lunedì 14 luglio 2025

Un abitante di Carcosa

 

Solo e pensoso



"An Inhabitant of Carcosa" (Un abitante/cittadino di Carcosa) è un racconto breve di Ambrose Bierce (1842-1914). Fu pubblicato la prima volta nel San Francisco Newsletter (1886) e più tardi apparve nelle raccolte Tales of Soldiers and Civilians e Can Such Things Be?

Bierce oggi è famoso per il suo Dizionario del diavolo, dove il suo spirito sarcastico, che gli era valso l’attributo di ‘Bitter,’ si esprime al meglio. Fu militare durante la guerra civile, giornalista e scrittore. I suoi racconti brevi sono considerati tra i migliori del XIX secolo, soprattutto quelli di guerra, mentre i suoi racconti fantastici anticiparono lo stile del grottesco che sarebbe diventato un vero e proprio genere letterario nel XX secolo.

Un abitante di Carcosa si apre con una pseudo citazione del filosofo Hali che argomenta sulla duplice natura della morte, fisica e spirituale. A riflettere su queste parole è un narratore in prima persona che si aggira in una landa desolata a lui apparentemente sconosciuta e che si rivelerà essere un antico cimitero. Egli non ha memoria di sé né del perché si trovi in quel luogo. Lungo il cammino farà strani ed inquietanti incontri, che gli faranno dubitare della sua sanità mentale, ma lentamente, alcuni macabri indizi, gli riveleranno la sua identità e il mistero del luogo, che altro non è che ciò che rimane dell’antica e famosa città di Carcosa.

Curiosità:

  • Questa breve storia sarà fonte di ispirazione per maestri del fantastico come H. P. Lovecraft che inserirà il paesaggio di Carcosa e il nome Hali nei miti di Cthulhu (1926-1935).

  • Robert W. Chambers userà il nome Carcosa nei racconti contenuti in The King in Yellow (1895).

  • Allusioni a Carcosa e a The King in Yellow vengono fatti nel primo episodio della fortunata serie TV True Detective (2014).





 

 

Un abitante di Carcosa

 

Ambrose Bierce 

 


Perché ci sono diverse forme di morte – in alcune il corpo permane, in altre svanisce insieme allo spirito. Questo solitamente accade in solitudine (tale è il volere di Dio) e, dal momento che nessuno ne vede la fine, diciamo che l’uomo è perso, o partito per un lungo viaggio – cosa che in realtà egli ha fatto; ma a volte questo avviene di fronte a molti, come mostrano innumerevoli testimonianze. In una forma di morte anche lo spirito muore, e questo succedeva mentre il corpo rimaneva ancora vigoroso per molti anni. A volte, come è veritieramente affermato, lo spirito muore con il corpo, ma dopo un certo tempo risorge là dove il corpo si era putrefatto.

Meditando su queste parole di Hali (che Dio gli dia pace) e interrogandomi sul loro pieno significato, come uno che, avendo colto un indizio, si chiede se non ci sia altro dietro, oltre a quello che ha percepito, non avevo notato in quale luogo mi fossi inoltrato, fin quando un vento gelido, colpendomi il viso, ridestò in me il senso di ciò che mi circondava. Osservai con stupore che niente mi sembrava familiare. Su entrambi i lati si stendeva un tratto di pianura desolato e senza vita, ricoperto da un alto groviglio di erba secca che frusciava e fischiava nel vento autunnale con il cielo sa quale suggestione misteriosa e inquietante. Sporgenti su di esso a lunghi intervalli, si ergevano rocce dalle strane forme e dai cupi colori, che sembravano avere una reciproca intesa e scambiarsi sguardi di inquietante significato, come se avessero alzato le loro teste per osservare l’esito di un evento previsto. Qui e là alcuni alberi inariditi sembravano i capi di questa malevola cospirazione di silenziosa attesa. 

Il giorno, pensai, deve essere ben inoltrato, sebbene il sole non fosse visibile, e sebbene sentissi che l’aria era aspra e gelida, la mia consapevolezza di quel fatto era più mentale che fisica – non avevo alcuna sensazione di disagio. Su tutto quel deprimente paesaggio gravava una plumbea coltre di nuvole grige simile ad una maledizione visibile. In tutto questo c’era una minaccia ed un portento – un’ombra del male, un segno del destino. Uccelli, bestie o insetti, non ce n’erano. Il vento singhiozzava tra i rami spogli degli alberi morti, e l’erba grigia si piegava per sussurrare il suo terribile segreto alla terra; ma nessun altro suono o movimento interrompeva lo spaventoso riposo di quel lugubre posto.   

Scorsi nella vegetazione alcune pietre consumate dalle intemperie, evidentemente modellate con attrezzi. Erano rotte, coperte di muschio e affondate per metà nel terreno. Alcune erano stese a terra, altre inclinate in varie angolazioni, nessuna era verticale. Erano ovviamente pietre tombali, sebbene le tombe stesse non esistessero più, né come tumuli né come depressioni: gli anni avevano livellato ogni cosa. Sparsi qua e là, altri blocchi più massicci mostravano dove alcune tombe pompose o ambiziosi monumenti avevano una volta lanciato la loro debole sfida all’oblio. Quei ruderi sembravano così antichi, quelle vestige di vanità e memoriali di affezione e pietà, così malandati e consumati e chiazzati – così negletto, abbandonato dimenticato il posto, che non potei fare a meno di credermi lo scopritore della necropoli di una razza di uomini preistorici il cui stesso nome era ormai estinto da lungo tempo.  

Preso da questi pensieri, per un po’ dimenticai le mie personali vicende, ma subito pensai, “Come sono arrivato qui?” Un attimo di riflessione sembrò chiarire ogni cosa e, allo stesso tempo, spiegare, anche se in modo inquietante, il singolare carattere che la mia fantasia aveva conferito a tutto quello che vedevo o sentivo. Ero ammalato. Adesso ricordavo che ero stato prostrato da una febbre improvvisa e che la mia famiglia mi aveva detto che nei miei periodi di delirio avevo costantemente invocato a gran voce libertà e aria ed ero stato trattenuto a letto per evitare che scappassi fuori. Quindi avevo eluso la vigilanza dei miei guardiani e avevo vagato fino a… a dove? Non ne avevo idea. 

Chiaramente ero a considerevole distanza dalla città dove abitavo – l’antica e famosa città di Carcosa. Da nessuna parte si vedevano o si sentivano segni di vita umana: né fumo che si alza nell’aria, né abbaiare di cane, né muggiti di bestiame, né grida di bambini che giocano, solo quel lugubre cimitero, con la sua aria di mistero e terrore, a causa del mio cervello in disordine. Forse iniziavo a delirare di nuovo, là lontano da ogni possibile aiuto? Non era in realtà tutta un’illusione della mia follia? Gridai i nomi delle mie mogli e dei miei figli, allungai le mie mani cercando le loro mentre vagavo tra quelle pietre sgretolate e l’erba inaridita. Un rumore dietro di me mi fece girare. Un animale selvatico – una lincei – si stava avvicinando. Mi assalì un pensiero: se mi sento male qui in questo luogo deserto, se la febbre ritorna e vengo meno, questa bestia mi azzannerà alla gola. Saltai verso la lince, gridando. Quella trottò via tranquillamente, ad un solo palmo da me, e sparì dietro una roccia.  

Un attimo dopo la testa di un uomo sembrò levarsi dal terreno a poca distanza da me. Stava risalendo il pendio opposto di una collinetta la cui sommità era a mala pena distinguibile dal livello generale. La sua figura intera divenne subito visibile contro lo sfondo delle nuvole grige. Era per metà nudo e per metà vestito di pelli. I suoi capelli erano scompigliati e la sua lunga barba incolta. In una mano reggeva un arco e una freccia, nell’altra una torcia fiammeggiante con una lunga scia di fumo nero. Camminava lentamente e facendo attenzione, come se avesse paura di cadere in qualche tomba aperta nascosta dall’erba alta. Questa strana apparizione mi sorprese ma non mi allarmò e, avendo preso la direzione giusta per intercettarlo, mi incontrai con lui quasi faccia a faccia, e mi accostai a lui con il familiare saluto, “che Dio ti protegga.” Non mi prestò attenzione né arrestò la sua marcia. “Gentile straniero,” continuai, “sono malato e perso. Indicami, ti prego, la strada per Carcosa.” L’uomo irruppe in un barbaro canto in una lingua sconosciuta, allontanandosi da me. Un gufoii sul ramo di un albero marcio bubbulò terribilmente e ad esso replicò un altro in lontananza. 

Guardando in su, attraverso un’improvvisa spaccatura nelle nuvole, vidi Aldebaraniii e le Iadiiv!Erano tutti indizi della notte – la lince, l’uomo con la torcia, il gufo. Tuttavia vedevo - vedevo perfino le stelle in assenza delle tenebre. Vedevo, ma apparentemente non ero né visto né sentito. Sotto quale terribile incantesimo mi trovavo? Mi sedetti ai piedi di un grande albero, per valutare seriamente cosa fosse meglio fare. Che io fossi matto, non c’era più dubbio, tuttavia individuai un motivo di dubbio in quella convinzione. Di febbre, non avevo più traccia. Avevo, inoltre, un senso di euforia e vigore del tutto a me sconosciuto – un senso di esaltazione fisica e mentale. I miei sensi sembravano tutti in allerta: potevo sentire l’aria come una sostanza ponderosa, potevo sentire i silenzio.

Una grande radice dell’albero gigantesco contro il cui tronco ero appoggiato da seduto, tratteneva stretta nella sua morsa una lastra di pietra, parte della quale si insinuava in un recesso formato da un’altra radice. La pietra era così parzialmente protetta dalle intemperie, sebbene estremamente rovinata. I suoi bordi arrotondati dall’usura, i suoi angoli erosi, la sua superficie profondamente solcata e corrosa. Brillanti particelle di mica erano visibili nel terreno intorno ad essa – vestige della sua decomposizione. Questa pietra aveva evidentemente segnato la tomba da cui l’albero era spuntato secoli addietro. Le avide radici dell’albero avevano rubato la tomba e fatta prigioniera la lapide. Un vento improvviso spazzò via una parte delle foglie e dei rametti secchi dalla superficie della pietra: vidi le lettere in bassorilievo di un’iscrizione e mi chinai per leggerla. Buon Dio! Il mio nome per intero!… la data della mia nascita!… la data della mia morte! Un fascio di luce orizzontale illuminò tutto il fianco dell’albero mentre balzavo in piedi terrorizzato. Il sole sorgeva dal roseo oriente. 

Ero in piedi tra l’albero e il suo grande disco rosso… nessun’ombra oscurava il tronco. Un coro di lupi ululanti salutò l’alba. Li vidi accovacciarsi sulle zampe posteriori, da soli o in gruppo, in cima a cumuli e tumuli irregolari che occupavano una metà della mia desolata prospettiva e arrivavano fino all’orizzonte. E allora seppi che quelle erano le rovine dell’antica e famosa città di Carcosa.  

Questi erano i fatti comunicati alla medium Bayrollesv dallo spirito Hoseib Alar Robardin.



FINE



i La Lince, dotata di una incredibile vista, nel corso dei secoli, ha dato luogo a diverse leggende. Molti popoli credevano, infatti, che essa potesse vedere oltre i monti e i mari. Oppure che il suo sguardo rappresentasse la incessante vigilanza di Dio sugli uomini. In alcuni casi la Lince è stata associata anche a entità demoniache. Questo a causa delle sue caratteristiche orecchie a punta. Tuttavia, nella gran parte della tradizione dei popoli antichi, è vista come uno spirito superiore, detentore della conoscenza.

iiAttraverso i secoli al gufo sono stati attribuiti, da oriente ad occidente, numerosi significati simbolici. Esiste una doppia interpretazione del gufo: da un lato, come animale notturno, rappresenta l’oscurità, il mistero, la paura e l’Aldilà; dall’altro, simboleggia la saggezza per la sua capacità di vedere attraverso le tenebre, proprio come la ragione e la conoscenza illuminano ciò che ancora ci sfugge.

iii Aldebaran è la stella più luminosa della costellazione del Toro e rappresenta l'occhio del toro celeste. Il suo nome deriva dall'arabo "Al Dabarān", che significa "il seguace", perché sembra seguire le Pleiadi nel loro moto celeste. Per riconoscerla nel cielo, basta prendere come rifermento la cintura della costellazione di Orione e proseguire in alto a destra. Nelle prime ore serali del mese di marzo, la stella del Toro la troviamo in direzione Sud-Ovest. La costellazione del Toro è ben visibile durante l’inverno e l’inizio della primavera.

iv Le Iadi sono un celebre e brillante ammasso aperto visibile nella costellazione del Toro. Di fatto, rappresentano la testa dell'animale indicato dalla costellazione. Si tratta dell'ammasso aperto più vicino a noi. La sua stella apparentemente più luminosa è la gigante rosso-arancio Aldebaran, che in realtà non appartenere fisicamente all'ammasso, ma è l'unica fra le stelle visibili in questa direzione in quanto più vicina a noi.

v Il personaggio della medium Bayrolles appare in un altro racconto di Bierce da me già tradotto: La strada illuminata dalla luna (The Moonlit Road), 1907

 

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