L’ombra
del vampiro
Schalken
il pittore
(
Schalkenthe Painter)
è
un racconto breve di Joseph
Sheridan Le Fanu pubblicato
la prima volta nel 1839
sul Dublin
University Magazine.
Fu
poi pubblicato
nel 1894
nella
raccolta The
Watcher, and other weird stories.
Una
versione modificata
della storia intitolata
Strange
Event in the Life of Schalken the Painter
fu
pubblicata nell’antologia
The
Purcell Papers nel
1880.
Questa
volta Le Fanu prende ispirazione dal mondo dell’arte, in
particolare dalle opere del pittore olandese Godfried
Schalcken
o Schalken
(1643
– 1706) i
cui quadri sono caratterizzati da giochi di luce: era solito
dipingere soggetti in ambienti scuri illuminati da candele, tecnica
che usò frequentemente con ottima efficacia in molti dei suoi
dipinti, e che ben
si addice al carattere misterioso e orrifico della storia.
La
storia narra del primo amore di Godfried Schalcken
per la giovane e innocente Rose Velderkaust, nipote
del suo maestro
Gerard Douw e
di come accadde che egli finì per perderla per sempre in
seguito ad una serie di sciagurati eventi frutto di “meschinità,
superficialità e mancanza di cuore.”
Lo zio, infatti, decise di darla in moglie al sedicente e misterioso
Wilken Vanderhausen,
uomo
tanto repellente quanto ricco e
che sarebbe
stato
la rovina della povera ragazza.
L’unica
prova di quell’infelice amore e del triste destino a cui Rose
andò incontro è un ritratto di lei che Schalken dipinse una volta
diventato famoso.
💥Curiosità
💢 Nel 1979 la BBC produsse una versione televisiva del racconto
Schalken
il pittore
di
Joseph
Sheridan Le Fanu
 |
Autoritratto Godfried
Schalcken |
“Egli
non
è un
uomo
come
me per cui dovremmo
unirci,
né c’è alcuno che possa imporsi
su di noi. Pertanto, che egli porti la sua verga lontano da me, e che
la paura di lui non mi terrorizzii.”
A
tutt'oggi, esiste una pregevole opera di Schalken ottimamente
conservata. Il particolare uso della luce costituisce, come sempre
nei suoi quadri, il principale merito apparente delle sue opere. Dico
apparente, poiché il suo reale valore è determinato dal suo
soggetto e non dall’esecuzione, per quanto squisita possa essere.
Il
dipinto rappresenta l’interno di quello che potrebbe essere una
stanza in un antico edificio religioso e il suo primo piano è
occupato da una figura femminile, in una specie di tunica bianca,
parte della quale è acconciata in modo da formare un velo. L’abito,
comunque, non è quello di alcun ordine religioso. La figura regge in
mano una lampada, dal cui alone sono illuminate la sua persona e il
suo volto, e i suoi lineamenti mostrano un sorriso malizioso, come
quello che s’addice ad una bella donna che sta mettendo in atto
qualche tiro birbone; sullo sfondo e totalmente in ombra, eccetto
dove la fioca luce rossa di un fuoco morente serve per definirne la
forma, c’è la figura di un uomo vestito alla vecchia maniera
fiamminga, in un atteggiamento di allarme, essendo la sua mano
sull’elsa della sua spada, che egli sembra essere sul punto di
sguainare.

Ci
sono alcuni dipinti che, non so come, ci inducono a credere che essi
rappresentino non mere forme e associazioni astratte che si agitavano
nell’immaginazione dell’artista, ma scene, facce e situazioni
realmente esistite. In questo particolare dipinto c’è qualcosa che
lo caratterizza come la rappresentazione di un fatto reale. E, in
verità, lo è, poiché descrive fedelmente un accadimento strano e
misterioso e perpetua, nel volto della figura femminile, che occupa
il primo piano della composizione, un accurato ritratto di Rose
Velderkaust, la nipote di Gerard Douwii,
il primo e, credo, l’unico amore di Godfrey Schalken.
Il
mio bisnonno conosceva bene il pittore e apprese dallo stesso
Schelken la terribile storia del quadro e da lui, infine, ricevette
il dipinto come legato testamentario. La storia e il quadro sono
diventati cimeli di famiglia e, avendo descritto quest’ultimo,
tenterò, se permettete, di narrarvi la tradizione
ereditata con il quadro.
Ci
sono poche figure su cui il mantello del romanticismo si drappeggia
in maniera più sgraziata che su quella del rozzo Schalken - il
grezzo ma abilissimo pittore ad olio, le cui opere dilettano i
critici del nostro tempo quasi quanto le sue maniere disgustavano le
persone raffinate del suo tempo. Tuttavia, quest’uomo, così rude,
così brusco, così trasandato al colmo della sua celebrità, nei
suoi giorni oscuri, ma più felici, aveva recitato il ruolo dell’eroe
in una folle storia d’amore, di mistero e di passione.
Quando
Schalken studiava sotto l’immortale Gerard Douw, era molto giovane
e, a dispetto de suo carattere flemmatico, si innamorò subito e
perdutamente della bella nipote del suo ricco maestro.
Rose
Velderkaust era ancora più giovane di lui, non avendo ancora
diciassette anni e, se la tradizione dice il vero, possedeva tutte
le dolci e morbide attrattive delle belle e bionde fanciulle
fiamminghe. Il giovane pittore l’amava sinceramente e
ardentemente. La sua onesta adorazione era ricambiata. Dichiarò il
suo amore e ottenne in cambio una balbettante confessione. Era il
pittore più felice e più orgoglioso di tuta la cristianità. Ma
c’era qualcosa che rovinava il suo entusiasmo: era povero e
sconosciuto. Non osava chiedere al vecchio Gerard la mano della sua
protetta. Doveva prima conquistarsi una reputazione e una
professionalità.
Pertanto,
aveva davanti a sé molte terribili incertezze e giorni difficili:
doveva farsi strada contro disperate probabilità. Ma aveva
conquistato il cuore della cara Rose
Velderkaust,
e la sua battaglia era vinta a metà. Non c’è bisogno di dire che
raddoppiò i suoi sforzi e la sua durevole celebrità prova come la
sua industriosità sia stata ripagata dal successo. I suoi
appassionati sforzi e ancora peggio, le speranze che li
incrementavano e li stimolavano erano, comunque, destinate a patire
un’improvvisa interruzione – di una natura così strana e
misteriosa da confondere ogni indagine e da gettare su quegli stessi
avvenimenti un’ombra di orrore soprannaturale.
Una
sera Schalken si era fermato più a lungo degli altri apprendisti, e
continuò a lavorare ancora nella stanza deserta. Siccome la luce del
giorno stava declinando, mise da parte i colori e si dedicò a
completare un disegno su cui aveva profuso sforzi straordinari. Era
una composizione religiosa e rappresentava le tentazioni di un
paffuto santo Antonio. Il giovane artista, comunque, sebbene privo
di raffinatezza, aveva, tuttavia, sufficiente discernimento per
essere insoddisfatto del suo lavoro, e molti erano le cancellature e
i miglioramenti che il santo e il diavolo avevano subito, tuttavia
invano. La grande e antiquata stanza era silenziosa e, con
l’eccezione di lui stesso, quasi priva dei suoi abituali
frequentatori. Un’ora era così trascorsa, quasi due, senza alcun
miglioramento. Il giorno era ormai tramontato e il crepuscolo stava
cedendo alle tenebre della notte. La pazienza del giovane pittore si
era esaurita ed egli stava davanti alla sua opera incompiuta,
arrabbiato e mortificato, con una mano affondata nelle ciocche dei
suoi lunghi capelli e l’altra che reggeva il pezzo di carboncino
che aveva così malamente eseguito il suo compito e che ora egli
strofinava, senza curarsi troppo delle striature che produceva, con
irata pressione sui suoi ampi pantaloni fiamminghi. “Maledetto il
soggetto!” esclamò il giovane, “maledetto il quadro, i diavoli,
il santo...”
In
quel momento, un breve e improvviso tirare su col naso proprio
accanto a lui lo fece girare bruscamente ed egli, adesso, per la
prima volta, si rese conto che i suoi sforzi erano stati osservati da
uno straniero. A circa un metro di distanza, e quasi dietro di lui,
c’era la figura di un uomo anziano con un mantello ed un cappello
conico ad ampie tese. Nella mano, protetta da uno spesso guanto da
schermitore, stringeva un lungo bastone da passeggio di ebano,
sormontato da quello che sembrava essere, dal momento che riluceva
flebilmente nella penombra, un massiccio pomo d’oro e sul petto,
attraverso le pieghe del mantello, luccicavano gli anelli di una
ricca catena dello stesso metallo. La stanza era così scura che non
si poteva intravvedere molto altro dell’aspetto di quella figura, e
il suo cappello proiettava sul volto un’ombra profonda. Non sarebbe
stato facile indovinare l’età dell’intruso, ma una massa di
capelli scuri che sfuggiva da sotto il suo nero cappello, come pure
la sua postura dritta, aiutavano a capire che i suoi anni non
potevano ancora essere più di sessanta, o giù di lì.
Nel
portamento c’era un’aria di severità e di importanza, mentre la
perfetta, marmorea immobilità della figura aveva qualcosa di
indescrivibilmente strano, potrei dire pauroso, che bloccò
efficacemente il colorito commento che era subito salito alle labbra
dell’irritato artista. Questi, pertanto, appena si ebbe
sufficientemente ripreso dalla sorpresa, chiese, civilmente, allo
straniero di sedersi e di fargli sapere se aveva qualche messaggio
per il suo maestro. “Dica a Gerard Douw,” disse lo straniere
senza minimamente cambiare atteggiamento, “che, se gli fa piacere,
Minheer Vanderhauseniii,
di Rotterdam, desidera parlare con lui domani sera a quest’ora, in
questa stanza, di argomenti importanti, questo è tutto.”

Lo
straniero, avendo concluso il suo messaggio, si voltò di colpo e,
con un passo veloce ma silenzioso, lasciò la stanza prima che
Schalken avesse il tempo di dire una parola in risposta. Il giovane
avvertì la curiosità di vedere in che direzione il cittadino di
Rotterdam si sarebbe incamminato dopo aver lasciato lo studio e a
tale scopo andò immediatamente alla finestra che controllava la
porta. Un atrio di considerevole ampiezza si frapponeva tra la porta
interna della stanza del pittore e l’ingresso che dava sulla
strada, così Schalken occupò il suo posto di osservazione prima che
il vecchio avesse eventualmente potuto raggiungere la strada. Guardò
in vano, comunque. Non c’era altra via d’uscita. Forse il vecchio
era sparito, oppure si nascondeva nei recessi dell’atrio per
qualche sinistro proposito? Quest’ultima suggestione riempì la
mente di Schalken con un vago disaggio che era così inspiegabilmente
intenso da renderlo timoroso di restare da solo nella stanza e
riluttante ad attraversare l’atrio.
Comunque,
con uno sforzo che appariva davvero sproporzionato per quella
situazione, prese la decisione di lasciare la stanza e, dopo aver
chiuso la porta e aver infilato la chiave in tasca, senza guardarsi
intorno, attraversò l’atrio che aveva così di recente, e forse
ancora, ospitato la persona del suo misterioso visitatore, osando a
malapena respirare finché arrivò in strada.
“Minheer
Vanderhausen!” disse Gerard Douw fra sé e sé, mentre l’ora
stabilita si avvicinava. “Minheer Vanderhausen, di Rotterdam! Non
ho mai saputo di quest’uomo fino a ieri. Cosa può volere da me? Un
dipinto, forse, essere ritratto, o un parente povero da mandarmi come
apprendista, o la valutazione di una collezione, oppure – suvvia,
non c’è nessuno a Rotterdam che mi lasci un’eredità. Va bene,
qualunque faccenda sia, lo sapremo subito.”
Era
ormai la fine della giornata e di nuovo ogni cavalletto, eccetto
quello di Schalken, era deserto. Gerard Douw andava su e giù per la
stanza con i passi irrequieti di un’impaziente attesa, a volte si
fermava per dare un’occhiata al lavoro di uno dei suoi apprendisti,
ma più spesso si metteva alla finestra per osservare i passanti che
transitavano nella viuzza in cui si trovava lo studio.
“Non
hai detto, Godfrey,“ esclamò Douw, dopo una lunga e fruttuosa
sorveglianza dal suo posto di osservazione e voltandosi verso
Schalken, “che mi aveva dato appuntamento alle sette secondo
l’orologio del municipio?”
“L’orologio
aveva appena rintoccato le sette quando lo vidi per la prima volta,
signore,” rispose l’allievo.
“È
quasi l’ora, quindi,” disse il maestro, consultando un cipollone
grande e tondo come un’arancia.
“
Minheer
Vanderhausen di Rotterdam, se non sbaglio.”
“Il
nome era questo.”
“Un
uomo anziano riccamente vestito?” proseguì pensoso Dow.
“Per
quel che ho potuto vedere,” rispose l’allievo, “non poteva
essere giovane, né molto vecchio, e il suo abbigliamento era ricco e
severo, come potrebbe essere confacente ad un cittadino agiato ed
importante.”
In
quel momento i sonori rintocchi dell’orologio del municipio
annunciarono, uno dopo l’altro, le sette. Gli occhi del maestro e
dell’allievo si diressero alla porta, ma fu solo quando l’ultimo
tocco della campana ebbe cessato di vibrare che Douw esclamò:
“Quindi,
in breve sua signoria si presenterà, cioè, se ha intenzione di
essere puntuale, altrimenti potresti aspettarlo tu, Godfrey, se ci
tieni a fare la sua conoscenza. Ma se invece, alla fine, si rivelasse
niente altro che una mascherata ordita da Vankarp, o un simile
burlone? Vorrei che tu avessi corso il rischio e avessi randellato
sonoramente il vecchio borgomastro. Scommetterei una dozzina di
bottiglie di vino del Reno che, in un batter d’occhio, sua grazia
si sarebbe tolta la maschera e invocato pietà in nome di una vecchia
amicizia.”
 |
autoritratto Gerrit Dou
|
“Eccolo
che arriva, signore,” lo ammonì Schalken a bassa voce, e in quello
stesso momento Gerard Douw si girò verso la porta e vide la stessa
figura che il giorno precedente aveva così inaspettatamente salutato
il suo allievo Schalken.
C’era
qualcosa nell’aria di quella figura che immediatamente convinse il
pittore che non c’era alcuna mascherata in quel caso e che si
trovava veramente in presenza di un uomo di valore e così, senza
esitazione, si tolse il cappello e salutando cortesemente lo
straniero, lo invitò a sedersi. Il visitatore agitò appena la mano,
come a ringraziare per la gentilezza, ma rimase in piedi.
“Ho
l’onore di fare la conoscenza di Minheer Vanderhausen di
Rotterdam?” disse Gerard Douw.
“Proprio
lui,” fu la laconica risposta del visitatore.
“Mi
è sembrato di capire che sua signoria desidera parlarmi,” continuò
Douw, “e sono qui su appuntamento per servirla.”
“È
un uomo fidato?” disse Vanderhausen, voltandosi verso Schalken, che
si trovava appena dietro il suo maestro,
“Certamente,”
rispose Gerard.
“Allora
ditegli di prendere questa scatola e di portarla al più vicino
gioielliere, o un orafo, per valutare il suo contenuto, e di
ritornare qui con un certificato di valutazione.”
Contemporaneamente mise un cofanetto largo circa trenta centimetri
tra le mani di Gerard Douw, che rimase altrettanto stupito sia del
suo peso che della strana repentinità con cui gli era stato
consegnato. Conformemente ai desideri dello straniero, lo depositò
nelle mani di Schalken e ripetendo le indicazioni ricevute, lo spedì
a sbrigare la sua commissione.
Schalken
mise il suo prezioso carico al sicuro sotto le pieghe del suo
mantello e percorrendo rapidamente due o tre viuzze, si fermò ad una
casa all’angolo, il cui piano inferiore era allora occupato dal
negozio di un orafo ebreo. Entrò nel negozio e invitando il piccolo
ebreo nell’oscurità del suo retrobottega, gli mise davanti il
cofanetto di Vanderhausen. Esaminato alla luce di una lampada,
apparve completamente ricoperto da un rivestimento di piombo, la cui
superficie esterna era graffiata, macchiata e quasi bianca per la
vecchiaia. Dopo averlo parzialmente rimosso, sotto di esso apparve
una scatola di un legno duro, che fu a sua volta aperta forzandola e
dopo aver rimosso due o tre strati di tessuto, scoprirono che il suo
contenuto era un mucchio di lingotti d’oro, strettamente allineati
e, come dichiarò l’orafo, della più perfetta qualità.

Ogni
lingotto venne attentamente esaminato dal piccolo ebreo, che sembrava
sentire un piacere epicureoiv
nel toccare e saggiare questi pezzi del glorioso metallo, e ognuno di
essi fu rimesso nella sua nicchia con l’esclamazione: “Mein Gott,
che perfezione! Non una briciola di lega… bellissimo, bellissimo!”
Alla fine il lavoro fu completato e l’ebreo certificò di suo pugno
che il valore dei lingotti sottoposti alla sua valutazione ammontava
a molte migliaia di talleri.
Con
il desiderato documento in tasca e la ricca scatola colma di oro
accuratamente stretta sotto il braccio e celata dal mantello,
Schalken ripercorse la strada fatta ed entrando nello studio, trovò
il suo maestro e lo straniero immersi in una fitta conversazione.
Non
appena Schalken aveva lasciato la stanza per eseguire la commissione
che gli era stata affidata, Vanderhausen si era rivolto a Gerard Douw
nei seguenti termini. “Posso trattenermi con lei questa notte solo
per pochi minuti e così le dirò brevemente il motivo per cui sono
venuto. Circa quattro mesi fa, lei visitò la città di Rotterdam e
fu allora che vidi sua nipote, Rose Velderkaust, nella chiesa di san
Lorenzov.
Desidero sposarla e se la convincerò che sono più ricco di ogni
altro marito che lei possa mai sognare per la giovane, mi aspetto che
sostenga la mia causa con la sua autorità. Se lei approva la mia
proposta, deve accettarla qui ed ora, perché non non ho tempo per
congetture o indugi.”
Gerard
Douw rimase enormemente stupito dalla natura della proposta di
Minheer Vanderhausen, ma non osò mostrarsi sorpreso, perché oltre
ai motivi suggeriti da prudenza ed educazione, il pittore provava un
senso di gelo e oppressione come quello che si dice sopraggiungere
quando ci si trovi inconsapevolmente vicini all’oggetto di una
naturale antipatia – un’indefinita ma opprimente sensazione, che
lo rendeva molto riluttante a dire qualcosa che potesse
ragionevolmente offenderlo.
“Non
ho dubbi,” disse Gerard, dopo due, tre ehm preliminari, “che
l’unione che mi propone sarebbe tanto vantaggiosa quanto onorevole
per mia nipote, ma deve sapere che lei ha una sua propria volontà e
potrebbe non acconsentire a quello che noi possiamo progettare per il
suo benessere.”
“Non
cerchi di imbrogliarmi, signor pittore,” disse Vanderhausen; “ È
il suo tutore – lei è sotto la sua tutela – sarà mia se vuole
che lo sia.”
L’uomo
di Rtterdam avanzò di qualche passo mentre parlava e Gerard Douw, a
malapena sapeva perché, dentro di sé pregò per un veloce ritorno
di Schalken.
“Ho
intenzione,” disse il misterioso gentiluomo, “di mettere seduta
stante nelle sue mani una prova della mia ricchezza, e una garanzia
del mio agire munifico nei riguardi di sua nipote. Il giovanotto
ritornerà fra qualche minuto con una somma cinque volte superiore
alla ricchezza che sua nipote ha diritto di aspettarsi da un marito.
Rimarrà in mano sua, insieme alla dote, e potrà disporre delle due
somme come meglio conviene all’interesse della ragazza, che ne sarà
proprietaria esclusiva finché vive, non è generoso?”
Douw
acconsentì e dentro di sé riconobbe che la fortuna era stata
straordinariamente gentile con sua nipote: lo straniero, pensò,
doveva essere ricco e generoso e una tale offerta non era da
disprezzare, sebbene fatta da uno eccentrico e di non bella presenza.
Rose non aveva grosse pretese perché aveva una dote modesta che
doveva esclusivamente alla generosità di suo zio, né aveva alcun
diritto di sollevare eccezioni in ragione della sua nascita, perché
le sue origini erano ben lungi dall’essere splendide e in quanto
alle altre obiezioni, Gerard decise di non ascoltarle nemmeno per un
attimo, e in effetti, secondo gli usi dell’epoca, era nel suo pieno
diritto farlo.
“Signore,”
disse rivolgendosi allo straniero, “la sua offerta è generosa, e
qualunque esitazione io possa avere ad accettarla immediatamente,
nasce esclusivamente dal fatto che non ho l’onore di sapere niente
riguardo alla sua famiglia o alla sua posizione sociale. Argomenti
riguardo ai quali, naturalmente, lei potrà darmi soddisfazione senza
alcuna difficoltà.”
“Riguardo
alla mia rispettabilità,” disse lo straniero seccamente, “deve
darla per scontata al momento, non mi importuni con altre domande,
non potrà scoprire niente altro al mio riguardo se non quello che io
sceglierò di rendere noto. Avrà sufficiente rassicurazione sulla
rispettabilità – la mia parola, se siete uomo d’onore, il mio
oro, se siete avido .”
“Un
vecchio gentiluomo suscettibile,” pensò Douw, “deve averla vinta
lui ma, tutto considerato, non ho motivo di declinare la sua
offerta. Non darò la mia parola se non sarà necessario, comunque.”
“Non
darà la sua parola se non sarà necessario,” disse
Vanderhausen, pronunciando stranamente le stesse parole che erano
appena passate per la mente del suo interlocutore, “ma lo farà se
sarà necessario, presumo, e le dimostrerò che lo ritengo
indispensabile. Se sarà
soddisfatto dell’oro che ho intenzione di lasciare in mano sua e se
non vuole che la mia proposta di matrimonio venga ritirata
immediatamente, prima che io lasci questa stanza deve sottoscrivere
questo contratto.”
Ciò
detto, mise nelle mani del maestro un foglio il cui contenuto
dichiarava che Gerard Douw
si assumeva
l’impegno di dare in
moglie Rose Velderkaus a Wilken Vanderhausen di Rotterdam, e così
via, entro una settimana dalla data ivi
apposta.Mentre
il pittore era impegnato a leggere questo contratto, alla luce
tremolante di una lampada ad
olio sulla parete opposta della stanza, Schalken, come abbiamo detto,
entrò nello studio e dopo
aver consegnato la scatola e la perizia dell’ebreo nelle mani dello
straniero, stava per ritirarsi, quando Vanderhausen
gli ordinò di attendere, e
consegnati la scatola e il certificato a Gerard Douw, rimase in
silenzio finché quest’ultimo, dopo averli esaminati entrambi, non
non si persuase del
valore del pegno lasciato nelle sue mani. Alla fine disse,
“È
soddisfatto?”
Il
pittore disse che gli avrebbe fatto piacere avere un altro giorno per
decidere.
“Nemmeno
un’ora,” disse freddamente il corteggiatore.“Bene,”
disse Douw, con un sforzo doloroso, “sono soddisfatto, affare
fatto.”
“Allora
firmi immediatamente,” disse
Vanderhausen, “Perché
sono stanco.”
Contemporaneamente,
tirò fuori un astuccio con
il necessario per scrivere e
Gerard firmò l’importante
documento.
“Che
questo giovane sia testimone del nostro patto,” disse il vecchio e
Godfrey Schalken attestò
inconsapevolmente
lo strumento
che lo avrebbe separato per sempre dalla sua cara Rose
Velderkaust.
Essendo
stato così perfezionato il contratto, lo sconosciuto
visitatore ripiegò il foglio e lo mise al sicuro in una tasca
interna.
“Le
farò visita domani sera alle nove, a casa sua, Gerard Douw, e
incontrerò l’oggetto del nostro contratto,” e
così dicendo Wilken
Vanderhausen uscì dalla
stanza a passi rigidi ma veloci.
Schalken,
desideroso di sciogliere i suoi dubbi, si era piazzato accanto alla
finestra allo scopo di controllare l’uscita sulla strada, ma
l’esperimento servì solo a rafforzare i suoi sospetti, perché il
vecchio non uscì dalla porta. Era un fatto davvero strano,
singolare, anzi pauroso. Lui e il maestro tornarono a casa insieme e
non parlarono molto lungo la strada, perché ognuno aveva i
suoi argomenti di riflessione, ansia e speranza. Schalken, tuttavia,
non conosceva la sciagura
che minacciava i suoi progetti più
cari.
Gerard
Douw non sapeva niente
dell’affetto che era sbocciato tra il
suo allievo
e la sua protetta, e
anche se l’avesse saputo, non
è certo che l’avrebbe considerato un serio ostacolo ai desideri di
Minheer Vanderhausen. I
matrimoni, lì e allora, erano considerati oggetto di scambio e
calcolo, e agli occhi del tutore fare di un affetto reciproco un
elemento essenziale in un
contratto del genere sarebbe
sembrato tanto assurdo quanto
lo sarebbe stato redigere
le sue stipule
e le sue ricevute in termini romantici.Il
pittore, tuttavia, non comunicò a sua nipote l’importante passo
che aveva fatto in sua vece, un’omissione causata non da una
paventata
opposizione da parte sua, ma solamente dalla ridicola consapevolezza
che se gli avesse chiesto una descrizione del promesso sposo, sarebbe
stato costretto a confessare che non aveva visto nemmeno una volta la
sua faccia e se convocato,
avrebbe trovato assolutamente impossibile identificarlo. Il
giorno seguente, Gerard Douw, dopo pranzo,
convocò sua nipote e dopo
averla osservata da capo a
piedi con aria soddisfatta, la
prese per mano, e guardando
il suo grazioso volto
innocente, con un sorriso gentile, disse, “Rose,
ragazza mia, quel tuo visino farà la tua fortuna,” Rose
arrossì e sorrise. “Un tale volto e un tale carattere raramente
vanno insieme e quando succede, il
risultato è un incantesimo d’amore, poche teste o cuori possono
resistere: credimi, sarai presto sposa, ragazza. Ma queste sono
sciocchezze e non ho tempo da perdere, così fai preparare la sala
grande per le otto di stasera e dai ordini per cenare alle nove.
Aspetto un amico e,
ascoltami, vestiti bene. Non voglio che
pensi che siamo poveri o sciatti.” Con queste parole la lasciò e
si diresse alla stanza in cui lavoravano i suoi allievi.
Quando
sopraggiunse la sera, Gerard
chiamò
Schalken, che stava per
avviarsi alla sua buia e squallida
dimora
e gli chiese di restare
a cenare a
casa sua con Rose e
Vanderhausen. Naturalmente
l’invito fu accettato e Gerard Douw e il suo allievo si
portarono
subito
nella bella, e anche allora, antica stanza che era stata preparata
per il ricevimento dello straniero. Un allegro fuoco bruciava nel
caminetto e un po’ di
lato, un tavolo di antica fattura, che brillava alla luce del fuoco
come oro brunito, era in attesa
della cena, la cui preparazione stava
andando avanti, e
disposte
con esatta regolarità, c’erano delle sedie dall’alto schienale, la cui bruttezza era
ampiamente compensata dalla loro comodità. La
piccola compagnia, composta da Rose, suo zio e l’artista, aspettava
l’arrivo del previsto
visitatore con considerevole impazienza.
Finalmente
giunsero
le nove e con esse
una chiamata alla porta sulla strada, a
cui venne data immediata risposta, seguita da un calpestio lento ed
energico lungo la scala, i
passi si mossero pesantemente attraverso l’atrio, la porta della
stanza in cui era riunita la compagnia che abbiamo descritto si aprì
lentamente ed ecco entrare
una figura che fece sobbalzare, quasi inorridire, quei flemmatici
olandesi e fece quasi urlare Rose di paura. Era
una sagoma
abbigliata nello stile di Minheer
Vanderhausen: l’atteggiamento,
l’andatura, l’altezza erano le stesse, ma i lineamenti non erano
mai stati visti da nessuno di loro prima.
Lo
straniero si fermò sulla porta della stanza e mostrò la sua figura
e il suo volto nella loro interezza. Indossava un mantello di panno
scuro, corto e ampio, che gli arrivava quasi alle ginocchia; le gambe
erano coperte da calze di seta rosso scuro, e le scarpe erano
adornate da rose dello stesso colore. L’apertura
del mantello mostrava un abito di stoffa molto scura, forse nera, e
le mani erano infilate in un paio di guanti di pesante cuoio, che
arrivavano ben al disopra del polso, secondo la foggia dei guanti da
scherma. In una mano teneva il bastone da passeggio e il cappello,
che aveva tolto, mentre l’altra pendeva pesantemente lungo il
fianco. Una massa di capelli grigi scendeva dalla testa in lunghe
trecce e si poggiava sulle pieghe di una gorgiera inamidata, che
nascondeva completamente il collo.
Fin
qui tutto bene, ma la faccia! La pelle del viso aveva il
plumbeo colore
bluastro che è talvolta
causato da farmaci metallici somministrati in quantità eccessivevi;
gli occhi mostravano un’insolita preponderanza
di bianco torbido e avevano un’indefinibile aria di follia; il
colore delle labbra, accordandosi naturalmente a quello del volto
era, pertanto, quasi nero; l’espressione del volto era sensuale,
malvagia e perfino diabolica. La
cosa sorprendente fu che all’illustre straniero importasse così
poco mostrare il suo volto
e che durante la sua visita non tolse nemmeno una volta i guanti.
Fermatosi un attimo presso
la porta, infine Gerard Douw ritrovò il fiato e la calma per dargli
il benvenuto e con un silenzioso cenno della testa, lo straniero
entrò nella stanza.
C’era
qualcosa di indescrivibilmente singolare, perfino orribile, in ogni
suo movimento, qualcosa di indefinibile, che era innaturale,
disumano: era come se le sue membra fossero guidate e dirette da uno
spirito non avvezzo a gestire la macchina del corpo. Lo straniero
parlò a malapena durante la sua visita, che non superò la mezz’ora,
e lo stesso ospite riuscì a stento a radunare abbastanza coraggio
per pronunciare le poche necessarie formule di saluto e cortesia e,
infatti, tale era il terrore nervoso che la presenza di Vanderhausen
ispirava, che sarebbe bastato pochissimo a far fuggire dalla stanza
tutti i suoi intrattenitori. Questi, comunque. non avevano fino ad
ora perso il loro autocontrollo al punto da non notare due strane
peculiarità del loro visitatore. Mentre era lì, le sue palpebre non
si erano chiuse una sola volta e, in verità, nemmeno minimamente
mosse; inoltre, c’era un’immobilità mortale in tutta la sua
persona, dovuta all’assenza del movimento di espansione del torace,
causato dal processo della respirazione. Queste due peculiarità,
sebbene quando vengono descritte possono apparire insignificanti,
produssero un effetto molto impressionante e spiacevole quando furono
viste e osservate. Vanderhausen,
alla fine, liberò il
pittore di Leida dalla sua infausta presenza e,
con non poco senso di sollievo, la
piccola comitiva sentì chiudersi la porta d’ingresso dietro di
lui.
“Caro
zio,” disse Rose, “che uomo spaventoso! Non vorrei rivederlo per
tutto l’oro del mondo.”
“
Zitta,
sciocca ragazza,” disse Douw, che
non si sentiva certo a suo agio.
“Un uomo può essere brutto come il diavolo, se il suo cuore e le
sue azioni sono buone, egli
vale tutti i profumati giovincelli dal bel faccino che passeggiano
lungo il Mallvii.
Rose, ragazza mia, è pur vero che non ha il tuo bel viso, ma
lo conosco per essere ricco
e generoso, e anche se fosse dieci volte più brutto,
queste due virtù sarebbero sufficienti a controbilanciare ogni sua
deformità, e anche se non sufficienti a mutare l’aspetto e il
colorito dei suoi lineamenti, sarebbero
almeno sufficienti a impedire che vengano considerati troppo
negativamente.” “Lo
sa, zio,” disse Rose, “quando lo vidi fermo sulla porta, non
potei togliermi dalla testa che stavo guardando quella vecchia figura
di legno dipinto che mi spaventava tanto nella chiesa di san Lorenzo
a Rotterdam.”
Gerard
rise, sebbene non potesse impedirsi di riconoscere dentro di sé la
correttezza di quel paragone. Era comunque deciso, per quel che
poteva, a contenere la tendenza di sua nipote a dilungarsi sulla
bruttezza del suo futuro sposo, sebbene non fosse per niente
contento, e altrettanto stupito, di vedere che la ragazza apparisse
totalmente esente da quel misterioso terrore dello straniero che, non
poteva nasconderselo, spaventava notevolmente sia lui che il suo suo
allievo Godfrey Schalken.
Il
giorno seguente, di buon mattino, arrivarono per Rose, da diversi
quartieri della città, ricchi doni in
sete, velluti, gioielli e così via,, insieme ad un plico diretto
Gerard Douw, che una volta aperto, si scoprì contenere un contratto
di matrimonio, formalmente redatto, tra Wilken
Vanderhausen del Boom-quayviii
di
Rotterdam, e Rose Velderkaust
di
Leida, nipote
di GerardDouw, maestro nell’arte della pittura, anche
lui della stessa città,
e contenente impegno formale da parte di Vanderhausen
di
fare un’elargizione
a favore della sua sposa, molto più splendida
di quella
che in
precedenza
avesse
lasciato credere possibile al suo tutore,
e la
cui rendita
doveva essere
garantita
a
suo uso esclusivo
nella
maniera più ineccepibile possibile – dal momento che il danaro
veniva consegnato nelle mani dello stesso Gerard Douw.
Non
ho scene sentimentali da descrivere, né crudeltà di tutori, né
magnanimità
di pupille, né
tormento
o passione di amanti. Ciò
che sto per narrarvi è una storia fatta
di
meschinità, superficialità e mancanza di cuore. Meno
di una settimana dopo il primo colloquio che vi ho descritto, il
contratto di matrimonio fu onorato, e Schalcken
vide il premio che avrebbe voluto assicurarsi a rischio della propria
vita portato
via in pompa magna dal suo ripugnante rivale. Si
assentò da scuola per due o tre giorni, poi ritornò e lavorò, se
non
con
meno allegria,
con
molta più accanita risoluzione di prima: lo stimolo dell’amore
aveva ceduto il posto a quello dell’ambizione.
I
mesi passarono e, contrariamente
alle
sue aspettative e, di certo, all’esplicita
promessa degli sposi,
Gerard Douw non ebbe notizia di sua nipote e del suo onorevole
marito.
Gli
interessi
del danaro, che avrebbero
dovuto essere reclamati
ogni tre mesi, giacevano
non richiesti
nelle sue mani. Incominciò a diventare estremamente preoccupato. Era
perfettamente a conoscenza dell’indirizzo di Minheer
Vanderhausen a
Rotterdam: dopo qualche incertezza, finalmente si decise ad
intraprendere il viaggio fin là – una impresa semplice
e facilmente portata a temine – allo
scopo di accertarsi della salute
e dell’agiatezza della sua pupilla, per cui nutriva un affetto
forte e sincero. Tuttavia,
la sua ricerca fu vana: nessuno a Rotterdam aveva mai sentito parlare
di Minheer
Vanderhausen. Gerard Douw non
lasciò nessuna casa intentata,
ma tutto in vano. Nessuno
poté
dargli una
qualsiasi
informazione riguardante
l’oggetto della sua indagine e fu costretto a tornare a Leida più
confuso e più ansioso di quando l’aveva lasciata.
 |
Boom Quay Rotterdam |
Al
suo arrivo corse allo stabilimento in cui Vanderhausen
aveva
affittato la massiccia sebbene, considerati i tempi, lussuosissima
carrozza che il corteo nuziale aveva impiegato per portarli a
Rotterdam. Dal cocchiere del veicolo apprese che,
avendo proceduto a tappe lente, erano arrivati nei pressi di
Rotterdam a tarda sera, ma prima di entrare in città, e
mentre erano
ormai a meno di un miglio, un piccolo gruppo di uomini, vestiti
sobriamente e all’antica, con barbe e
baffi
a punta,
piazzatisi nel mezzo della strada, avevano impedito alla carrozza di
proseguire. Il cocchiere tirò le redini ai cavalli, con
il
terrore, a causa dell’ora
tarda
e della solitudine del luogo, che le loro intenzioni fossero
malvagie.
Le
sue paure, comunque, furono in qualche modo alleviate quando vide che
quegli strani uomini trasportavano una grossa
portantina,
di antica foggia, che posarono immediatamente a terra, al che lo
sposo, dopo aver aperto lo sportello della carrozza dall’interno,
scese giù, e aiutata la sposa a fare lo stesso, la condusse, mentre
piangeva amaramente e si torceva le mani, alla portantina, dove
entrarono tutti e due. La
portantina
fu allora sollevata dagli uomini che la circondavano e condotta
speditamente
verso la città, e prima che fosse arrivata
molto
lontano, l’oscurità la
nascose alla vista del cocchiere olandese. Questi,
all’interno
della
carrozza,
trovò una borsa il cui contenuto ripagava tre volte il noleggio di
veicolo
e uomo. Non
vide e non poté dire altro di Minheer
Vanderhausen e
della sua bella signora.
Il
mistero era fonte di profonda ansietà e perfino di dolore per Gerard
Douw. Evidentemente,
Vanderhausen si
era comportato in modo fraudolento con lui,
sebbene non riuscisse
a capire a quale scopo. Si
chiedeva seriamente
fino a che punto
fosse possibile che un uomo con un simile aspetto potesse essere
tutto tranne che
un furfante, e
ogni giorno che passava senza notizie da o di sua nipote, invece di
indurlo a dimenticare le sue paure, al contrario tendeva ad
aggravarle sempre di più. La
perdita della sua lieta compagnia tendeva
anche a deprimerlo, e allo scopo di scacciare la
malinconia che si insinuava nella sua mente, dopo aver
terminato le sue attività
quotidiane, era spesso
solito chiedere a Schalken
di accompagnarlo a casa e di condividere la sua
altrimenti solitaria cena.
Una
sera, il pittore ed il suo
allievo erano seduti accanto al fuoco, dopo aver terminato una
piacevole cena, e si erano abbandonati alla silenziosa e deliziosa
malinconia della digestione, quando le loro meditazioni furono
interrotte da un forte rumore alla porta d’ingresso, simile a
quello causato da qualcuno che vi si scagliasse violentemente e
ripetutamente contro. Un domestico era corso senza indugio per
verificare la causa del trambusto, e lo sentirono interrogare due o
tre volte la persona che si era presentata alla loro porta, ma senza
ottenere alcuna risposta se non una prolungata reiterazione dei
rumori. Lo sentirono aprire
la porta d’ingresso e subito dopo ci fu un leggero
e un rapido rumore di passi lungo le scale. Schalken
si avvicinò alla porta. Questa si aprì prima che potesse arrivarci
e Rose fece irruzione nella stanza. Aveva un aspetto selvaggio,
stravolto
e macilento per la paura e la spossatezza,
ma il suo abito li sorprese anche più della sua inattesa
apparizione. Si trattava di
una specie di vestaglia di lana bianca, chiusa intorno al collo e che
scendeva fino al pavimento, estremamente in disordine e sporca per il
viaggio. La povera creatura
era appena entrata nella camera, quando
cadde priva di sensi sul pavimento. Riuscirono a farla rinvenire con
una certa difficoltà e nel ritornare in sé, immediatamente gridò,
con un tono di terrore più che di mera impazienza:
“Vino!
Vino! Presto, o sono perduta!”
Stupiti
e quasi impauriti per la strana agitazione con cui quella richiesta
era stata fatta, somministrarono
il vino immediatamente
secondo i suoi desideri e
lei lo bevve con una fretta ed un’avidità che li sorprese. L’aveva
appena mandato giù, quando gridò, con la stessa urgenza: “Cibo,
per amor di Dio, cibo, subito, o morirò.”
Sul
tavolo c’era un bel pezzo di arrosto e Schalken
iniziò subito a tagliarne un po’ ma fu anticipato: non appena lei
lo vide, lo afferrò,
un’immagine
oltremodo orribile
della fame, e con le mani, e perfino con i denti, strappò via la
carne e la inghiottì.
Quando
il parossismo della fame si fu un poco calmato, improvvisamente la
ragazza fu sopraffatta dalla vergogna, o forse era
stata turbata e spaventata da pensieri
molto più preoccupanti,
perché iniziò a piangere
amaramente e a torcersi le mani.
“Oh,
mandate a chiamare un ministro di Dio,” disse, “non sarò salva
finché non arriva, mandatelo a cercare urgentemente.”
Gerard
Douw inviò immediatamente
un messo e convinse sua nipote a permettergli di cederle la sua
camera da letto. Inoltre, la persuase a ritirarcisi
immediatamente per riposare: il suo consenso fu ottenuto a patto che
non l’avrebbero lasciata sola nemmeno per un momento.
“Oh,
se il sant’uomo
fosse qui,” disse, “potrebbe liberarmi: i morti e i vivi non
potranno mai essere uno: Dio lo ha proibito.” Con queste misteriose
parole si arrese alla loro volontà, e tutti insieme si
avviarono verso la camera che Gerard Douw le aveva assegnato.
“Non
lasciatemi
nemmeno per un momento,” disse, “sarò
perduta per sempre se lo farete.”
Alla
camera di Gerard Douw si arrivava attraverso uno spazioso
appartamento, dove stavano per entrare. Lui e Schalken avevano in
mano una candela, pertanto l’ambiente circostante era
sufficientemente illuminato. Stavano per entrare nell’ampia camera
che, come ho detto, comunicava con l’appartamento di Douw, quando
Rose si fermò improvvisamente e, con un sussurro che li fece
entrambi tremare di orrore, disse:
“Oh
Dio! è qui! è qui! guardate, guardate! Eccolo”
Indicò
la porta della camera interna e Schalken credette di vedere una forma
scura e indefinita scivolare in quell’appartamento. Sguainò
la spada e, alzando la candela in modo da illuminare
con maggior chiarezza gli
oggetti della
stanza, entrò nella camera
in cui era scivolata l’ombra. Non
c’era nessuno lì
– niente se non i mobili che appartenevano alla stanza, e tuttavia
non poteva essersi ingannato sul fatto che qualcosa era entrata  |
Nosferatu |
in
quella camera prima di loro.
Un terrore ammorbante scese su di lui e grosse gocce di sudore freddo
gli ricoprirono la fronte, né servì
a calmarlo l’aumentata
insistenza e sofferenza della preghiera con cui Rose li implorava di
non lasciarla nemmeno per un momento. “L’ho
visto,” disse la ragazza, “è qui, non posso essermi sbagliata,
lo conosco, è vicino a me, è qui con me, è nella stanza. Allora,
per amor di Dio, se volete salvarmi, non allontanatevi dal mio
fianco.”
Alla
lunga, riuscirono a convincerla a stendesi sul letto, dove continuava
ad insistere che restassero con lei. Pronunciava spesso frasi
incoerenti ripetendo continuamente, “Il morto e il vivo non possono
essere uno: Dio lo ha proibito.” E poi di nuovo, “Riposo per chi
veglia – sonno per i sonnambuli.” Continuò a pronunciare queste
e simili misteriose frasi spezzate finché non arrivò il prete.
Gerard Douw iniziò a temere, cosa abbastanza naturale, che il
terrore o i maltrattamenti avevano sconvolto la mente della povera
ragazza, ed era quasi certo, per la repentinità della sua comparsa,
per l’inappropriatezza dell’ora e, soprattutto, a causa
dell’irruenza e del terrore insiti nel suo modo di fare, che fosse
riuscita a fuggire da un qualche luogo di contenzione per matti, e
avesse il pressante terrore di essere inseguita.
Decise
di convocare un consulto medico non appena la mente di sua nipote si
fosse in qualche modo calmata grazie all’intervento del prete, la
cui presenza lei aveva aveva così ardentemente desiderato. E finché
questo obbiettivo non fu raggiunto, non si avventurò a porle alcuna
domanda che, ravvivando ricordi orribili e dolorosi, potesse
eventualmente aumentare la sua agitazione.
Il prete arrivò subito –
un uomo di aspetto ascetico e di venerabile età – una persona che
Gerard Douw rispettava moltissimo, visto che egli era un esperto
polemista - sebbene forse più temuto come combattente che amato come
cristiano – di immacolata moralità, cervello fine, e cuore di
ghiaccio. Entrò nella camera che comunicava con quella in cui
giaceva Rose che, non appena arrivò, gli chiese di pregare per lei,
come avrebbe fatto per una nelle mani di Satana e che poteva sperare
di essere salvata solo dal cielo.
Affinché
possiate capire con chiarezza tutte le circostanze dell’avvenimento
che sto per narrarvi, è necessario stabilire le relative posizioni
di tutti i soggetti ivi coinvolti. Il vecchio prete e Schalken erano
nell’anticamera di cui vi ho appena parlato; Rose giaceva nella
camera interna, la cui porta era aperta, e accanto al letto, per sua
pressante richiesta, stava il suo tutore; una candela bruciava nella
camera da letto e tre erano accese nell’appartamento esterno. A
questo punto, l’anziano si schiarì la voce come se stesse per
cominciare a parlare, ma prima che avesse il tempo di iniziare,
un’improvvisa corrente d’aria spense la candela che serviva ad
illuminare la stanza in cui giaceva la povera ragazza e lei, con
precipitoso allarme, esclamò:
“Godfrey,
porta un’altra candela, l’oscurità è pericolosa.”
Gerard
Douw, dimenticando per un momento le sue ripetute ingiunzioni,
seguendo l’impulso del momento, si allontanò dalla camera da letto
per procurarle ciò che lei desiderava.
“Oh
Dio, non andate, caro zio,” gridò l’infelice fanciulla, e
contemporaneamente saltò giù dal letto e gli corse dietro allo
scopo di agguantarlo e fermarlo. Ma l’allarme arrivò troppo tardi,
perché lo zio aveva appena oltrepassato la soglia e sua nipote aveva
avuto a stento il tempo di lanciare quell’urlo di allarme, quando
la porta che divideva le due camere si chiuse violentemente dietro di
lui, come se fosse stata colpita da una violenta raffica di vento.
Lui e Schalken corsero verso la porta, ma i loro disperati sforzi
congiunti non riuscirono nemmeno a scuoterla. Dalla camera interna
usciva un grido dopo l’altro, con tutta la penetrante intensità di
un disperato terrore. Schalken e Douw impiegarono tutto il loro
vigore per sfondare la porta, invano. Non c’erano rumori di lotta
all’interno, ma le urla sembravano aumentare di intensità e,
contemporaneamente, sentirono i chiavistelli della finestra che
venivano tirati e la finestra stessa stridere sul davanzale come se
venisse spalancata. Un ultimo urlo così lungo, penetrante e
agonizzante da sembrare ben poco umano, uscì dalla stanza e
improvvisamente seguì un silenzio di morte. Sentirono un passo
leggero attraversare la camera, come dal letto alla finestra, e quasi
nello stesso istante la porta si aprì cedendo alla pressione esterna
dei due uomini, facendoli quasi precipitare nella stanza. Era vuota.
La finestra era aperta e Schalken saltò su una sedia e guardò giù
nella strada e nel canale sottostanti. Non vide nessuno, ma vide, o
pensò di vedere, le acque dell’ampio canale chiudersi, anello dopo
anello, in ampi cerchi, come se un momento prima fossero state
agitate dall’immersione di un corpo pesante.
Dopo
quella sera, non si trovò traccia di Rose, né fu scoperto o tanto
meno ipotizzato niente di certo riguardo al suo misterioso
corteggiatore – né si presentò alcun indizio grazie a cui
dipanare i grovigli di quel rompicapo e arrivare alla sua soluzione.
Ma ci fu un episodio che, sebbene non sarà accolto dai nostri
razionali lettori in sostituzione di una prova, tuttavia provocò
un’impressione forte e durevole nella mente di Schalken.
Molti
anni dopo gli avvenimenti che vi abbiamo descritto, Schalken, che
allora risiedeva molto lontano, ricevette notizia formale della morte
di suo padre e del suo previsto funerale in un determinato giorno
nella chiesa di Rotterdam. Era necessario che il corteo funebre, che
come si comprenderà facilmente non era molto numeroso, affrontasse
un lungo viaggio. Il giorno in cui il funerale doveva avere luogo,
Shalken arrivò a Rotterdam con gran difficoltà e in ritardo. Ma il
corteo non era ancora arrivato. Il giorno tramontò e ancora non si
faceva vedere. Shalken
camminò fino alla chiesa; la trovò aperta; era stato dato avviso
dell’arrivo del funerale ed era stata aperta la cripta in cui il
corpo doveva essere deposto. Il sacrestano, vedendo un gentiluomo ben
vestito che aveva intenzione di partecipare alle attese esequie,
percorrendo la navata laterale della chiesa, lo invitò con fare
ospitale a condividere con lui il conforto di un fuoco scoppiettante
che, come era sua abitudine durante l’inverno in simili occasioni,
aveva acceso nel caminetto di una camera in cui era solito attendere
l’arrivo di tali orribili ospiti e che comunicava, tramite una
rampa di scale, con la cripta sottostante. Schalken e il suo ospite
si sedettero in questa stanza, e il sacrestano, dopo alcuni
infruttuosi tentativi di intavolare una conversazione, fu costretto a
dedicarsi al suo tabacco e alla sua pipa per dare sollievo alla sua
solitudine. A dispetto del suo dolore e delle sue preoccupazioni, la
fatica di un viaggio precipitoso di circa quaranta ore ebbe
gradualmente la meglio sulla mente e sul corpo di Godfrey Schalken,
che cadde in un sonno profondo da cui fu svegliato da qualcuno che lo
scuoteva gentilmente per la spalla. Dapprincipio pensò che lo avesse
chiamato il vecchio sacrestano, ma costui non era più nella stanza.
Si
alzò, e appena riuscì a vedere con chiarezza quello che era intorno
a lui, intravide una forma femminile, vestita con una specie di
leggera vestaglia bianca, parte della quale era acconciata in modo da
formare un velo, e in mano aveva una lampada. Si stava lentamente
allontanando da lui, in direzione della rampa di scale che conduceva
alle cripte. Alla vista di quella figura, Schalken provò un vago
sgomento e, allo stesso tempo, un irresistibile impulso a seguirla.
La seguì verso le cripte, ma quando questa raggiunse la cima delle
scale, lui si fermò, anche la figura si fermò e, voltandosi
gentilmente, mostrò, alla luce della lampada che aveva in mano, il
volto e i lineamenti del suo primo amore, Rose Velderkaust. .jpg) |
Brugghen-Donna con candela e croce |
Non c’era
niente di orribile, o triste, nel suo aspetto. Al contrario, aveva lo
stesso sorriso malizioso che, molto tempo prima, soleva incantare
l’artista nei suoi giorni felici. Un sentimento di stupore e
curiosità, troppo intenso per resistervi, lo spinse a seguire lo
spettro, se di uno spettro si trattava. Lei scese le scale, lui la
seguì e lei, girando a destra, attraverso uno stretto passaggio, lo
condusse, con sua infinita sorpresa, in quello che sembrava essere un
antiquato appartamento olandese, come quelli che i dipinti di Gerard
Douw erano serviti ad immortalare.
Intorno
alla stanza era disposta una quantità di costoso mobilio antico ed
in un angolo c’era un letto a baldacchino, circondato da pesanti
tende di tessuto nero; la figura si voltava spesso verso di lui,
sempre con lo stesso sorriso malizioso, e quando arrivò accanto al
letto, scostò le tende e, alla luce della lampada che indirizzò al
suo interno, mostrò al terrorizzato pittore, seduta dritto in mezzo
al letto, la figura livida e demoniaca di Vanderhausen. Appena lo
vide Schalken cadde privo di sensi sul pavimento, dove rimase finché,
il mattino seguente, fu trovato da persone incaricate di chiudere gli
accessi alle le cripte. Giaceva in una cella di considerevole
ampiezza, che non era stata usata da molto tempo ed era caduto
accanto ad una grossa bara supportata da piccoli pilastri, come
precauzione contro l’attacco dei vermi.
Fino
al giorno della sua morte Schelken rimase convinto della veridicità
della visione a cui aveva assistito e ha lasciato dietro di lui una
singolare prova dell’impressione che aveva prodotto nella sua
immaginazione in un dipinto eseguito poco dopo l’episodio che vi ho
narrato e che è prezioso non solo perché possiede le
caratteristiche che hanno reso ambiti i quadri di Schalken, ma
soprattutto perché presenta un ritratto del suo prima amore, Rose
Velderkaust, il cui misterioso fato rimarrà per sempre materia di
speculazione.
FINE
i
Perifrasi
tratta dal libro di Giobbe
in
cui il patriarca
afferma
che
la
fede l'amore e la consacrazione a Dio sono possibili anche quando
Egli non ci favorisce e non ci accontenta in tutte le cose.
Giobbe
9:32
“Poiché
non è uomo come me, al quale io possa replicare:
Presentiamoci
alla pari in giudizio".
33Non c'è fra noi due
un arbitro
che ponga la mano su di noi.
34Allontani
da me la sua verga,
che non mi spaventi il suo terrore”
ii
Gerrit Dou (1613 – 1675), fu allievo di Rembrandt e
maestro di Schalken. Divenne famoso per i suoi quadri in cui
rappresentava scene notturne alla luce di candela, tecnica ripresa
con successo dal suo allievo
iii
"Minheer"
e
"mynheer" (che
appare nella versione del
1880) sono
varianti ortografiche
della obsoleta parola olandese
"mijnheer",
che
vuol dire
"mio
signore".
Una
parola derivata,
"meneer", è
usata nell’olandese moderno col significato di
"mister" o
"sir".
ivEpicureo
può avere due significati principali: filosofico e estensivo. In
senso filosofico, si riferisce a un seguace di Epicuro, il filosofo
greco che predicava che il piacere, inteso come assenza di dolore e
turbamento (atarassia), fosse il fine ultimo della vita. In senso
estensivo, "epicureo" descrive una persona che ricerca e
si dedica principalmente al piacere sensoriale, spesso associato a
una vita di lusso e godimento materiale
vLa
Chiesa di San Lorenzo (Sint Laurenskerk) è il principale punto
di riferimento di Rotterdam e l'unico edificio di epoca medievale
rimasto nella città. La struttura tardogotica fu costruita tra il
1449 e il 1525, originariamente consacrata come cattedrale cattolica
prima di essere convertita in un luogo di culto protestante dopo la
Riforma nel 1572.
viFin
dall’antichità, il mercurio, ad esempio, pur essendo una
sostanza velenosa, era usata come unguento nelle malattie della
pelle e considerata il miglior trattamento per la sifilide. Nel XVI
secolo, l’inalazione di mercurio divenne una terapia popolare per
la sifilide, nei cosiddetti “Ospedali degli Incurabili” che si
erano diffusi in quasi tutte le città, e rimase in uso almeno fino
al 1928.
viiIl
termine deriva dall’italiano pallamaglio,
in inglese pall mall, e
sta ad indicare il percorso fatto da una palla spinta da una specie
di mazzuolo, mallet,
simile a quello del croquet. Per estensione può indicare anche un
viale cittadino.
viiiUna
viaggiatrice inglese Ann Ward Radcliffe, 1764-1823, descrive il
Boom Qay come uno dei luoghi più belli della città,
trattandosi di un ampio terrazzamento costeggiante il fiume di
Rotterdam e ombreggiato da alti olmi, da cui il termine boom, e che
serviva anche da banchina per il carico e scarico delle merci, da
cui il termine quay.
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