendo sempre a sfuggire alla
forca. Per Stevenson, Villon rappresenta l'ambiguità dell'essere
umano, capace, allo stesso tempo, di compiere
grandi
bassezze e
creare sublime bellezza, sempre in balia del capriccio del caso.
L'universo
disegnato da Stevenson non è più quello deterministico del
Medioevo, dove a ciascuno veniva assegnato un destino fin dalla
nascita, e nemmeno quello del rinascimento italiano, dove ognuno
poteva essere faber
fortunae sui. E,'
invece, un universo caotico dove regna il caso, testa
o croce,
appunto, come
la misera moneta
che Villon non esita a rubare dal cadavere di una povera prostituta
morta dal freddo, che diventa emblema della bassezza a cui anche una
grande anima può arrivare se spinta dai bisogni più elementari, ma
anche simbolo della precarietà della condizione umana (tema
centrale della famosa Ballade
des dames du temps jadis).
Al
vecchio gentiluomo che gli dà asilo durante
la notte,
e che cercherà, invano, di fare appello alla sua cultura e ai suoi
buoni sentimenti, Villon replica con amaro cinismo “Ma
se io fossi nato signore di Brisetout, e voi foste il povero chierico
François... Non sarei io il soldato e voi il ladro?”
E
in
un mondo ingiusto e diseguale, oggi
come ieri, sembra
che
a dominare le nostre vite sia
ancora il caso,
a
dispetto di tutti i nostri deliri di onnipotenza.
*Anche De Andrè si è ispirato a Villon e ha messo in musica La ballata degli impiccati
*Georges Brassens ha invece messo in musica La ballade des dames du temps jadis
*Una selzione delle poesie più famose di di Villon: Ballate del tempo che se ne andò. Poesie scelte. Testo francese a fronte
Villon François, cur. Mussapi R., 2008, Il Saggiatore
*Un bel fil per riflettere sull'importanza del caso nelle nostre vite solo apparentemente programmate e prevedibili: Match Point di Woody Allen, 2005
Villon François, cur. Mussapi R., 2008, Il Saggiatore
*Un bel fil per riflettere sull'importanza del caso nelle nostre vite solo apparentemente programmate e prevedibili: Match Point di Woody Allen, 2005
Un
tetto per la notte
di
Robert
Louis Stevenson, 1877
Île de la Cité |
Era la fine
di novembre del 1456. La neve cadeva su Parigi con gelida e spietata
pertinacia; a volte il vento faceva le sue sortite e la spargeva
intorno in fugaci mulinelli; a volte c'era bonaccia, e fiocco dopo
fiocco scendeva giù dalla nera aria della notte, silenziosa,
vorticosa, interminabile. Alla povera gente, che guardava al cielo da
sotto le sopracciglia umide, sembrava un mistero da dove potesse
venirne così tanta. Quel pomeriggio, Mastro François Villon aveva
proposto un rompicapo, davanti alla finestra di una taverna: era
soltanto il pagano Giove che spennava oche sull'Olimpo? O erano i
santi angeli che mutavano le penne? Egli era solo un povero maestro di belle lettere, proseguì, e dal momento che il problema toccava in qualche
modo il divino, non osava azzardare una conclusione. Un vecchio prete
matto proveniente da Montagris, che era della combriccola, offrì
alla giovane canaglia una bottiglia di vino in onore alla facezia e
alle smorfie che l'avevano accompagnata, e giurò sulla sua barba
bianca che era stato proprio un altro cagnaccio irriverente quando
aveva l'età di Villon.
L'aria era
aspra e pungente, ma non molto sotto lo zero, e i fiocchi erano
grandi, umidi e appiccicosi. L'intera città intera ne era ricoperta.
Un esercito in marcia avrebbe potuto attraversarla da un capo
all'altro e non un rumore di passi avrebbe dato l'allarme. Se qualche
uccello s'era attardato in cielo, l'isola dovette sembrargli una
grande chiazza bianca, e i ponti delle sottili aste bianche sullo
sfondo nero del fiume. Su in alto la neve si adagiava nei trafori
delle torri della cattedrale. Molte nicchie ne erano ricolme, molte
statue indossavano lunghi cappucci bianchi sulle loro teste
grottesche o sante. Le gargolle erano state trasformate in grossi
nasi posticci, che si piegavano verso la punta. I rampanti
rassomigliavano a cuscini verticali gonfi da un solo lato. Negli
intervalli del vento si udiva un monotono gocciolare intorno al
perimetro della chiesa. Il cimitero di san Giovanni aveva avuto la
sua parte di neve. Tutte le tombe ne erano discretamente coperte, le
alte cime imbiancate dei tetti si ergevano intorno formando una
solenne schiera; i ricchi borghesi erano da tempo a letto,
incappucciati come le loro dimore; in tutto il circondario non c'era
altra luce che la fiammella di una lampada che dondolava nel coro
della chiesa e gettava ombre che andavano avanti e indietro al suo
oscillare. L'orologio segnava a mala pena le dieci quando la ronda di
notte passò con le alabarde e una lanterna, battendo le mani, e non
videro niente di sospetto intorno al cimitero di san Giovanni.
Tuttavia c'era una casupola, appoggiata al muro del cimitero, che era
ancora sveglia, e sveglia con cattivi propositi, mentre intorno tutto
il distretto russava. Non c'era molto che lo tradisse all'esterno,
solo un rivolo di vapore caldo che usciva dal comignolo, una chiazza
sul tetto dove la neve si era sciolta, e delle impronte di piedi, in
parte cancellate, vicino alla porta. Ma dentro, dietro le finestre
chiuse, Mastro François Villon, il poeta, e alcuni della banda di
ladruncoli con cui era in combutta, stavano trascorrendo una notte
animata passandosi la bottiglia. Una grande catasta di tizzoni
ardenti diffondeva un intenso bagliore rossastro dal camino a volta.
Davanti a questo, si era piazzato Dom Nicolas, il monaco della
Picardia, con la sottana tirata su e le sue grasse gambe esposte a
quel calore confortevole. La sua enorme ombra tagliava la stanza a
metà, e la luce del focolare si irradiava solo ai lati della sua
ampia corporatura, e in una piccola pozza in mezzo ai suoi piedi
divaricati.
La sua faccia aveva l'aspetto ebro e livido del bevitore abituale, era ricoperta da un reticolo di vene congestionate, rosso cupo in circostanze ordinarie, ma ora viola pallido, perché, anche con la schiena al caldo, il freddo lo pungeva dall'altra parte. Il suo cappuccio era mezzo caduto all'indietro, e formava una strana escrescenza ai lati del suo collo taurino. Se ne stava così, borbottando, e tagliava la stanza in due con l'ombra della sua imponente corporatura. Alla sua destra, Villon and Guy Tabary erano stretti l'un l'altro su di un pezzo di pergamena; Villon stava scrivendo una ballata che avrebbe chiamato “Ballata del pesce arrosto,” mentre Tabary sputacchiava ammirazione alle sue spalle. Il poeta era uno straccio d'uomo, scuro, piccolo e magro, con le guance scavate e sottili riccioli neri. Portava i suoi ventiquattro anni con febbrile animazione. L'avidità aveva scavato rughe intorno ai suoi occhi, sorrisi maligni avevano increspato la sua bocca. Il lupo e il maiale si combattevano nella sua faccia. Era una fisionomia eloquente, tagliente, brutta, materiale. Le sue mani erano piccole e prensili, con dita nodose come una corda, e si muovevano in continuazione davanti a lui, in una violenta pantomima espressiva.
In quanto a Tabary, una crassa, compiacente, ammirata imbecillità spirava dal suo naso camuso e dalle sue labbra bavose; era diventato un ladro, ma sarebbe potuto diventare altresì il più rispettabile dei borghesi, grazie alla tirannia del caso che domina le vite delle oche e degli asini umani. Dall'altro lato del monaco, Montigny e Thevenin Pensete stavano giocando d'azzardo. Sul primo erano ancora evidenti i segni di una buona nascita ed educazione, come su di un angelo caduto; nella sua persona c'era qualcosa di slanciato, flessuoso e raffinato, qualcosa di rapace e fosco nel volto. Thevenin, povero diavolo, era in gran forma, aveva messo a segno un buon colpo quel pomeriggio nel Faubourg St. Jacques, ed era tutta la notte che continuava a vincere al gioco Thevenin. Un sorriso idiota gli illuminava la faccia, la sua testa pelata, circondata da una ghirlanda di riccioli rossi, aveva riflessi rosati, il suo stomaco appena sporgente sobbalzava al suo sommesso ridacchiare ogni volta che rastrellava una vincita. “Raddoppi o lasci?” disse Thevenin. Montigny fece un torvo cenno di assenso.
La sua faccia aveva l'aspetto ebro e livido del bevitore abituale, era ricoperta da un reticolo di vene congestionate, rosso cupo in circostanze ordinarie, ma ora viola pallido, perché, anche con la schiena al caldo, il freddo lo pungeva dall'altra parte. Il suo cappuccio era mezzo caduto all'indietro, e formava una strana escrescenza ai lati del suo collo taurino. Se ne stava così, borbottando, e tagliava la stanza in due con l'ombra della sua imponente corporatura. Alla sua destra, Villon and Guy Tabary erano stretti l'un l'altro su di un pezzo di pergamena; Villon stava scrivendo una ballata che avrebbe chiamato “Ballata del pesce arrosto,” mentre Tabary sputacchiava ammirazione alle sue spalle. Il poeta era uno straccio d'uomo, scuro, piccolo e magro, con le guance scavate e sottili riccioli neri. Portava i suoi ventiquattro anni con febbrile animazione. L'avidità aveva scavato rughe intorno ai suoi occhi, sorrisi maligni avevano increspato la sua bocca. Il lupo e il maiale si combattevano nella sua faccia. Era una fisionomia eloquente, tagliente, brutta, materiale. Le sue mani erano piccole e prensili, con dita nodose come una corda, e si muovevano in continuazione davanti a lui, in una violenta pantomima espressiva.
In quanto a Tabary, una crassa, compiacente, ammirata imbecillità spirava dal suo naso camuso e dalle sue labbra bavose; era diventato un ladro, ma sarebbe potuto diventare altresì il più rispettabile dei borghesi, grazie alla tirannia del caso che domina le vite delle oche e degli asini umani. Dall'altro lato del monaco, Montigny e Thevenin Pensete stavano giocando d'azzardo. Sul primo erano ancora evidenti i segni di una buona nascita ed educazione, come su di un angelo caduto; nella sua persona c'era qualcosa di slanciato, flessuoso e raffinato, qualcosa di rapace e fosco nel volto. Thevenin, povero diavolo, era in gran forma, aveva messo a segno un buon colpo quel pomeriggio nel Faubourg St. Jacques, ed era tutta la notte che continuava a vincere al gioco Thevenin. Un sorriso idiota gli illuminava la faccia, la sua testa pelata, circondata da una ghirlanda di riccioli rossi, aveva riflessi rosati, il suo stomaco appena sporgente sobbalzava al suo sommesso ridacchiare ogni volta che rastrellava una vincita. “Raddoppi o lasci?” disse Thevenin. Montigny fece un torvo cenno di assenso.
“C'è
chi banchetta in ogni momento,” scriveva Villon, “con pane
e cacio su un piatto d'argento. O, o.... dammi una mano, Guido!”
Tabary ridacchiò. “O con prezzemolo su un piatto d'oro,”
aggiunse il poeta. All'esterno, il vento diventava più freddo e
spingeva la neve davanti a sé lanciando, di tanto in tanto, un
vittorioso grido di guerra che si trasformava in lamenti funerei giù
per il comignolo. Il freddo diventava più tagliente man mano che la
notte avanzava. Villon, sporgendo le labbra, ne imitò le raffiche
emettendo un suono a metà tra il fischio e il lamento. Quel talento
misterioso e raccapricciante del poeta era grandemente detestato dal
monaco della Picardia. “Lo sentite come picchia sul patibolo?”
disse Villon. “Tutti danzando la giga del diavolo per niente,
lassù. Miei cari bellimbusti, danzate pure, non per questo vi
scalderete. Caspita, che colpo! Qualcuno è andato giù proprio
adesso! Una nespola in meno, sul nespolo a tre gambe! Che dite, Dom
Nicolas, farà freddo questa notte sulla strada per St. Denis?”
chiese. Dom Nicolas strizzò gli occhi e sembrò che gli andasse di
traverso il pomo d'Adamo. Montfaucon, la grande, orribile forca di
Parigi, si trovava proprio sulla strada per St. Denis, e quella
facezia lo aveva toccato sul vivo.
In quanto a Tabary, rideva a crepapelle per la battuta delle nespole; non aveva mai sentito niente di più spiritoso, e si teneva i fianchi mentre ragliava. Villon gli propinò un buffetto sul naso, che trasformò le sue risate in un attacco di tosse.
In quanto a Tabary, rideva a crepapelle per la battuta delle nespole; non aveva mai sentito niente di più spiritoso, e si teneva i fianchi mentre ragliava. Villon gli propinò un buffetto sul naso, che trasformò le sue risate in un attacco di tosse.
“Oh,
fatela finita,” disse Villon, “e pensate alle rime con pesce!”
“Raddoppi
o lasci?” ripeté Montigny, caparbiamente.
“Con
tutto il cuore,” rispose Thevenin.
“E'
rimasto qualcosa in quella bottiglia?” chiese il monaco.
“Aprine
un'altra,” disse Villon. “Come puoi mai sperare di riempire
quella grossa botte che è il tuo corpo, con cosucce come le
bottiglie. E come credi di andare in cielo? Quanti angeli, pensi,
debbano essere messi a disposizione per portare su dalla Piccardia un
solo monaco? O pensi di essere un altro Elia, e invieranno il cocchio
apposta per te?”
“...
Hominibus impossibile,” replicò il monaco, mentre si
riempiva il bicchiere.
Tabarry era
in estasi. Villon gli diede un altro buffetto sul naso. “Ridi alle
mie battute, se ti va,” disse. “Ma anche la sua era buona,”
obbiettò Tabary. Villon gli fece una boccaccia. “Pensa alle rime
con pesce,” disse. “Cos'hai a che spartire con il latino,
tu? Desidererai di non averlo mai saputo il giorno del giudizio,
quando il diavolo verrà a prendersi l'anima di Guido Tabary,
chierico, il diavolo con la gobba e gli artigli rossi. Parlando del
diavolo,” aggiunse, sottovoce, “date un'occhiata a Montigny!”
Tutti e tre guardarono di sottecchi il giocatore. Non sembrava
contento di come gli stavano andando le cose. La bocca era
leggermente tirata di lato, una narice era quasi chiusa, un'altra era
dilatata. Aveva il cane nero sulla schiena, come si suol dire, usando
una terrificante metafora per bambini, e respirava affannosamente
sotto quel sinistro fardello.
“Ha tutta
l'aria di volergli dare una coltellata,” mormorò Tabary, con gli
occhi spalancati.
Il monaco
trasalì, si girò e allungò le mani verso i carboni ardenti. Era il
freddo che tormentava Dom Nicolas, non certo un eccesso di
sensibilità morale.
“Forza,”
disse Villon, “torniamo alla ballata. Come va fin qui?” E
battendo il tempo con la mano, la lesse ad alta voce a Tabary. Furono
interrotti alla quarta rima da un rapido e fatale movimento dei
giocatori. Avevano finito il giro, e Thevenin era sul punto di aprire
la bocca per proclamare un'altra vittoria, quando Montigny balzò in
piedi, rapido come una serpe, e lo pugnalò al cuore. Il colpo fece
il suo effetto prima che l'altro potesse emettere un sol grido, prima
che avesse il tempo di muoversi. Un paio di tremori convulsi gli
scossero il corpo, le sue mani si aprirono e si chiusero, i talloni
batterono sul pavimento, poi la sua testa rotolò all'indietro
riversandosi su una spalla, gli occhi spalancati, e lo spirito di
Thevenin Pensete ritornò da Colui che l'aveva creato. Tutti
balzarono in piedi, ma la faccenda si concluse in pochi secondi. I
quattro compari ancora vivi si scambiarono occhiate esterrefatte, il
morto fissava un angolo del soffitto con un'espressione singolare e
terribile.
“Mio
Dio!” disse Tabary, e iniziò a pregare in latino.
Villon
scoppiò in una risata isterica. Avanzò di un passo e si piegò in
un ridicolo inchino a Thevenin, e rise ancora più forte. Poi,
improvvisamente, si sedette, completamente sconvolto, su di uno
sgabello, e continuò a ridere amaramente, come se volesse scuotersi
fino a cadere a pezzi.
Montigny fu
il primo a recuperare la calma. “Vediamo che cosa ha addosso,”
esclamò, e alleggerì le tasche del morto con mano pratica e divise
il denaro in quattro mucchi uguali sul tavolo. “Questo è per voi.”
disse.
Il monaco
ricevette la sua parte con un profondo sospiro, e uno sguardo fugace
al morto, che incominciava a sprofondare su sé stesso e a scivolare
giù dalla sedia. “Ci siamo dentro tutti,” gridò Villon,
inghiottendo la sua allegria. “C'è forca per ogni singola canaglia
che si trova qui dentro – per non parlare di quelli che non ci
sono.” Fece un gesto terrificante alzando in aria la mano destra,
poi tirò fuori la lingua e piegò la testa di lato, per imitare
l'aspetto di un impiccato. Poi intascò la sua parte delle spoglie,
ed eseguì qualche passo di danza come per riavviare la circolazione.
Tabary fu l'ultimo a servirsi, si avvicinò velocemente al danaro e
si ritirò dall'altra parte della stanza. Montigny raddrizzò
Thevenin sulla sedia, tirò via il pugnale e dalla ferita sprizzò
fuori un getto di sangue. “Voialtri fareste bene a muovervi,”
disse, mentre puliva la lama sul farsetto della sua vittima. “Penso
proprio che dovremmo,” approvò Villon, con un singulto.
“Dannazione alla sua grossa testa!” gridò. “Mi si attacca in
gola come il catarro. Che diritto ha un uomo di avere i capelli rossi
quando è morto?” E di nuovo si accasciò sconvolto sullo sgabello,
e si coprì il volto con le mani. Montigny e Dom Nicolas risero
forte, perfino Tabary si unì a loro con una flebile risatina.
“Piangi, bimbo!” disse il monaco. “Ho sempre detto che era una
femminuccia,” aggiunse Montigny, con un ghigno.” “Non puoi
stare seduto dritto, tu?” continuò, dando un altro scossone al
corpo dell'ucciso. “Spegni quel fuoco, Nicolas!” Ma Nicolas
aveva di meglio da fare, stava pian piano sfilando la borsa a Villon,
mentre il poeta sedeva, accasciato e tremante, su quello sgabello
dove tre minuti prima stava componendo una ballata. Montigny e
Tabary reclamarono a cenni una parte del bottino, che il monaco
promise silenziosamente mentre nascondeva la piccola borsa in petto,
sotto la tonaca.
A ben considerare, una natura artistica non si confà ad un'esistenza pratica. Appena il furto fu compiuto, Villon si scosse, saltò in piedi e aiutò a spargere e a spegnere i tizzoni. Nel frattempo Montigny aprì la porta e spiò fuori con circospezione. La strada era vuota, in vista non c'era nessuna pattuglia di ficcanasi. Tuttavia, ritennero più saggio, sgusciare via separatamente, e dal momento che Villon aveva fretta di sfuggire alla vista del morto Thevenin, e che gli altri avevano ancora più premura di liberarsi di lui prima che scoprisse di non avere più il denaro, per generale approvazione, fu il primo ad uscire in strada. Il vento aveva trionfato e aveva spazzato via tutte le nuvole dal cielo. Solo qualche velatura, sottile come il chiaro di luna, veleggiava rapidamente tra le stelle. Era un freddo gelido e, per un banale effetto ottico, le cose sembravano quasi più nitide che in pieno giorno. La città dormiente era completamente ferma: una confraternita di cappucci bianchi, un campo pieno di piccole Alpi, sotto le stelle scintillanti. Villon maledisse la sua fortuna. Avrebbe voluto che nevicasse ancora! Ora, dovunque andasse, era ancora legato alla casa presso il cimitero di san Giovanni; dovunque andasse, intesseva, con i suoi passi pesanti, la corda che lo collegava al crimine e che lo avrebbe consegnato alla forca. L'espressione del morto gli ritornava in mente con un nuovo significato. Schioccò le dita come per darsi uno scossone e, scegliendo una strada a caso, si avviò coraggiosamente nella neve. Due cose lo preoccupavano mentre andava: la prima era la sagoma della forca a Montfaucon in quella parte chiara e ventosa della notte; la seconda era l'immagine del morto e la sua ghirlanda di capelli rossi. Entrambe gli gelavano il cuore, ed iniziò ad accelerare l'andatura, come se potesse sfuggire a quegli spiacevoli pensieri con la semplice velocità del suo passo. A volte si guardava indietro con un improvviso scatto nervoso, ma era lui l'unica cosa a muoversi per le strade bianche, eccetto quando il vento sbucava da dietro un angolo e sparpagliava in sbuffi di polvere scintillante la parte di neve che stava iniziando a gelare. Improvvisamente, vide in lontananza una massa nera e un paio di lanterne. La massa nera era in movimento e le lanterne oscillavano come se portate da uomini in cammino. Era una pattuglia. E sebbene fosse soltanto sulla sua stessa linea di marcia, giudicò più saggio portarsi fuori dalla loro visuale il più velocemente possibile. Non se la sentiva di affrontarli, e si rendeva conto che stava lasciando tracce molto evidenti sulla neve. Proprio sulla sua sinistra c'era un grande edificio, con alcune torrette e un grande portico all'ingresso, si ricordò che era semi diroccato ed era rimasto vuoto a lungo, così fece tre passi in quella direzione e saltò per mettersi al riparo del portico. Lì sotto era buio pesto, dopo lo scintillio delle strade innevate, e stava avanzando a tentoni con le mani tese in avanti, quando inciampò in qualcosa che offriva un indescrivibile miscuglio di resistenze, dure e soffici, sode e molli. Il cuore gli balzò in petto, scattò indietro di due passi e fissò l'ostacolo con raccapriccio. Poi, ebbe una risatina di sollievo. Si trattava solo di una donna. Ed era morta. Le si inginocchiò accanto per accertarsene. Era gelida, e rigida come un bastone. Il vento faceva svolazzare intorno ai suoi capelli i brandelli di una piccola acconciatura cenciosa, e le guance erano state pesantemente imbellettate quello stesso pomeriggio. Le sue tasche erano quasi vuote, ma nelle calze, sotto la giarrettiera, Villon trovò due monetine conosciute con il nome di blanc.
Era
abbastanza poco, ma sempre qualcosa, e il poeta fu preso da un
profondo senso di pietà al pensiero che fosse morta prima di poter
spendere il danaro. Gli sembrò un mistero oscuro e penoso, e girò
lo sguardo dalle monete nella sua mano alla donna morta, e di nuovo
alle monete, scuotendo la testa sul mistero della vita umana. Enrico
V d'Inghilterra, che moriva a Vincennes appena conquistato la
Francia, e quella povera sgualdrina stroncata da una folata di gelo
davanti alla porta di un grande uomo prima di avere avuto il tempo di
spendere le sue due monete, gli sembravano un modo crudele di stare
al mondo. Ci sarebbe voluto così poco tempo per spendere due blanc,
eppure avrebbero significato ancora un buon sapore in bocca, ancore
uno schiocco di labbra, prima che il diavolo si prendesse l'anima, e
il corpo fosse abbandonato agli uccelli ed ai vermi. Quanto a lui,
avrebbe voluto usare tuta la sua cera prima che la fiamma si
spegnesse e la lanterna si rompesse.
A ben considerare, una natura artistica non si confà ad un'esistenza pratica. Appena il furto fu compiuto, Villon si scosse, saltò in piedi e aiutò a spargere e a spegnere i tizzoni. Nel frattempo Montigny aprì la porta e spiò fuori con circospezione. La strada era vuota, in vista non c'era nessuna pattuglia di ficcanasi. Tuttavia, ritennero più saggio, sgusciare via separatamente, e dal momento che Villon aveva fretta di sfuggire alla vista del morto Thevenin, e che gli altri avevano ancora più premura di liberarsi di lui prima che scoprisse di non avere più il denaro, per generale approvazione, fu il primo ad uscire in strada. Il vento aveva trionfato e aveva spazzato via tutte le nuvole dal cielo. Solo qualche velatura, sottile come il chiaro di luna, veleggiava rapidamente tra le stelle. Era un freddo gelido e, per un banale effetto ottico, le cose sembravano quasi più nitide che in pieno giorno. La città dormiente era completamente ferma: una confraternita di cappucci bianchi, un campo pieno di piccole Alpi, sotto le stelle scintillanti. Villon maledisse la sua fortuna. Avrebbe voluto che nevicasse ancora! Ora, dovunque andasse, era ancora legato alla casa presso il cimitero di san Giovanni; dovunque andasse, intesseva, con i suoi passi pesanti, la corda che lo collegava al crimine e che lo avrebbe consegnato alla forca. L'espressione del morto gli ritornava in mente con un nuovo significato. Schioccò le dita come per darsi uno scossone e, scegliendo una strada a caso, si avviò coraggiosamente nella neve. Due cose lo preoccupavano mentre andava: la prima era la sagoma della forca a Montfaucon in quella parte chiara e ventosa della notte; la seconda era l'immagine del morto e la sua ghirlanda di capelli rossi. Entrambe gli gelavano il cuore, ed iniziò ad accelerare l'andatura, come se potesse sfuggire a quegli spiacevoli pensieri con la semplice velocità del suo passo. A volte si guardava indietro con un improvviso scatto nervoso, ma era lui l'unica cosa a muoversi per le strade bianche, eccetto quando il vento sbucava da dietro un angolo e sparpagliava in sbuffi di polvere scintillante la parte di neve che stava iniziando a gelare. Improvvisamente, vide in lontananza una massa nera e un paio di lanterne. La massa nera era in movimento e le lanterne oscillavano come se portate da uomini in cammino. Era una pattuglia. E sebbene fosse soltanto sulla sua stessa linea di marcia, giudicò più saggio portarsi fuori dalla loro visuale il più velocemente possibile. Non se la sentiva di affrontarli, e si rendeva conto che stava lasciando tracce molto evidenti sulla neve. Proprio sulla sua sinistra c'era un grande edificio, con alcune torrette e un grande portico all'ingresso, si ricordò che era semi diroccato ed era rimasto vuoto a lungo, così fece tre passi in quella direzione e saltò per mettersi al riparo del portico. Lì sotto era buio pesto, dopo lo scintillio delle strade innevate, e stava avanzando a tentoni con le mani tese in avanti, quando inciampò in qualcosa che offriva un indescrivibile miscuglio di resistenze, dure e soffici, sode e molli. Il cuore gli balzò in petto, scattò indietro di due passi e fissò l'ostacolo con raccapriccio. Poi, ebbe una risatina di sollievo. Si trattava solo di una donna. Ed era morta. Le si inginocchiò accanto per accertarsene. Era gelida, e rigida come un bastone. Il vento faceva svolazzare intorno ai suoi capelli i brandelli di una piccola acconciatura cenciosa, e le guance erano state pesantemente imbellettate quello stesso pomeriggio. Le sue tasche erano quasi vuote, ma nelle calze, sotto la giarrettiera, Villon trovò due monetine conosciute con il nome di blanc.
Stufa – miniatura da Valerio Massimo – XV secolo |
Mentre gli
passavano quei pensieri per la mente, si frugava addosso
meccanicamente, in cerca della sua borsa. Improvvisamente il suo
cuore cessò di battere, era come se dei cristalli di ghiaccio gli
salissero su da dietro le gambe, e un colpo glaciale gli cadesse
sulla testa. Rimase pietrificato per un attimo, poi, con un movimento
febbrile, si frugò di nuovo, infine realizzò la sua perdita, e
all'improvviso si coprì di sudore. Per gli scialacquatori il danaro
è una cosa viva e reale – è un sottile velo tra loro e i loro
piaceri! C'è un solo limite alla loro ricchezza – quello del
tempo, e uno scialacquatore con sole poche corone è l'imperatore di
Roma finché non le ha spese. Per una tale persona perdere il proprio
denaro è il più tremendo dei rovesci, è cadere dal cielo
all'inferno, da tutto a niente, in un soffio. E maggiormente se ha
messo la testa nel cappio per averlo, se può essere impiccato domani
per quella stessa borsa, guadagnata a così caro prezzo, così
scioccamente persa! Villon si alzò in piedi e bestemmiò, gettò i
due blanc nella strada, alzò il pugno al cielo, batté i piedi, e
non fu per niente scosso quando si rese conto che stava calpestando
quel povero corpo. Quindi iniziò a ripercorrere rapidamente i suoi
passi verso la casa presso il cimitero. Aveva dimenticato ogni paura
della pattuglia, che, ad ogni modo, era andata via da tempo, e non
aveva altro pensiero se non quello della sua borsa smarrita. Invano,
guardò a destra e a sinistra nella neve, non si vedeva niente. Non
l'aveva persa per strada. Gli era caduta nella casa? Avrebbe
ardentemente voluto andare a vedere, ma l'idea di quel terrificante
inquilino lo scoraggiò. E inoltre, mentre si avvicinava, si accorse
che i loro sforzi per spegnere il fuoco non avevano avuto successo,
al contrario, lo avevano ravvivato, e attraverso le fessure della
porta e della finestra si vedeva la sua luce fluttuante che riaccese
il suo terrore per le autorità di Parigi e per la forca. Ritornò
all'edificio con il portico, e cercò a tentoni nella neve le monete
che aveva gettato via nella sua rabbia infantile. Ma riuscì a
trovarne solo una, l'altra si era probabilmente messa di taglio ed
era sprofondata. Con una sola moneta in tasca, tutti i suoi progetti
per una notte di baldoria in qualche taverna malfamata erano
improvvisamente svaniti. E non era solo il piacere che gli sfuggiva
di mano sghignazzando; un totale sconforto, una tangibile paura lo
assalirono, mentre se ne stava costernato davanti al portico. Il
sudore gli si era asciugato addosso, e sebbene il vento adesso fosse
cessato, un gelo avvolgente stava prendendo piede sempre di più, si
sentiva intirizzito e amareggiato. Cosa doveva fare? Nonostante l'ora
tarda, e le poche probabilità di successo, decise di provare la casa
del suo padre adottivo, il cappellano di St. Benoit. Fece tutta la
strada di corsa, e bussò timidamente. Non ebbe nessuna risposta.
Continuò a bussare, prendendo coraggio ad ogni colpo, alla fine, si
udirono dei passi avvicinarsi dall'interno. Nella porta borchiata si
aprì un finestrino protetto da sbarre, da cui uscì un fascio di
luce gialla.
“Mostrate
la faccia nel finestrino,” disse il cappellano dall'interno.
“Sono
solo io,” mugolò Villon.
“Oh, sei
solo tu, davvero?” rispose il cappellano, e lo maledì con atroci
bestemmie, poco pretesche, per averlo disturbato ad una tale ora e
gli ordinò di andare all'inferno, da dove proveniva.
“Ho le
mani blu fino ai polsi,” lo supplicò Villon, “Ho i piedi
congelati e doloranti, il naso mi fa male a causa dell'aria
tagliente, sono completamente intirizzito. Potrei essere morto prima
di domani. Solo per questa volta, padre e, lo giuro su Dio, non ti
disturberò mai più!”
“Avresti
dovuto venire prima,” disse l'ecclesiastico, freddamente. “Voi
giovanotti avete bisogno di una lezione, ogni tanto.” Chiuse il
finestrino e si ritirò lentamente all'interno dell'edificio. Villon
era fuori di sé, batté sulla porta con le mani e i piedi, gli
gridò dietro fino a perdere la voce.
“Vecchia
canaglia!” urlò. “Se potessi prenderti per il collo, ti farei
volare a testa in giù nel pozzo senza fondo.”
Dall'interno,
giunse al poeta il flebile rumore di una porta che si chiudeva in
fondo ai lunghi corridoi. Si passò una mano sulla bocca con una
bestemmia. Poi fu colpito dal lato comico della situazione, scoppiò
a ridere, e alzò leggermente gli occhi al cielo, dove le stelle
sembravano scintillare sulla sua sconfitta.
Cosa fare?
Aveva tutto l'aspetto di una notte da trascorrere nel freddo delle
strade. L'immagine della donna morta gli si affacciò alla mente, e
gli diede una stretta al cuore; quello che era successo a lei nelle
prime ore della notte, poteva benissimo succedere a lui prima che
facesse giorno. Ed era così giovane! E con tali immense occasioni di
sfrenato divertimento davanti a lui! L'idea del destino che lo
attendeva lo fece commuovere, come se fosse quello di qualcun altro,
e immaginò la scena di quando, al mattino, avrebbero trovato il suo
corpo. Passò in rivista tutte le sue possibilità, rigirando la
moneta tra il pollice e l'indice. Sfortunatamente, era in cattivi
rapporti con alcuni vecchi amici che in passato avevano avuto pietà
di lui in simili frangenti. Li aveva sbeffeggiati nei suoi versi, li
aveva picchiati e imbrogliati, eppure ora che si trovava in una
emergenza così stringente, pensò che ce ne doveva essere almeno uno
che, forse, si sarebbe intenerito. Era una possibilità. Valeva
almeno la pena di tentare, e sarebbe andato a vedere.
Per strada,
accaddero due piccoli incidenti che colorarono i suoi pensieri con
toni contrastanti. Infatti, per primo, si imbatté nelle tracce di
una pattuglia, e ci camminò dentro per qualche centinaio di metri,
sebbene andassero in una direzione diversa. E questo gli diede
coraggio, almeno era riuscito a confondere le sue tracce, perché era
ancora assillato dall'idea che stessero seguendo i suoi passi nella
neve per tutta Parigi, e che lo avrebbero acciuffato il mattino
successivo quando era ancora addormentato. L'altra faccenda influì
su di lui in modo del tutto differente. Attraversò un angolo di
strada dove, non tanto tempo prima, una donna e il suo bambino erano
stati divorati dai lupi. E quello, rifletté, era proprio il tempo
in cui i lupi potevano mettersi in testa di entrare di nuovo a
Parigi, ed un uomo solo, in quelle strade deserte, avrebbe corso il
rischio di essere assalito da qualcosa di gran lunga più
pericoloso della semplice paura. Si fermò a osservare il posto con
un cupo interesse – era il centro di intersezione di molte strade
e le scrutò tutte da cima a fondo, una dopo l'altra, trattenendo il
respiro, per paura di scoprire delle sagome nere correre sulla neve o
udire un suono di ululati tra lui e il fiume. Ricordò sua madre che
gli raccontava la storia e gli indicava il posto, quando era ancora
un bambino. Sua madre! Se solo avesse saputo dove viveva, avrebbe
almeno potuto assicurarsi un tetto. Decise che avrebbe cercato sue
notizie il giorno seguente, sì, sarebbe anche andato a trovarla,
quella povera vecchia! Tutto preso in quei pensieri, arrivò a
destinazione – la sua ultima speranza per quella notte. La casa era
completamente al buio, come tutto il vicinato; tuttavia, dopo un
breve bussare sentì un movimento in alto, una porta che si apriva, e
una voce sospettosa che chiedeva chi era alla porta. Il poeta disse
il suo nome a voce bassa, ma udibile, e aspettò l'esito, non senza
una certa trepidazione. Non dovette attendere a lungo.
Improvvisamente, si aprì una finestra, e un secchio di acqua sporca
fu rovesciato sulla soglia di casa.
Villon non era del tutto impreparato a qualcosa del genere, e si era messo al riparo, per quanto lo permettesse l'ampiezza del portico, ma, nonostante tutto, si era malauguratamente bagnato fin sotto la cintola. Le sue calze iniziarono a gelare quasi subito. Davanti a lui c'era la morte al freddo e all'addiaccio; ricordò di essere di natura tisica, e iniziò a tossire per controllare. Ma la gravità del pericolo diede forza ai suoi nervi. Si allontanò di qualche centinaio di metri da quella porta dove era stato trattato in modo così rozzo, e si fermò a riflettere con un dito sul naso. Riusciva a vedere un solo modo di procurarsi un tetto per la notte, ed era quello di appropriarsene. Aveva notato una casa non molto lontano da lì, dove sembrava facile penetrare furtivamente, e vi si recò immediatamente. Per strada si trastullò con l'idea di una stanza ancora calda, una tavola ancora carica degli avanzi della cena, dove poter passare il resto della notte, e da dove sgattaiolare, al mattino, con le braccia cariche di piatti di valore. Iniziò perfino a esaminare le vivande e i vini che prediligeva, e mentre scorreva la lista delle sue ghiottonerie preferite, il pesce arrosto gli si presentò alla mente con uno strano miscuglio di divertimento e orrore. “Non finirò mai quella ballata,” pensò tra sé, e poi, rabbrividendo ancora una volta a quel ricordo, “Oh, dannazione alla sua grossa testa!” ripeté, con fervore, e sputò sulla neve. A prima vista, la casa in questione sembrava buia, ma mentre Villon stava compiendo un'ispezione preliminare alla ricerca del punto più adatto da attaccare, i suoi occhi furono attratti dal debole luccichio di una luce dietro le tende di una finestra. “Diavolo!” pensò. “Ci sono persone ancora sveglie! Qualche studente o qualche santo, maledetti! Non potrebbero ubriacarsi e russare nei propri letti come i loro vicini? A che servono il coprifuoco, e quei poveri diavoli di campanari che saltano attaccati ad una corda nei campanili? A che serve il giorno, se la gente sta in piedi di notte? Che li colga il malanno!” Ghignò quando capì dove lo stava conducendo la sua logica. “A ciascuno il suo mestiere, dopo tutto,” aggiunse, “e se sono svegli, per Dio, una volta tanto mi guadagnerò la cena onestamente, e la farò in barba al diavolo.”
"Gardy loo" (De Damno per Ejecta, 1554) |
Villon non era del tutto impreparato a qualcosa del genere, e si era messo al riparo, per quanto lo permettesse l'ampiezza del portico, ma, nonostante tutto, si era malauguratamente bagnato fin sotto la cintola. Le sue calze iniziarono a gelare quasi subito. Davanti a lui c'era la morte al freddo e all'addiaccio; ricordò di essere di natura tisica, e iniziò a tossire per controllare. Ma la gravità del pericolo diede forza ai suoi nervi. Si allontanò di qualche centinaio di metri da quella porta dove era stato trattato in modo così rozzo, e si fermò a riflettere con un dito sul naso. Riusciva a vedere un solo modo di procurarsi un tetto per la notte, ed era quello di appropriarsene. Aveva notato una casa non molto lontano da lì, dove sembrava facile penetrare furtivamente, e vi si recò immediatamente. Per strada si trastullò con l'idea di una stanza ancora calda, una tavola ancora carica degli avanzi della cena, dove poter passare il resto della notte, e da dove sgattaiolare, al mattino, con le braccia cariche di piatti di valore. Iniziò perfino a esaminare le vivande e i vini che prediligeva, e mentre scorreva la lista delle sue ghiottonerie preferite, il pesce arrosto gli si presentò alla mente con uno strano miscuglio di divertimento e orrore. “Non finirò mai quella ballata,” pensò tra sé, e poi, rabbrividendo ancora una volta a quel ricordo, “Oh, dannazione alla sua grossa testa!” ripeté, con fervore, e sputò sulla neve. A prima vista, la casa in questione sembrava buia, ma mentre Villon stava compiendo un'ispezione preliminare alla ricerca del punto più adatto da attaccare, i suoi occhi furono attratti dal debole luccichio di una luce dietro le tende di una finestra. “Diavolo!” pensò. “Ci sono persone ancora sveglie! Qualche studente o qualche santo, maledetti! Non potrebbero ubriacarsi e russare nei propri letti come i loro vicini? A che servono il coprifuoco, e quei poveri diavoli di campanari che saltano attaccati ad una corda nei campanili? A che serve il giorno, se la gente sta in piedi di notte? Che li colga il malanno!” Ghignò quando capì dove lo stava conducendo la sua logica. “A ciascuno il suo mestiere, dopo tutto,” aggiunse, “e se sono svegli, per Dio, una volta tanto mi guadagnerò la cena onestamente, e la farò in barba al diavolo.”
Avanzò
coraggiosamente verso la porta e bussò con mano sicura. Le due volte
precedenti, aveva bussato timidamente e con un certo timore di
attirare l'attenzione, ma ora che aveva appena scartato l'idea di
un'entrata furtiva, bussare alla porta gli sembrò un modo di
procedere estremamente semplice ed innocente. Il suono dei suoi colpi
echeggiò attraverso la casa con leggeri riverberi spettrali, come se
fosse vuota, ma questi si erano appena spenti, quando un passo
cadenzato si avvicinò, un paio ci chiavistelli furono tirati, e un
battente della porta fu spalancato, come se gli abitanti della casa
ignorassero ogni inganno o la paura di essere ingannati. Villon si
trovò di fronte un uomo di alta statura, muscoloso e magro, sebbene
un po' curvo. La testa era massiccia, ma finemente cesellata, il naso
era schiacciato alla punta, ma affinato alla radice dove si
congiungeva ad un paio di forti e oneste sopracciglia, la bocca e gli
occhi erano circondati da delicate rughe, e l'intera faccia era
caratterizzata da una folta barba bianca, dal taglio ardito e
squadrato. Visto alla luce incerta della piccola lampada, sembrava
forse più nobile di quanto lo fosse in realtà, ma era comunque un
bel volto, onesto più che intelligente, forte, semplice e dabbene.
“Bussate ad ora tarda, messere,” disse il vecchio, con tono
altisonante e cortese. Villon si inchinò, e si profuse in umili
scuse, in un tale frangente, il mendicante ebbe la meglio in lui, e
l'uomo di genio nascose la testa per la vergogna.
“Avete
freddo,” ripeté il vecchio, “e siete affamato? Ebbene, entrate.”
E gli fece cenno di entrare in casa con un gesto sufficientemente
nobile. “Un qualche grande signore,” pensò Villon, mentre il suo
ospite, dopo ave appoggiato la lampada sul lastricato dell'ingresso,
rimise i chiavistelli al loro posto.
“Mi
perdonerete se vi precedo,” disse, così facendo, e condusse il
poeta al piano superiore in un'ampia sala, riscaldata da un braciere
e illuminata da una grande lampada appesa al soffitto. Il mobilio era
scarso, solo qualche stoviglia d'oro su una credenza, alcuni volumi
in folio, e un'armatura su un cavalletto tra le finestre. Alle pareti
erano appesi degli arazzi eleganti, dei quali uno rappresentava la
crocifissione di nostro Signore, un altro una scena di pastori e
pastorelle lungo il corso di un fiume. Sul caminetto c'era una
panoplia di armi.
“Volete
accomodarvi” disse il vecchio, “e scusarmi se vi lascio? Sono
solo in casa questa notte, e se volete mangiare, devo provvedere a
voi personalmente.”
Non appena
il suo ospite se ne fu andato, Villon saltò su dalla sedia su cui si
era appena seduto e iniziò ad osservare la stanza con la
circospezione e l'avidità di un gatto. Soppesò tra le mani le coppe
d'oro, aprì tutti i libri, analizzò le armi sul caminetto, e la
stoffa con cui erano tappezzate le sedie. Sollevò le tende e vide
che la finestra era adornata da ricchi vetri colorati con immagini,
per quello che poté vedere, di carattere marziale. Poi, si fermò in
mezzo alla stanza, tirò un lungo respiro, lo trattenne gonfiando
le guance e si guardò intorno, rigirandosi sui tacchi, come per
imprimersi in mente ogni dettaglio della stanza.
“Solo
sette pezzi di vasellame,” disse. “Se fossero stati dieci, avrei
corso il rischio. Una bella casa, e un vecchio padrone di buon
cuore, che i santi mi aiutino!” Proprio in quel momento, sentendo
i passi del vecchio che ritornava lungo il corridoio, corse a sedersi
sulla sedia, e con fare sottomesso, iniziò ad abbrustolirsi le gambe
bagnate al fuoco del braciere. Il suo anfitrione aveva un piatto di
carne in una mano e una brocca di vino nell'altra. Mise il piatto
sulla tavola, facendo cenno a Villon di accostare la sedia, andò
alla credenza e ritornò con due coppe che riempì.
“Bevo a
che la sorte vi arrida,” disse solennemente, toccando la coppa di
Villon con la sua.
“Ad una
nostra più approfondita conoscenza,” disse il poeta, facendosi
audace. Un semplice uomo del popolo sarebbe stato intimorito dalla
cortesia del vecchio gentiluomo, ma Villon era a suo agio in quelle
situazioni, aveva tenuto allegra compagnia a grandi signori prima di
allora, e aveva scoperto che erano delle bieche canaglie al suo pari.
E così si dedicò al cibo con gusto famelico, mentre il vecchio,
appoggiandosi all'indietro, lo fissava con occhi curiosi.
“Avete
del sangue sulla spalla, ragazzo mio,” disse. Montigny doveva
avergli appoggiato addosso la mano destra insanguinata mentre
usciva di casa. In cuor suo, maledisse Montigny.
“Non è
mio,” mormorò.
“Non lo
pensavo,” rispose tranquillamente il suo ospite. “Una rissa?”
“Beh,
qualcosa del genere,” ammise Villon, rabbrividendo.
“Forse un
amico assassinato?”
“Oh, no,
non assassinato,” disse il poeta, sempre più confuso. “E' stato
un gioco leale – ucciso per caso. Io non vi ho preso parte, che Dio
mi fulmini!” aggiunse con calore.
“Un
farabutto di meno, se mi è consentito,” osservò il padrone di
casa.
“Potete
ben dire,” concordò Villon, infinitamente sollevato. “Il più
grosso farabutto tra qui e Gerusalemme. Ha steso le gambe come un
agnellino. Ma è stato un gran brutto spettacolo. Ho l'impressione
che voi ne abbiate visto di uomini morti in gioventù, mio signore,”
aggiunse, dando un'occhiata all'armatura.
“Molti,”
disse il vecchio. “Ho combattuto in molte guerre, come potete
immaginare.” Villon posò forchetta e coltello, che aveva appena
ripreso.
“Ce
n'erano di calvi?” chiese.
“Oh, sì,
e anche con i capelli bianchi come i miei.”
“Non
penso che dovrei preoccuparmi tanto di quelli bianchi,” disse
Villon. “I suoi erano rossi.” E fu di nuovo preso da brividi e
dalla tentazione di ridere, che affogò con un gran sorso di vino.
“Sono alquanto turbato quando ci penso,” continuò. “Lo
conoscevo – dannazione a lui! E poi il freddo ti fa venire delle
strane idee, o forse sono le strane idee che ti fanno venir freddo.
Non so quale delle due.”
“Avete
del danaro?” chiese il vecchio.
“Ho solo
un blanc,” replicò il poeta, ridendo. “L'ho tolto dalle calze di
una prostituta morta sotto un portico. Era mota come Cesare, povera
sgualdrina, e fredda come una chiesa, con un pezzo di nastro che le
usciva dai capelli. E' un inverno duro per i lupi, le sgualdrine e i
farabutti come me.”
“Io,”
disse il vecchio, “sono Enguerrand de la Feuillee, signore di
Brisetout, balivo di Patatrac. Chi e che cosa siate voi?”
Villon si
alzò e fece un'appropriata reverenza, “Mi chiamo François
Villon,” disse, “un povero maestro d'arti di questa università.
Conosco un po' di latino, e tanti vizi. Posso comporre canzoni,
ballate, lai, virelai, rondeau, e amo il vino. Sono nato in una
soffitta, e non è improbabile che muoia sulla forca. Potrei
aggiungere, mio signore, che da questa notte in poi sono il servo
umilissimo di vostra signoria, ai vostri ordini.”
“Non
servo mio,” disse il cavaliere. “Mio ospite per questa sera, e
non altro.”
“Un
ospite molto riconoscente,” disse Villon, educatamente, facendo un
brindisi muto al suo anfitrione.
“Siete
scaltro,” iniziò a dire il vecchio, toccandosi la fronte, “molto
scaltro, siete istruito, siete un chierico, eppure rubate una misera
moneta ad una donna morta per strada. Non è una forma di furto?”
“E' una
forma di furto molto praticata nelle guerre, mio signore.”
“Le
guerre sono il campo dell'onore,” rispose il vecchio, con orgoglio.
“Là un uomo mette in gioco la sua vita, combatte in nome del suo
re, del suo signore Iddio, e delle signorie dei santi e degli
angeli.”
”Supponete,”
disse Villon, “che io sia veramente un ladro, non metterei anche io
in gioco la mia vita, e con rischi ancora maggiori?”
“Per
guadagno, ma non per onore.”
“Guadagno?”
ripeté Villon, con un brivido. “Guadagno! Il povero diavolo vuole
mangiare, e lo prende. Così fa il soldato durante una campagna.
Infatti, che cosa sono tutte queste requisizioni di cui si sente
tanto parlare? Se non sono un guadagno per quelli che requisiscono,
sono sicuramente una perdita per gli altri. Gli uomini d'armi bevono
davanti ad un bel fuoco, mentre il borghese si morde le unghie per
comprargli vino e legna. Ho visto molti poveri contadini dondolare
dagli alberi in tutto il paese, sì, ne ho visti trenta su un solo
olmo, ed era un ben triste spettacolo, e quando ho chiesto come mai
fossero stati impiccati, mi fu risposto che era perché tutti insieme
non erano riusciti a racimolare abbastanza denaro per soddisfare gli
uomini d'armi.”
“Queste
sono le necessità della guerra, che la gente di bassa nascita deve
sopportare con pazienza. E' vero che alcuni capitani che si spingono
troppo oltre, in ogni ambito della società ci sono spiriti
difficilmente mossi dalla pietà, e in verità molti di quelli che
abbracciano il mestiere delle armi non sono migliori dei briganti.”
“Vedete,”
disse il poeta, “non riuscite a distinguere il soldato dal
brigante, e che cos'è un ladro se non un brigante solitario dai modi
circospetti? Io rubo un paio di costolette di montone, senza
disturbare più di tanto la gente che dorme, il contadino brontola un
po', ma non di meno cena adeguatamente con ciò che rimane. Voi
arrivate suonando gloriosamente la tromba, vi prendete tutta la
pecora, e per di più picchiate il contadino senza pietà. Io sono
solo Tom, Dick, o Harry; sono un furfante e un bastardo, e la forca è
fin troppo giusta per me – sinceramente, ma chiedete al contadino
chi di noi preferisce, indovinate chi di noi rimane sveglio a
maledire nelle notti fredde.”
“Guardate
noi due,” disse sua signoria. “Io sono vecchio, forte e
rispettato. Se domani dovessi essere cacciato via dalla mia casa, in
centinaia sarebbero orgogliosi di ospitarmi. La povera gente
uscirebbe di casa e trascorrerebbe la notte in strada con i figli, se
solamente facessi intendere di voler restare solo. E trovo voi, che
vagate senza una casa, e rubate centesimi ad una donna morta sul
ciglio della strada! Io non temo né gli uomini né altro, e ho visto
voi tremare e perdervi di coraggio ad una sola parola. Io attendo la
chiamata di Dio serenamente nella mia casa, o sui campi di battaglia,
se il mio re si compiacesse di richiamarmi. Voi siete destinato alla
forca, una morte violenta e rapida, senza speranza né onore. Non c'è
alcuna differenza tra noi due?”
“Come da
qui alla luna,” acconsentì Villon. “Ma se io fossi nato signore
di Brisetout, e voi foste il povero chierico François, la
differenza sarebbe forse inferiore? Non sarei io il soldato e voi il
ladro?” “Un ladro?” gridò il vecchio. “Io un ladro! Se
capiste ciò che dite, ve ne pentireste.” Villon allargò le
braccia in un gesto di inimitabile impudenza. “Se sua signoria mi
avesse fatto l'onore di seguire il mio ragionamento!” disse. “Vi
faccio fin troppo onore tollerando la vostra presenza,” disse il
cavaliere. “Imparate a trattenere la lingua quando parlate con
uomini vecchi e d'onore come me, o qualcuno meno paziente di me
potrebbe farvi un rimprovero più tagliente del mio.” Si alzò e
prese a camminare nella parte opposta della sala con rabbia e
risentimento.
Villon
tornò a riempirsi il bicchiere di nascosto, e si sedette più
comodamente nella sedia, accavallando le gambe e appoggiando la testa
su una mano e il gomito sulla spalliera della sedia. Ora si sentiva
sazio e si era riscaldato, e non era affatto intimorito dal suo
ospite, se non aveva sbagliato a giudicarlo, visto le differenti
personalità. La notte era quasi trascorsa, e in maniera molto
piacevole, dopo tutto, e si sentiva moralmente certo di una partenza
senza rischi l'indomani mattina. “Ditemi una cosa,” disse il
vecchio, smettendo di camminare. “Siete veramente un ladro?”
“Mi
appello ai sacri diritti dell'ospite,” replicò il poeta. “Mio
signore, lo sono.”
“Siete
molto giovane,” continuò il cavaliere.
“Non
sarei mai arrivato a questa età,” rispose Villon, mostrando le sue
dita, “se non mi fossi aiutato con questi dieci talenti. Mi hanno
dato da bere e da mangiare.”
“Potete
ancora pentirvi e cambiare.”
“Mi pento
quotidianamente,” disse il poeta. “Ci sono poche persone più
inclini al pentimento del povero François. In quanto al cambiamento,
sono le mie condizioni che dovrebbero essere cambiate. Un uomo deve
continuare a mangiare, non fosse altro che per poter continuare a
pentirsi.”
“Il
cambiamento deve iniziare dal cuore,” replicò il vecchio,
solennemente.
“Mio caro
signore,” rispose Villon, “pensate davvero che io rubi per
piacere? Odio rubare, come ogni altro genere di lavoro o di pericolo.
Mi battono i denti quando vedo la forca. Ma devo mangiare, devo bere,
devo far parte di una qualche consorteria. Che diavolo! L'uomo non è
un animale solitario - _cui Deus foeminam tradit_. Nominatemi
dispensiere del re, nominatemi abate di St. Denis, nominatemi balivo
di Patatrac, e allora sì che mi avrete cambiato. Ma fino a che sarò
il povero chierico François Villon, senza un centesimo, allora,
naturalmente, rimango quel che sono.
“La
grazia di Dio è onnipotente.”
“Dovrei
essere un eretico per metterlo in dubbio,” disse François. “Vi
ha fatto signore di Bisetout e balivo di Patatrac, a me non ha dato
altro che una mente sveglia sotto il cappello e queste dieci dita
sulle mani. Posso versarmi altro vino? Vi ringrazio rispettosamente.
Per la grazia di Dio, avete un vino davvero eccellente.” Il signore
di Brisetout riprese a camminare avanti e indietro con le mani dietro
la schiena. Forse la sua mente non aveva del tutto accettato il
paragone tra i ladri e i soldati, forse Villon gli aveva ispirato una
qualche simpatia, forse la sua mente era semplicemente confusa da
ragionamenti così inconsueti, ma qualunque fosse la causa,
desiderava ardentemente convertire il giovane a migliori sentimenti,
e non riusciva a decidersi a rispedirlo di nuovo sulla strada.
“In tutto
ciò c'è qualcosa che va oltre la mia comprensione,” disse dopo un
po'. “La vostra bocca è piena di ragionamenti sottili, e il
diavolo vi ha fatto avanzare di molto sulla cattiva strada, ma il
diavolo è solo uno spirito molto debole davanti alla verità di Dio,
e tutte le sue sottigliezza svaniscono di fronte ad una sola parola
del vero onore, come le tenebre al mattino. Ascoltatemi ancora una
volta. Molto tempo fa imparai che un gentiluomo dovrebbe vivere per
servire cavallerescamente e amorevolmente Dio, il re e la sua dama, e
sebbene abbia visto accadere molte cose strane, mi sono sempre
sforzato di regolare la mia vita secondo quel precetto. Non è
semplicemente scritto in molte nobili storie, ma nel cuore di ogni
uomo, purché si abbia cura di leggervi. Perché cose come l'onore e
l'amore e la fede non sono solo più nobili del mangiare e del bere,
ma sono convinto che le desideriamo maggiormente e soffriamo più
acutamente per la loro assenza. Vi parlo in modo che mi possiate
capire più facilmente. Mentre avete cura di riempirvi la pancia, non
state forse trascurando un altro appetito nel vostro cuore, che
rovina ogni altro piacere e vi rende continuamente infelice?”
Villon era visibilmente esasperato da tutto quel sermoneggiare.
“Pensate che io non abbia alcun senso dell'onore!” gridò. “Sono
molto povero, Dio lo sa! E' duro vedere i ricchi con i loro guanti,
mentre tu ti soffi le mani. Una pancia vuota è una cosa molto amara,
anche se voi ne parlate così alla leggera. Se vi fosse successo
spesso come a me, forse cambiereste tono. Comunque, io sono un ladro,
- che vi piaccia o no, - ma non sono un diavolo dell'inferno, che Dio
mi fulmini! Vorrei farvi capire che io ho il mio onore, buono come il
vostro, sebbene non vada a farne mostra tutto il giorno, come se
averne uno fosse un miracolo di Dio. A me sembra del tutto naturale,
e lo tengo da parte finché non mi serve. Infine, vediamo, quanto
tempo siete stato in questa stanza con me? Non mi avete detto di
essere solo in casa? Guardate il vostro vasellame d'oro! Siete forte,
ve lo concedo, ma vecchio e disarmato, e io ho un pugnale. Cosa mi ci
sarebbe voluto se non un piccolo movimento del gomito e voi sareste
là, con le budella squarciate dal freddo acciaio, e io sarei fuggito
fuori, nella strada, con le braccia cariche di coppe d'oro! Pensate
che io non sia abbastanza intelligente per rendermene conto? Invece
ho disdegnato questa azione. Eccoli i vostri dannati calici, al
sicuro come in chiesa, ed ecco voi, col cuore che fa tic tac come se
fosse nuovo, ed ecco me stesso, pronto ad andare di nuovo fuori,
povero come quando sono entrato, con il mio blanc che mi avete tirato
sui denti! E voi pensate che io non abbia alcun senso dell'onore –
che Dio mi strafulmini!”
Il vecchio
allungò il braccio destro. “Vi dirò ciò che siete,” disse.
“Siete un farabutto, ragazzo mio, un farabutto impudente e
incallito e un vagabondo. Ho trascorso un'ora con voi. Oh, credetemi,
non ne sono onorato! E avete mangiato e bevuto alla mia tavola. Ma
ora ne ho abbastanza della vostra presenza; si è fatto giorno, e
l'uccello notturno dovrebbe andare a dormire. Volete precedermi o
seguirmi?”
“Come vi
pare,” rispose il poeta, alzandosi. “Credo che siate
assolutamente rispettabile.” Svuotò la coppa pensieroso. “Mi
piacerebbe aggiungere che siete intelligente,” continuò,
battendosi la testa con le nocche. “La vecchiaia! La vecchiaia!
Cervelli deboli e reumatici.”
Il vecchio
lo precedette per rispetto a sé stesso, Villon lo seguì,
fischiettando, con i pollici nella cintura. “Dio abbia pietà di
voi,” disse il signore di Brisetout sulla porta. “Addio, babbo,”
rispose Villon, con uno sbadiglio. “Tante grazie per il montone
freddo.” La porta si chiuse dietro di lui. L'alba stava sorgendo
sui tetti imbiancati, e il un mattino gelido e sgradevole fece da
araldo al giorno. Villon si fermò e si stiracchiò allegramente in
mezzo alla strada. “Un vecchio gentiluomo assai noioso,” pensò.
“Mi chiedo quanto possano valere le sue coppe.”
FINE
Nessun commento:
Posta un commento