Il
racconto breve
di
Ambrose Bierce
Una
notte d’estate (One Summer Night),
fu pubblicato nella raccolta Can
Such Things Be? del
1893. Ancora una volta ‘Bitter’ Bierce ci
mostra il lato orrifico della quotidianità,
trasformando
una
qualunque sera
estiva
in un beffardo scherzo del destino.
Sullo
sfondo di una notte d’estate buia e tempestosa, tre strani figuri
armati di pala si aggirano in un cimitero. Nello
stesso momento, sotto la superficie del cimitero, disteso nella sua
bara, giace Henry
Armstrong, in
un torpore dei sensi malauguratamente
scambiato per
il
sonno
eterno.
Una
situazione binaria che sembra mettere insieme due illustri precedenti
letterari: sul piano superiore agiscono i
resurrection
men
già visti in azione nel racconto di
Stevenson
“The
Body
Snatchers”
(1884),
su
quello inferiore si
replica
la claustrofobica situazione di
"The
Premature Burial"
(1844)
del maestro dell’horror: Edgar Allan Poe.
Come
questi destini si incroceranno e quale sarà l’esito fatale, almeno
per uno di loro, ci viene narrato con una prosa scarna ed essenziale,
ben lontana dal linguaggio ricco ed esuberante di Poe. Altrettanto
lineare ed
avaro di dettagli è l’intreccio: Bierce giunge al climax della vicenda
grazie al non detto, con
un effetto non orripilante, bensì
raggelante.
🌟"The Premature Burial" - testo originale + audio - traduzione
Una sera d’estate
di
Ambrose
Bierce
Il
fatto che Henry Armstrong fosse stato seppellito non era per lui
prova sufficiente che fosse morto: era sempre stato un uomo difficile
da convincere. Che fosse stato veramente sepolto, era costretto ad
ammetterlo dalla testimonianza dei suoi sensi. La sua postura –
disteso sulla schiena, con le mani incrociate sullo stomaco e legate
con qualcosa che ruppe facilmente senza migliorare sensibilmente la
sua situazione – l’angusta prigione della sua persona,
l’impenetrabile oscurità e il profondo silenzio, costituivano
un’insieme di prove incontrovertibili ed egli le accettò senza
cavillare.
Ma
morto – no: era solamente molto, molto, malato. Era afflitto, per
di più, dall’apatia dell’invalido e non si preoccupava granché
del singolare fato che gli era stato destinato. Non era assolutamente
un filosofo – ma soltanto una persona semplice e banale dotata,
almeno per il momento, di una patologica indifferenza: l’organo con
cui aver paura delle eventuali conseguenze era intorpidito. Così,
senza alcuna particolare apprensione per il suo immediato futuro, si
addormentò e per Henry Armstrong tutto fu silenzio.
Ma,
sopra la sua testa, stava succedendo qualcosa. Era una buia notte
d’estate, attraversata di tanto in tanto dal bagliore di un lampo
che accendeva silenziosamente una bassa nuvola ad occidente e
preannunciava un temporale. Queste brevi luci intermittenti facevano
emergere con agghiacciante precisione i monumenti e le pietre tombali
del cimitero e sembrava che le facessero danzare. Non era una notte
in cui ci si aspettasse di vedere testimoni affidabili in giro per il
cimitero, così i tre uomini che si trovavano lì, intenti a scavare
la tomba di Henry Armstrong, si sentivano ragionevolmente al sicuro.
Due
di loro erano giovani studenti della facoltà di medicina distante
poche miglia, il terzo era un negro gigantesco conosciuto come Jesse.
Per molti anni Jesse era stato impiegato nel cimitero come tuttofare
e la sua battuta preferita era che conosceva “ogni anima lì
intorno.” Considerata la natura di quello che stava facendo ora,
era facile capire che quel posto non era popoloso come avrebbe potuto
apparire dai registri.
Fuori
dalle mura di recinzione, ben distante dalla strada pubblica, c’erano
un cavallo ed un calesse che aspettavano.
Il
lavoro di escavazione non fu difficile, la terra ancora fresca con
cui la tomba era stata ricoperta poche ore prima offrì poca
resistenza e fu velocemente rimossa. Tirare via la bara dalla fossa
fu meno facile, ma alla fine ci riuscirono, perché era il mestiere
di Jess, che svitò con cura il coperchio e lo spostò di lato,
rivelando un corpo in pantaloni neri e camicia bianca. Proprio in
quel momento il cielo si infiammò e il pauroso crepitio di un tuono
scosse il mondo addormentato e Henry Armstrong si mise
tranquillamente a sedere. Gli uomini fuggirono via terrorizzati,
ognuno in una diversa direzione, lanciando grida inarticolate. Per
niente al mondo due di loro avrebbero potuto essere convinti a
tornare indietro. Ma Jess era di un’altra pasta.
Alle
prime luci del mattino, i due studenti, pallidi e tremanti per
l’ansia e con il terrore della loro avventura che ancora pulsava
tumultuosamente nel sangue, si incontrarono all’università.
“Hai
visto?” gridò uno.
“Dio!, sì – cosa dobbiamo fare?”
Girarono
intorno all’edificio e arrivarono all’ingrasso posteriore, dove
videro un cavallo, attaccato ad un carrozzino, legato ad una
colonnina del cancello vicino alla porta della sala settoria.
Entrarono istintivamente. Su di una panca , in un angolo buio, sedeva
il negro Jesse. Si alzò, ghignando, tutto occhi e denti.
“Sto
aspettando il mio compenso,” disse.
Disteso
su un lungo tavolo, completamente nudo, giaceva il corpo di Henry
Armstrong, la testa macchiata di sangue e del terriccio proveniente
da un colpo di pala.
FINE
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