Uno
straniero in paradiso
Pubblicato
nel 1903, Mr. Skelmersdale nel
paese delle fate (Mr. Skelmersdale in
Fairyland) è un'insolita
incursione di H. G. Wells,
padre della moderna fantascienza,
nel paese incantato delle fate. Protagonista della
magica
avventura è un giovane aiuto droghiere,
Mr. Skelmersdale
appunto,
la cui unica aspirazione è quella di possedere un negozietto tutto
suo e sposare la sua capricciosa
fidanzatina
Millie, che
lui prosaicamente definisce
“molto
rispettabile.”
Ma
in una magica notte di mezza estate, dopo un futile litigio con la
fidanzata,
Mr. Skelmersdale
vaga
senza meta sulla collina che domina il paesaggio del piccolo
villaggio e
che altro non è che una
di quelle
antiche sepolture preistoriche,
che
con le loro gallerie e camere funerarie, sono
probabilmente
all'origine delle leggende sul
'piccolo popolo'. E
qui, il
nostro Endimione1
in dodicesimo, attira
l'attenzione della regina delle fate, che se ne innamora e lo fa
trasportare nel paese delle fate, un mondo iperuranio dove il cielo e
le stelle non si vedono:
“Quando
si svegliò, si trovò sul più morbido
tappeto erboso
su cui avesse mai dormito prima e sotto l'ombra di alberi scurissimi
che nascondevano completamente il cielo. Infatti, nel paese delle
fate, così pare, il
cielo è sempre nascosto… Ma
nonostante tutto, sotto quegli alberi c'era luce, e sulle foglie
e tra la zolla erbosa brillava una moltitudine di lucciole, belle e
splendenti.”
E' un mondo incantato pieno di creature meravigliose che trascorrono il loro tempo a giocare e amoreggiare. A governarli è la bellissima e dolcissima regina delle fate, un mix incantevole di innocenza e sensualità:
E' un mondo incantato pieno di creature meravigliose che trascorrono il loro tempo a giocare e amoreggiare. A governarli è la bellissima e dolcissima regina delle fate, un mix incantevole di innocenza e sensualità:
“Indossava
un abito verde trasparente, e intorno al suo vitino c'era un'ampia
cintura d'argento… Il
mento e le guance e la gola avevano i lineamenti dolci di un
bambino.”
Ma Mr. Skelmersdale ricorda soprattutto “il modo in cui si muoveva.”
Ma Mr. Skelmersdale ricorda soprattutto “il modo in cui si muoveva.”
Se
per i vittoriani la riscoperta delle fiabe popolari, e in particolare
del mondo delle fate e degli elfi, come nel recupero del folklore
irlandese ad opera del poeta Yeats, significa
fuggire dal materialismo trionfante dell'era industriale, in
questo piccolo racconto il mondo delle fate è un giardino dell'Eden
dove
elfi e fate amoreggiano in allegria e la regina delle fate rapisce
e seduce il povero Mr.
Skelmersdale,
facendosi gioco del puritanismo vittoriano che con il suo rigido e
ipocrita codice morale, le sue crinoline e cuffiette, mortificava la
donna non solo da un punto di vista etico-sociale, ma anche e
soprattutto fisico.
Ma
Mr. Skelmersdale
è
così prigioniero dei suoi pregiudizi che è assolutamente incapace
di cedere al desiderio e solo troppo tardi, quando la regina delle
fate lo rimanderà al suo piccolo mondo, si renderà conto di essersi
innamorato anche lui e
di dover vivere per
sempre con
il rimpianto di ciò che ha perduto.
Libri cosigliati:
Libri cosigliati:
I Racconti delle fate
Traduzione dal francese di Carlo Collodi
Biblioteca Adelphi
1976, 4ª ediz., pp. XX-308 , 12 tavv.
Se preferite, ecco il link per una bella edizione in PDF
Mr.
Skelmersdale nel paese delle fate
di
H.G.
Wells
Arhur Rackham - Comus |
“C'è un
uomo in quel negozio,” disse il dottore, “che è stato nel paese
delle fate.”
“Sciocchezze!”
dissi, e voltai la testa per dare un'occhiata al negozio. Era il
solito negozio di campagna con l'ufficio postale, il filo del
telegrafo sulla facciata, padelle di zinco e spazzole all'esterno,
stivali, stoffa per camicie e carne in barattolo in vetrina.
“Mi
racconti tutto,” dissi dopo una pausa.
“Io
non so niente,” disse il dottore. “E' uno zoticone qualunque –
si chiama Skelmersdale. Ma tutti quanti qui in giro ci credono come
se fosse la Bibbia.”
Dopo un po'
ritornai sull'argomento.
“Non ne
so niente,” disse il dottore, “e non VOGLIO saperne niente. L'ho
curato per un dito rotto – partita di cricket sposati contro
scapoli – ed è stato allora che ho saputo di questa sciocchezza.
Questo è tutto. Ma questo le fa capire con che sorta di gente ho a
che fare, almeno, eh? E' un piacere inculcare idee moderne
sull'igiene a gente come questa!”
“Davvero,”
dissi in un tono moderatamente solidale, e il dottore continuò a
raccontarmi la faccenda delle tubature per l'acqua a Bonham. Cose di
quel genere, osservo, possono essere un rovello per la mente degli
ufficiali sanitari. Fui solidale con lui per come potevo, e quando
definì 'asini' la gente di Bonham, io dissi che erano dei 'sonori
asini', ma nemmeno questo me lo fece amico.
Tempo dopo,
a estate inoltrata, fui condotto a Bignor2 da un pressante
desiderio di isolarmi, mentre stavo per concludere il capitolo sulla
patologia dello spirito – che era, credo, arduo da leggere ma
ancora di più da scrivere. Alloggiai in una fattoria, e dopo un po'
mi trovai di nuovo fuori da quel piccolo emporio, alla ricerca di
tabacco. "Skelmersdale," dissi a me stesso quando lo vidi,
ed entrai.
Fui servito
da un giovanotto basso di statura, ma ben fatto, di carnagione
bionda, denti sani e piccoli, occhi azzurri e un modo di fare
languido. Lo osservai con curiosità. Ad eccezione di un tocco di
malinconia nell'espressione, era un tipo piuttosto comune. Era in
maniche di camicia e intorno ai fianchi aveva allacciato un grembiule
da droghiere, e aveva una matita infilata dietro al suo orecchio
inoffensivo. Il suo panciotto nero era attraversato da una catena
d'oro da cui pendeva una vecchia ghinea.
“Niente
altro per oggi, signore?” chiese. Mentre parlava si chinò a
compilare la mia ricevuta.
“E' lei
Mr. Skelmersdale?" dissi.
“Sì,
signore,” disse, senza alzare lo sguardo.
“E' vero
che è stato nel paese delle fate?”
Mi guardò
per un momento aggrottando la fronte, con un'espressione di afflitta
disperazione. “Oh basta!” disse e, dopo un momento di ostilità,
in cui ci fronteggiammo faccia a faccia, continuò con la sua
addizione. “Quattro, sei e mezzo,” disse, dopo una pausa.
“Grazie, signore.”
Alla fine,
arrivai da questo alla confidenza attraverso una serie di faticosi
tentativi. Lo riacchiappai nella sala comunale, dove di sera andavo a
giocare a bigliardo dopo cena e a mitigare l'estremo isolamento dai
miei simili che era così utile per lavorare durante il giorno. Feci
in modo di giocare con lui e poi di fare una chiacchierata. Scoprii
che l'unico argomento da evitare era il paese delle fate. Su tutto il
resto era aperto e amabile in modo del tutto normale, ma su quello si
era innervosito – era un evidente tabù. Solo una volta sentii in
quella sala una vaga allusione alla sua esperienza in sua presenza,
da parte di un rozzo campagnolo che stava perdendo contro di lui.
Skelmersdale aveva messo a segno una serie di colpi con un punteggio
a due cifre, che per gli standard di Bignor, era un gioco
eccezionalmente buono. “Fermo lì!” disse l'avversario. “Basta
con i tuoi tiri fatati!”
Skelmersdale
lo fissò per un momento, con la stecca in mano, poi la buttò giù e
uscì dalla sala.
“Non
potevi lasciarlo in pace?” disse un rispettabile anziano che aveva
assistito al gioco e, nel generale mormorio di disapprovazione, il
ghigno di soddisfazione sparì dalla faccia del giovane campagnolo.
Subodorai
la mia opportunità. “Cos'è questo scherzo,” dissi, “a
proposito del paese delle fate?”
“Il paese
delle fate non è affatto uno scherzo, non per il giovane
Skelmersdale," disse il rispettabile anziano, bevendo. Un ometto
dalle guance rosa fu più comunicativo. “Proprio così, signore,”
disse, “lo hanno portato ad Aldington Knoll e ce l'hanno tenuto
per tre settimane.”
E con ciò
il gregge era sulla giusta strada. Una volta che una pecora aveva
preso il via, le altre erano pronte a seguirla e in breve tempo
conobbi almeno almeno le circostanze esteriori dell'affare
Skelmersdale. In precedenza, prima di venire a Bignor, era stato in
quello stesso tipo di negozietto ad Aldington Corner e qualunque
fosse la cosa che successe, fu lì che ebbe luogo. Era chiaro il
fatto che una notte era rimasto fuori sulla collina fino a tardi ed
era sparito dalla vista di tutti per tre settimane, ed era ritornato
con “i polsini puliti come quando era andato via” e le tasche
piene di polvere e cenere. Ritornò in uno stato di malinconica
desolazione che svanì solo lentamente e per molti giorni non volle
dare nessuna informazione su dove era stato.
La ragazza
con cui era fidanzato a Clapton Hill cercò di tirarglielo fuori, e
lo lasciò in parte perché egli si rifiutò di parlare, in parte
perché, come disse lei, le dava proprio la 'malinconia'. E poi
quando, un po' di tempo dopo, il ragazzo si lasciò sfuggire
inavvedutamente che era stato nel paese delle fate e che voleva
ritornarci e quando la voce si sparse in giro e iniziò l'innocente
burla dei campagnoli, chiuse improvvisamente il suo esercizio e se
ne venne a Bignor per togliersi dalle chiacchiere. Ma nessuno di loro
sapeva niente a proposito di quello che era successo nel paese delle
fate. Su quel punto l'assembramento della sala comunale iniziò a
sbandare come un branco di cani da caccia che ha perso le tracce. Uno
diceva questo, un altro diceva quello.
Il loro
modo di trattare questo argomento fuori dal comune era ostentatamente
critico e scettico, ma potevo vedere una considerevole dose di
credulità filtrare attraverso le loro prudenti esternazioni. Decisi
di assumere un atteggiamento di intelligente interesse, venato di un
ragionevole dubbio riguardo a tutta la storia.
“Se il
paese delle fate è nel poggio di Aldington,” dissi, “perché non
l'avete scavato?”
“E'
quello che dico anch'io,” disse il giovane campagnolo.
“Ce ne
sono molti che hanno provato a scavare sul poggio di Aldington,”
disse il rispettabile anziano, “di tanto in tanto. Ma fino ad oggi
nessuno ha detto quello che ha scoperto scavando.”
Antico cumulo funerario delle isole Orkney |
Quella
credulità vaga ma unanime che mi circondava era piuttosto
impressionante, sentivo che ci doveva essere sicuramente QUALCOSA
alla radice di tanta convinzione, e la grande curiosità che avevo
per i fatti concreti di quella faccenda ne fu decisamente stuzzicata.
Se questi fatti concreti dovevano essere ottenuti da qualcuno, questi
dovevano essere ottenuti da Skelmersdale in persona e, pertanto, mi
impegnai in modo ancora più assiduo a cancellare la prima cattiva
impressione che avevo fatto per conquistare la sua fiducia al punto
da convincerlo a parlare di sua spontanea volontà. In quell'impresa
avevo un vantaggio sociale. Dal momento che ero una persona affabile
e senza nessuna occupazione apparente, e indossavo abiti in tweed e
pantaloni alla zuava, a Bignor ero naturalmente classificato come un
artista, e secondo lo straordinario codice di rilevanza sociale
prevalente a Bignor, un artista occupava una posizione
considerevolmente più alta di un aiuto droghiere.
Skelmersdale,
come troppi della sua estrazione sociale, è una specie di snob, mi
aveva detto “Oh basta” come reazione ad una provocazione
eccessiva e improvvisa e subito dopo, ne ero certo, se ne era
pentito; sapevo che era felice di essere visto passeggiare per il
villaggio insieme a me. A tempo debito, accettò abbastanza
prontamente l'invito a casa mia a fumare la pipa e a bere del whisky
e lì, intuendo per un felice istinto che questo era dovuto ai suoi
tormenti interiori e sapendo che confidenza chiama confidenza, lo
incalzai con un sacco di storie interessanti e suggestive tratte dal
mio passato reale e fittizio. E fu dopo il terzo whisky durante la
terza visita di quel genere, se ricordo bene, che a proposito della
goffa esagerazione di una storiella d'amore che mi aveva grandemente
appassionato nella mia adolescenza, che lui alla fine, di sua propria
volontà e iniziativa, ruppe il ghiaccio. “E' successo lo stesso a
me,” disse, “lassù ad Aldington. E' proprio questo che è così
strano. Prima non importava niente a me e tutto a lei, e dopo, quando
era troppo tardi, fu, per così dire, il contrario.”
Mi astenni
dal notare l'allusione e così egli ne tirò subito fuori un'altra e
in breve fu chiaro come la luce del giorno che la sola cosa di cui
voleva parlare adesso era dell'avventura nel paese delle fate, che
aveva custodito gelosamente così a lungo. Vedete, il mio trucco era
riuscito e invece di essere solamente un altro straniero un po'
incredulo e faceto, ero diventato, grazie a tutte quelle mie
sfrontate confidenze, l'unico possibile confidente. Era stato morso
dal desiderio di dimostrare che anch'egli aveva vissuto e provato
tante cose, e la febbre lo aveva contagiato. Dapprincipio fu
sicuramente oscuro e allusivo e la mia impazienza di rendere il suo
racconto più chiaro con poche precise domande fu controbilanciata e
controllata solo dalla mia paura di essere troppo frettoloso. Ma uno
o due incontri dopo le basi della confidenza furono completate e
penso di aver ottenuto, dal primo all'ultimo, la maggior parte degli
avvenimenti e dei dettagli – infatti, ritornai molte volte su quasi
tutto quello che Mr. Skelmersdale, con le sue limitate capacità di
narratore, sarà mai capace di raccontare. E così arrivo alla storia
della sua avventura e ne rimetto insieme i pezzi. Se accadde
realmente, se egli l'ha immaginata o sognata, o si è imbattuto in
essa durante qualche trance allucinatoria, non sono in grado di
dirlo. Ma non prendo in considerazione nemmeno per un momento l'idea
che l'abbia inventata. L'uomo crede semplicemente e onestamente che
la cosa accadde come la racconta, egli è evidentemente incapace di
una bugia così elaborata e lunga e trovo una forte conferma alla
sua sincerità nella credulità delle semplici menti rustiche, ma
spesso incredibilmente penetranti, intorno a lui. Egli ne è convinto
– e nessuno può produrre alcun fatto concreto che possa
distruggere la sua convinzione. In quanto a me, fatte queste
precisazioni, vi riferisco la storia – sono un po' troppo vecchio
ora per dare giustificazioni o spiegazioni.
Atkinson Grimshaw - Endymion on Mount Latmos (1879) |
Dice
di essere andato a dormire sul poggio di Aldington che erano circa le
dieci di sera – molto probabilmente era la notte
di mezza
estate, sebbene non si sia mai curato della data, e il
suo margine di sicurezza variava all'incirca di una settimana
– ed era una notte serena e senza vento e
la luna stava sorgendo. Mi sono preso la briga di visitare quel colle
tre volte da quando la sua storia ha iniziato a dipanarsi incalzato
dai miei incoraggiamenti e una volta ci andai durante
un tramonto estivo al sorgere della
luna in
una sera, forse, simile
a quella
della sua avventura. Al di sopra della luna, Giove era grande e
splendido e a nord e a nord-est il cielo era verde e luminoso là
dove era tramontato il sole. Il
colle si ergeva spoglio e desolato sotto il cielo, ma circondato alla
sua base da
fitti boschi, e mentre salivo c'era
un vivace
saltellare e zampettare di conigli fantasma o del tutto invisibili.
Proprio sopra il cocuzzolo del poggio, ma da nessun'altra parte,
c'era il sottile ronzio di un nugolo di moscerini. Il poggio, credo,
è una montagnola artificiale, il tumulo di qualche grande capo
preistorico, e sicuramente nessuno ha mai scelto una prospettiva più
vasta per un sepolcro. Ad est lo sguardo spazia lungo le colline fino
ad Hythe, e da lì attraverso il Canale fin dove, a circa trenta
miglia, in lontananza, le grandi luci bianche dei fari di Griz Nez e
di Boulogne occhieggiano spegnendosi
e accendendosi.
Ad ovest si stende tutta la valle scoscesa del Weald, fino a
Hindhead e Leith Hill, e la valle dello Stour attraversa i Downs a
nord fino alle interminabili colline oltre Wye. Tutta la piana di
Romney si stende a sud ai piedi del tumulo, Dymchurch and Romney e
Lydd, Hastings e la sua collina si trovano a mezza strada, e le
colline si moltiplicano confusamente molto oltre il punto in cui
Eastbourne arriva su a Beachy Head.
Ed
era al di sopra di questo panorama che Skelmersdale vagava,
tormentato dalle sue prime pene d'amore, e come diceva, “non gli
importava DOVE andasse.” E si mise a sedere lì, a
rimuginare e così, afflitto e addolorato, fu sorpreso dal sonno. E
fu così che cadde nelle mani delle fate. Era
stato sconvolto da una lite di natura alquanto banale tra lui e la
ragazza di Clapton Hill con cui era fidanzato. Era la figlia di un
fattore, disse Skelmersdale, e “molto rispettabile”, e senza
dubbio un eccellente partito per lui; ma la ragazza e l'innamorato
erano molto giovani e
animati da quella reciproca gelosia, quell'eccessiva intolleranza,
quell'irrazionale fame di meravigliosa perfezione che la vita e l'età
inevitabilmente e misericordiosamente mitigano. Quale
fosse esattamente il motivo della lite, non ne ho idea. Forse lei
aveva detto che le piacevano gli uomini con le ghette quando lui non
indossava le ghette, o forse lui le aveva detto che la preferiva con
un altro tipo di cappello, ma comunque la cosa fosse iniziata, arrivò
all'asprezza e
alle
lacrime attraverso una serie di fasi
maldestre.
Senza
dubbio a lei venne il naso rosso per il pianto, e lui diventò
pallido e avvilito, e lei lo lasciò con irritanti paragoni, e
pesanti dubbi che gliene fosse mai veramente importato di lui e
l'evidente certezza che non gliene sarebbe importato mai più. E con
questo tipo di cose in testa il giovane se ne venne mestamente sul
poggio di Aldington, e poi, forse dopo un lungo intervallo,
inspiegabilmente, si addormentò.
Quando
si svegliò, si trovò sul più morbido
tappeto
erboso
su cui avesse mai dormito prima e sotto l'ombra di alberi scurissimi
che nascondevano completamente il cielo. Infatti, nel paese delle
fate, così
pare, il
cielo è sempre nascosto. Eccetto per una notte in cui le fate
stavano ballando. Mr. Skelmersdale, durante
tutto il tempo con loro, non vide mai una stella. E a proposito di
quella notte sono in dubbio se egli fosse proprio nel paese delle
fate o all'aperto in mezzo alle canne e i giunchi, in quei prati
bassi vicino alla linea ferroviaria a Smeeth.
Ma
nonostante tutto, sotto quegli alberi c'era luce, e sulle foglie
e tra la zolla erbosa brillava una moltitudine di lucciole, belle e
splendenti. La prima impressione di Mr. Skelmersdale fu di essere
piccolo e la successiva fu quella di essere
circondato da un discreto numero di persone ancora più piccole. Per
una qualche ragione, dice, non era né sorpreso né spaventato, ma si
mise a sedere con
cautela
e si stropicciò gli occhi per scacciare via il sonno. E tutto
intorno a lui c'erano gli elfi sorridenti che lo
avevano preso sotto la loro giurisdizione
mentre dormiva e lo avevano portato nel paese delle fate. Non
sono riuscito a capire quale fosse l'aspetto di quegli elfi, tanto
vago e imperfetto è il suo vocabolario e così disattento ai tutti i
minimi dettagli sembra essere stato. I loro abiti erano fatti di un
tessuto leggerissimo e bello, che non era né lana, né seta, né
foglie, né petali di fiori. Stavano tutti intorno a lui quando si
mise a sedere e si ridestò, e giù dalla radura, lungo un viale
illuminato dalle lucciole e con una stella sulla fronte,
improvvisamente avanzò verso di lui la signora delle fate che è il
personaggio principale dei suoi ricordi e del racconto. Su di lei ho
saputo di più. Indossava un abito verde trasparente, e intorno al
suo vitino c'era un'ampia cintura d'argento. I suoi capelli tirati
all'indietro sulla fronte scendevano ondeggianti fino alle spalle;
erano ricci ma non troppo ribelli e tuttavia capricciosi, e sulla sua
fronte c'era una piccola tiara ornata da una stella solitaria. Il
vestito aveva delle maniche
aperte che lasciavano intravvedere le braccia; la sua gola, penso,
era in parte a nudo, perché il giovane parlava della bellezza del
suo collo e del mento. C'era
una collana di corallo intorno al suo collo bianco e sul petto un
fiore color corallo. Il mento e le guance e la gola avevano i
lineamenti dolci di un bambino. E i suoi occhi, mi è parso di
capire, erano di un marrone acceso, dolcissimi e sinceri e teneri
sotto le sopracciglia perfettamente allineate. Da questi particolari
si può capire quanto rilievo deve aver avuto questa signora nel
racconto di Mr. Skelmersdale. Cercò di precisare alcuni particolare
ma non ci riuscì; “il modo in cui si muoveva,” disse diverse
volte; e immagino una specie di timida gioiosità irradiarsi da
questa signora.
Arthur Rackham - Iride, 1921 |
E
fu in compagnia di questa deliziosa persona, in qualità di ospite e
compagno prescelto di questa deliziosa persona, che Mr. Skelmersdale
iniziò ad essere introdotto ai segreti del paese delle fate. Lei
lo accolse con gioia e abbastanza calorosamente – sospetto che
strinse la mano di lui tra le sue e gli rivolse uno sguardo radioso.
Dopo tutto, dieci anni fa il giovane Skelmersdale deve essere stato
un ragazzo molto piacente. E una volta lo prese sotto braccio e
un'altra, credo, lo condusse per mano lungo la radura illuminata
dalle lucciole. Come
andarono
veramente
le cose non c''è modo di saperlo dal racconto scarno e disarticolato
di Mr. Skelmersdale. Egli dà insoddisfacenti dettagli di panorami
e
avvenimenti fuori
dall'ordinario,
di luoghi dove c'erano molte fate riunite, di “funghi che emanavano
una luce rosa,” del cibo delle fate di cui riusciva a dire
solamente “avreste dovuto assaggiarlo!” e della musica delle
fate, “simile ad un piccolo carillon,” che usciva da ondeggianti
corolle di fiori. C'era un grande luogo aperto dove le fate
cavalcavano e organizzavano corse su “cose,” ma che cosa
intendesse Mr. Skelmersdale con “cavalcavano quelle cose lì,”
non c'è modo di saperlo. Vermi, forse, o grilli, o quei piccoli
insetti che tanto spesso scappano via in nostra presenza. C'era un
posto dove l'acqua si raccoglieva e crescevano giganteschi botton
d'oro, e lì le fate facevano il bagno insieme quando era più caldo.
Tra
gli alberi ricoperti di muschio c'erano
giochi e danze e, penso, anche
il continuo amoreggiare di quelle creature elfiche.
Non
c'è dubbio che la reggina delle fate corteggiò Mr. Skelmersdale, e
senza dubbio questo giovanotto decise di resisterle. Ci fu una volta,
infatti, in cui sedette accanto a lui sulla riva di un ruscello, in
un angolo tranquillo e nascosto “tutto profumato di violette,” e
gli parlò d'amore.
“Quando
la sua voce diventava bassa e sussurrava,” disse Mr. Skelmersdale,
“e appoggiava la sua mano sulla mia, sapete, e mi veniva vicino con
quel suo modo di fare dolce e affettuoso, dovevo faticare molto per
non perdere la testa.” Sembra
che sfortunatamente riuscì a non perdere la testa solo fino ad un
certo punto. Capì
“in che direzione soffiava il vento,” disse, e così, seduto lì
in un posto che odorava tutto di violette, abbracciato a questa
deliziosa regina delle fate, Mr. Skelmersdale le confessò con
gentilezza...che era fidanzato! Gli aveva detto che lo amava tanto,
che era per lei un dolce ragazzo umano, e qualunque cosa le avesse
chiesto l'avrebbe avuta – anche il suo desiderio più grande. E
Mr. Skelmersdale, che, immagino, tentò disperatamente di non
guardare le sue piccole labbra che si aprivano e chiudevano, tirò
fuori il suo più segreto desiderio dicendo che gli sarebbe piaciuto
avere abbastanza capitale per aprire un negozietto tutto suo. Gli
sarebbe proprio piaciuto sentirsi abbastanza ricco per farlo.
Immagino la sorpresa in quegli occhi bruni di cui parlava, ma lei
sembrò capire tutto ciò e gli fece molte altre domande sul
negozietto, “con una specie di sorriso” per tutto il tempo. Così
la ragguagliò sulla sua posizione di fidanzato e le disse tutto su
Millie.
“Tutto?”
dissi.
“Ogni
cosa,” disse Mr. Skelmersdale, “chi era Millie e dove viveva,
ogni cosa insomma. Per tutto il tempo sentii che non potevo fare
altrimenti.” “Qualunque
cosa vuoi, l'avrai,” disse la regina delle fate. “Consideralo
già fatto. Ti sentirai ricco come desideri. E adesso, vedi, MI DEVI
BACIARE”
E Mr.
Skelmersdale fece finta di non aver sentito l'ultima frase, e le
disse che era molto gentile. Che davvero lui no meritava tanta
gentilezza. E…
La regina
delle fate improvvisamente gli si avvicinò e disse, “Baciami!”
“E,
disse Mr. Skelmersdale, “come uno sciocco, la baciai.”
Ci
sono baci e baci, mi hanno detto, e questo deve essere stato molto
diverso dalle sonore manifestazioni di amicizia di Millie. C'era
qualcosa di magico in quel bacio, sicuramente segnò un punto di
svolta. Questo è uno di quegli episodi che il giovane ritenne
sufficientemente importanti da descrivere più dettagliatamente. Io
ho cercato di aggiustarlo, ho cercato di liberarlo dalle
mezze frasi
e dai gesti con cui mi fu narrato, ma non ho dubbi che fosse
completamente differente dal mio racconto e molto più delicato e
dolce, nella
luce che filtrava dolcemente e nei silenzi delicatamente suggestivi
della radura delle fate. La regina delle fate fece altre domande su
Millie, e fu molto dolce e così via – molte volte. Per quel che
riguarda la dolcezza di Millie, me lo immagino mentre risponde che la
ragazza era “a posto.”
Arthur Rackham - Fairies |
E
allora, o in una simile circostanza, la regina delle fate gli disse
di essersi innamorata di lui quando lo aveva visto dormire al chiaro
di luna e così lo
aveva fatto portare
nel paese delle fate e aveva pensato, non sapendo di Millie, che
forse anche lui avrebbe potuto amarla. “Ma
ora si sa che non puoi,” disse, “così devi fermarti con me solo
per un po', e poi devi tornare da Millie.” Così gli disse, e
sapete che Skelmersdale era già innamorato di lei, ma l'assoluta
inerzia della sua mente lo fece proseguire sulla strada che aveva
intrapreso. Me lo immagino seduto in preda ad una sorta di stupore in
mezzo a tutte quelle meravigliose creature luminose mentre risponde
alle domande sulla sua Millie e sul negozietto che aveva in mente e
la necessità di un cavallo e di un carretto… e questa assurda
situazione deve essere andata avanti per giorni e giorni.
Vedo
quella piccola signora, mentre gli svolazza intorno e cerca di
divertirlo, troppo
delicata per capire la sua complessità e troppo innamorata per
lasciarlo andare. E lui, sapete, ipnotizzato com'era dalla sua
situazione terrena, la seguiva qui e là, cieco a tutte le cose del
paese delle fate ad eccezione della meravigliosa intimità che gli
era capitata. E' difficile, è impossibile esprimere per iscritto
l'effetto di quella radiosa dolcezza che brilla nella giungla delle
frasi rozze e confuse del povero Skelmersdale.
Per
me, almeno, lei brillava luminosa nella confusione della sua storia
come una lucciola in un groviglio di erbacce. Ci
devono essere stati molti episodi del genere per tutto il tempo che
rimase lì – una volta, infatti, danzarono al chiaro di luna nel
canneto delle fate che si trova nei prati vicino Smeeth – ma poi
tutto questo finì. La fata lo portò in una grande caverna,
illuminata da una sorta di lampada notturna rossa dove
c'erano forzieri su forzieri, e coppe e scatole d'oro, e un grande
mucchio di quelle che agli occhi di Mr. Skelmersdale certamente
sembrarono… monete d'oro. Fra tutte quelle ricchezze c'erano dei
piccoli gnomi che la salutarono quando entrò e si fecero da parte. E
improvvisamente lei si rivolse a lui con occhi stranamente
scintillanti.
“Ed ora,”
gli disse, “sei stato gentile a stare con me così a lungo, ed è
tempo che ti lasci andare. Devi ritornare dalla tua Millie. Devi
ritornare dalla tua Millie, e qui, proprio come ti ho promesso, gli
gnomi ti daranno l'oro.”
“La voce
le venne meno,” disse Mr. Skelmersdale. “A quel punto, ebbi una
strana sensazione -" (si toccò il petto) “come se qualcosa
qui mi venisse meno. Mi sentivo pallido, e tremante e anche allora…
non riuscii a dire niente.”
Fece una
pausa. “Sì,”dissi.
La scena
andava oltre le sue capacità descrittive. Ma so che lei gli diede il
bacio d'addio.
“E
non diceste niente?”
“Niente,”
disse. “Rimasi come un vitello impagliato. Si voltò indietro solo
un'altra volta, e sembrava che piangesse e ridesse – potevo vedere
i suoi occhi lucidi – e poi andò via, e tutto intorno a me c'erano
quei piccoli ometti che si davano da fare, riempendomi d'oro le mani,
le tasche, la camicia e dappertutto.”
Dugald S. Walker (1921) from the book, PEACOCK AND THE WISHY FAIRY |
E fu
allora, quando la regina delle fate era svanita, che Mr.
Skelmersdale capì veramente e seppe. Improvvisamente iniziò a
buttare via l'oro che gli avevano messo addosso, gridando per evitare
che gliene dessero ancora. “Non voglio il vostro oro,” disse.
“Ancora non ho finito. Non me ne vado. Voglio parlare un'altra
volta con la regina delle fate.” Feci per andarle dietro ma quelli
mi respinsero. Puntarono le loro piccole mani contro la mia vita e mi
spinsero indietro. Continuarono a darmi ancora oro finché incominciò
a uscire fuori dalle gambe dei pantaloni e a cadermi dalle mani.
“Non voglio il vostro oro,” gli dico, “voglio parlare un'altra
volta con la regina delle fate.”
“E ci
riusciste?”
“Ci fu
una zuffa.”
“Prima di
vederla?”
“Non
la vidi. Quando mi liberai degli gnomi non riuscii a vederla da
nessuna parte.”
Così
corse a cercarla fuori dalla caverna illuminata di rosso, giù per
una lunga grotta, e da lì
uscì in una grande radura desolata attraversata da uno sciame di
fuochi fatui che svolazzavano
di
qua e di là. E
intorno a lui gli elfi danzavano deridendolo, e i piccoli gnomi, che
lo avevano inseguito, uscirono dalla caverna, con le mani piene di
oro e glielo lanciarono addosso gridando, “Amore di fata e oro di
fata! Amore di fata e oro di fata!”
E
quando sentì queste parole, fu preso da una gran paura che tutto
fosse finito, e alzò la voce e la chiamò per nome, e
improvvisamente iniziò a correre lungo la discesa che partiva dalla
bocca della caverna, attraverso un luogo pieno di spini
e rovi, invocandola spesso
a
voce spiegata. Gli elfi gli danzavano intorno incuranti, pizzicandolo
e pungendolo, e i fuochi fatui lo circondavano e gli
si avventavano
in faccia, gli gnomi lo inseguivano lapidandolo con l'oro delle fate.
Mentre correva in mezzo a tutta quella strana processione che ne
distoglieva l'attenzione, improvvisamente si trovò immerso fino alle
ginocchia in una palude, in mezzo a ad un intrigo di rami e radici, e
un piede rimase impigliato e inciampò e cadde…
Cadde e
incominciò a rotolare e in quel preciso momento si ritrovò disteso
sul poggio di Aldington completamente solo sotto le stelle.
Si mise a
sedere di scatto, dice, e scoprì di essere intirizzito per il
freddo, e i suoi abiti erano bagnati di rugiada. Il primo pallore
dell'alba e una vento freddo si levarono insieme. Avrebbe potuto
credere che tutto quello non fosse che un sogno stranamente vivido
finché infilò una mano in tasca e la trovò piena di cenere.
Allora seppe che quello era sicuramente l'oro delle fate che gli
avevano dato gli gnomi. Poteva sentire ancora i loro pizzichi e le
loro punture, anche se addosso non aveva nemmeno un livido. E in quel
modo e così all'improvviso Mr. Skelmersdale ritornò dal paese
delle fate nel mondo degli uomini. Anche allora immaginò che la
faccenda fosse durata solo una notte finché ritornò nel negozio di
Aldington Corner e scoprì tra lo stupore di tutti che era stato via
tre settimane.
“Dio! Ne
ho avuti di problemi!” disse Mr. Skelmersdale.
“Perché?”
“Per
spiegare. Suppongo che non abbiate mai avuto niente del genere da
spiegare.”
“Mai,”
dissi, e si dilungò per un cero tempo a spigare il comportamento di
questa o di quella persona. Ma per un po' evitò di fare un certo
nome.
“E
Millie?” dissi alla fine.
“Non è
che me ne importasse poi tanto di vedere Millie,” disse.
“Credo
che l'avrà trovata cambiata.”
“Tutti
erano cambiati. Cambiati in meglio. Tutti sembravano grandi e grossi.
E le voci rimbombavano. Perfino il sole, quando spuntò, sembrò
ferirmi gli occhi!”
“E
Millie?”
“Non
volevo vedere Millie.”
“E quando
successe?”
“L'ho
incontrata per caso una domenica, uscendo dalla chiesa. 'Dove sei
stato?' disse, e capii che c'era aria di tempesta. E non me ne
importava niente. Era come se mi fossi dimenticato di lei mentre
stava lì a parlarmi. Non significava proprio niente per me. Non
riuscivo a capire cosa avessi mai visto in lei e che qualità avesse
mai posseduto. A volte, quando lei non c'era, ci ripensavo, ma mai
in sua presenza. Poi arrivava sempre l'altra e la cancellava…
Comunque, non le ho spezzato il cuore.”
“Sposata?”
chiesi
“Sposata
a suo cugino,” disse Mr. Skelmersdale, e per un po' rimase a
fissare pensieroso il disegno della tovaglia.
Quando
riprese a parlare era chiaro che la sua vecchia fidanzata era
completamente svanita dalla sua mente e che il discorso aveva
riportato nel suo cuore la regina delle fate vittoriosa. Parlò di
lei – improvvisamente si lasciò sfuggire le cose più bizzarre, i
più strani segreti d'amore che sarebbe sleale ripetere. Credo,
infatti, che fosse la cosa più bizzarra di tutte, ascoltare quel
lindo piccolo droghiere, dopo che la sua storia fu terminata, con un
bicchiere di whisky accanto a lui e un sigaro tra le mani,
testimoniare, ancora con dolore, anche se ora, con un'angoscia lenita
dal tempo, dell'insaziabile fame d'amore che lo aveva preso al suo
ritorno. “Non potevo mangiare, “ disse, “non potevo dormire,
facevo errori negli ordini e mi confondevo con il resto. Era lì
giorno e notte, e mi sentivo continuamente attratto da lei. Oh, la
volevo. Dio! quanto la volevo! Ero lassù, la maggior parte delle
notti ero lassù sul poggio, spesso anche con la pioggia. Passeggiavo
sul colle e tutto intorno, chiedendo che mi facessero entrare.
Gridavo. A volte quasi scoppiavo a piangere. Ed ero pazzo e
infelice. Incominciai a ripetermi che era tutto uno sbaglio. E ogni
domenica pomeriggio andavo lassù, col brutto o col bel tempo, anche
se sapevo, come voi, che non serviva a niente andarci di giorno. Ho
anche provato a dormire lassù.” Si fermò di colpo e decise di
bere un po' di whisky.
“Ho
provato a dormire lassù,” disse, e potrei giurare che gli
tremavano le labbra, “Ho provato a dormire lassù, tante volte. E,
sapete, signore, non ci sono riuscito – mai. Ho pensato che se mi
fossi addormentato lassù, poteva succedere qualcosa. Ma mi sono
seduto lassù, mi sono disteso lassù, e non ci sono riuscito – a
causa dei pensieri e del desiderio. E' il desiderio… Ci ho provato
-” Sospirò, bevve il resto del suo whisky tutto d'un colpo, si
alzò all'improvviso e si abbottonò la giacca, mentre osservava con
occhio critico le stampe da quattro soldi ai lati del caminetto. Il
taccuino nero su cui scriveva gli ordini per le consegne giornaliere
sbucò dal taschino della giacca. Quando tutti i bottoni furono
sistemati, si diede qualche colpetto sul petto e si girò
improvvisamente verso di me. “Bene,” disse, “devo andare.”
Nei suoi
occhi e nel suo modo di fare c'era qualcosa che per lui era troppo
difficile da esprimere a parole. “Ci si lascia andare alle
chiacchiere,” disse alla fine sulla porta e accennò un sorriso, e
così svanì dai miei occhi. E questa è la storia di Mr.
Skelmersdale nel paese delle fate.
FINE
1
ENDIMIONE (Ενδυμίων,
Endymion). - Giovane pastore di grande bellezza, di cui la
leggenda greca narrava che fosse stato amato dalla Luna (Selene).
Questo amore divino per il bel giovanetto, secondo la forma più
diffusa della leggenda, era localizzato sul monte Latmo in Caria, a
poca distanza da Mileto e da Eraclea; ivi la dea, scesa a comtemplare
il giovane dormiente, gli avrebbe dato un eterno sonno per poterlo
furtivamente venire a baciare.
2 Bignor è un villaggio nella contea inglese
del West Sussex che si affaccia sul canale della Manica.
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