Un romantico spaventapasseri
Testadipiuma: una leggenda con morale ( FEATHERTOP: A MORALIZED LEGEND) di Nathaniel Hawthorne (1804-1864), fu pubblicata nel 1852 nella rivista The International Magazine e poi inclusa nella versione rivisitata di Mosses from an Old Manse (Muschi di una vecchia canonica) nel 1854.
Nato a Salem, discendente di quel John Hathorne, che fu uno dei giudici del processo alle streghe di Salem (fu forse proprio in relazione alla pesante eredità dell'avo che lo scrittore decise di aggiungere la lettera "W" al proprio cognome, quasi a prenderne le distanze) Nathaniel Hawthorne nelle sue opere va alla ricerca delle radici profonde del male, che esplora creando possenti allegorie: la lettera A sul petto dell’adultera nel romanzo La lettera scarlatta; il nastro rosa della giovane moglie a simboleggiare la perdita dell’innocenza nel racconto Il giovane Goodman Brown. Nel breve racconto che vi propongo questa volta, Testadipiuma: una leggenda con morale, l’autore sembra prendersi una vacanza, e adottare i toni della fiaba, ma con morale.
La leggenda, o meglio, la fiaba nera si svolge nel New England della caccia alle streghe e protagonista e artefice della vicenda è mamma Rigby. Non fatevi ingannare, non si tratta di una qualunque casalinga, ma di una vecchia, dispettosa, potente strega. La mattina in questione, però, la vecchia arpia era di particolare buon umore, anche grazie al profumato tabacco della sua pipa, che era uno degli strumenti delle sue magie. Decise, pertanto, di mettersi all’opera e di costruire uno spaventapasseri per il suo campo di mais. E così, con un po’ di materiale di scarto, vecchi abiti sbrindellati e una zucca avvizzita, mise insieme un pupazzo così grazioso che a lei sembrò sprecato come spaventapasseri. Decise, allora, di farne un perfetto gentiluomo e di mandarlo in città a corteggiare la bella Polly, figlia del giudice Gookin. E per infondergli vita, gli mise in bocca la sua pipa: “Sbuffa, caro, sbuffa!” diceva la vecchietta. “Continua a sbuffare, bello mio! La tua vita dipende da questo!” più il pupazzo fumava, più tutto in lui diventava splendido, tanto da abbagliare gli abitanti della città, che lo considerarono immediatamente un gran signore, ad eccezione di un cane e di un bambino (ricordate I vestiti nuovi dell’imperatore?”).
Anche la graziosa Polly restò incantata dalle belle maniere e dai discorsi galanti, ma vuoti, di Testadipiuma: “Una ben assimilata aderenza alle convenzioni sociali si era completamente fusa con la sua essenza e lo aveva trasformato in un capolavoro.” Tutto sembrava andare per il meglio finché i due non passarono davanti allo specchio della stanza che, come quello di Biancaneva, non era capace di mentire e rivelò tutta la misera accozzaglia di cui era fatto lo spaventapasseri.
Paradossalmente è proprio nel momento in cui Testadipiuma si riconosce come un misero trucco che rivela tutta la sua umanità e torna ad essere quello che è sempre stato, e a trarre la morale della fiaba è proprio mamma Rigby: “Bene, bene! Alla fine ne farò uno spaventapasseri. È un’occupazione innocente e utile e si adatterà a pennello al mio tesoro, e se ognuno dei suoi confratelli umani ne avesse una altrettanto appropriata, sarebbe la cosa migliore per l’umanità, e per quanto riguarda la pipa, ne ho bisogno più di lui.”
💢Curiosità:
- Se vi piacciono le fiabe un po’ surreali vi suggerisco Il codice di Perelà, romanzo futurista di Aldo Palazzeschi (1911). Qui il protagonista è un uomo di fumo che esce dal camino di tre vecchie e se ne va per il mondo con alterne fortune.
- Ho trovato anche un'interessane versione a fumetti del racconto di Hawthorne sulla rivista Forbidden Tales of the Dark Mansion
Testadipiuma: una leggenda con morale
di
Nathaniel Hawthorne
“Dickon,” gridò mamma Rigby, “un tizzone per la mia pipa!” La pipa era nella bocca della vecchia signora quando pronunziò questa parole. Se l’era infilata lì dopo averla riempita di tabacco, ma senza chinarsi sul caminetto per accenderla, infatti non c’era alcuna traccia di un fuoco acceso quella mattina. Nondimeno, comunque, appena l’ordine venne dato, nel fornello della pipa ci fu un intenso bagliore rosso e uno sbuffo di fumo uscì dalle labbra di mamma Rigby. Da dove venisse quel tizzone, e come fosse stato portato lì da una mano invisibile, non sono mai stato capace di scoprirlo.
La brava donna si era alzata così presto (infatti il sole era appena spuntato) per mettersi a costruire uno spaventapasseri, che aveva intenzione di piantare in mezzo al suo campo di mais. Era l’ultima settimana di maggio e i corvi e i merli avevano già scoperto le piccole foglie verdi di granturco che stavano appena spuntando dal terreno.
Era decisa, pertanto, a realizzare uno spaventapasseri così realistico come mai se ne erano visti e a finirlo immediatamente, da capo a piedi, in modo che potesse iniziare il suo compito di sentinella quella stessa mattina. Ora, mamma Rigby (come tutti devono aver già sentito) era una delle più scaltre e potenti streghe del New England e avrebbe potuto, con pochissima fatica, fare uno spaventapasseri abbastanza brutto da spaventare il diavolo in persona. Ma in questo caso, poiché si era svegliata di un umore incredibilmente piacevole, ed era stata ulteriormente addolcita dal suo tabacco da pipa, si decise a produrre qualcosa di grazioso, bello e splendido, piuttosto che di tremendo e orribile.
“Non voglio piantare un folletto nel mio campo di mais, e proprio sulla mia porta di casa,” disse mamma Rigby fra sé e sé, sbuffando una nuvoletta di fumo; “Potrei farlo, se volessi, ma sono stanca di fare meraviglie, così mi terrò nei limiti dell’ordinario, tanto per cambiare. Inoltre, non serve a niente spaventare i ragazzini del circondario, anche se è vero che sono una strega.”
Pertanto, decise che lo spaventapasseri dovesse rappresentare un elegante gentiluomo dell’epoca, per quello che i materiali disponibile avrebbero permesso. Forse, sarebbe utile elencare i principali articoli che entrarono a far parte della composizione di questa figura.
L’elemento più importante di tutti, probabilmente, sebbene di umile apparenza, fu un certo manico di scopa su cui mamma Rigby aveva fatto numerose galoppate aeree a mezzanotte e che ora serviva allo spaventapasseri a mo’ di colonna vertebrale o, come dicono gli illetterati, schiena.
Una delle sue braccia era un correggiatoi fuori uso che veniva solitamente brandito da mastro Rigby, prima che la sua sposa mettesse fine alle sue pene in questo tormentato mondo; l’altro, se non sbaglio, era composto da un cucchiaio di legno e da un piolo di sedia rotto, legati laschi al gomito.
Per quanto riguarda le gambe, quella destra era un manico di zappa, e la sinistra un misero e scadente bastone preso dalla catasta della legna. I suoi polmoni, lo stomaco e altri affari del genere non erano altro che una borsa per il pranzo riempita di paglia.
Così abbiamo completato lo scheletro e il corpo dello spaventapasseri, ad eccezione della testa degnamente fornita da una zucca alquanto secca e raggrinzita, in cui mamma Rigby intagliò due buchi per gli occhi e una fessura per la bocca, lasciando un pomello bluastro nel mezzo a fare da naso. Era una faccia davvero rispettabile. “Ne ho viste di peggiori sulle spalle degli uomini, ad ogni modo,” disse mamma Rigby. “E molti distinti gentiluomini hanno teste di zucca, proprio come il mio spaventapasseri.”
Ma, l’abito, in questo caso, doveva fare l’uomo. Così la buona vecchietta tirò via dall’attaccapanni una vecchia giacca color prugna di fattura londinese, con avanzi di merletti sulle cuciture, i polsini, le patte delle tasche e le asole, ma purtroppo consumata e scolorita, con le toppe ai gomiti, sbrindellata agli orli e logora dappertutto. Sul petto destro c’era un buco tondo, da dove forse era stato strappata una stella nobiliare, o forse il cuore ardente di un precedente proprietario l’aveva bruciata fino a bucarla. I vicini dicevano che questo ricco indumento apparteneva al guardaroba dell’Uomo Nero, e che questi lo teneva nel cottage di mamma Rigby per la comodità di infilarcisi dentro ogni volta che voleva fare bella figura alla tavola del governatore.
In abbinamento alla giacca c’era un panciotto di velluto di grossa taglia, un tempo ricamato con fogliame di un giallo brillante come le foglie degli aceri in ottobre, ma che adesso era quasi scomparso dal tessuto di velluto. Poi fu la volta di un paio di braghe scarlatte, che prima erano state indossate dal governatore francese di Louisbourgii, e le cui ginocchia avevano toccato il gradino più basso del trono di Louis le Grandiii. Il francese aveva donato queste culotte ad un powwowiv di indiani che se ne liberarono dandole alla vecchia strega per un bicchiere di acqua di fuoco, durante una delle loro danze nella foresta.
Poi mamma Rigby tirò fuori un paio di calze di seta e le mise sulle gambe del fantoccio, dove apparvero inconsistenti come un sogno, mentre la legnosa solidità dei due bastoni si rendeva miseramente visibile attraverso i buchi. Infine, mise la parrucca del suo defunto consorte sullo scalpo nudo della zucca e in cima a tutto collocò un polveroso tricorno su cui era attaccata la penna più lunga della coda di un gallo ruspante.
Allora la vecchia signora sistemò lo spaventapasseri in un angolo del suo cottage e ridacchiò nel vedere quella gialla copia di un viso, con il suo elegante nasino rivolto all’insù. Aveva un’aria stranamente compiaciuta e sembrava che dicesse, ‘venite a vedermi!’ “E tu meriti proprio di essere guardato, questo è sicuro!” esclamò mamma Rigby, ammirando il suo manufatto. “Ne ho fatti di pupazzi da quando sono una strega, ma credo che questo sia il migliore di tutti. Questo è troppo bello per uno spaventapasseri. E, a proposito, voglio riempire di tabacco un’altra pipa e poi lo porterò nel campo di mais.”
Mentre riempiva la pipa, la vecchietta continuava a guardare la figura nell’angolo con un affetto quasi materno. A dire il vero, forse per caso, o per abilità, o per vera e propria magia, c’era qualcosa di incredibilmente umano in questa ridicola sagoma, tutta infiocchettata con i suoi sbrindellati abiti eleganti. Riguardo alla faccia, la sua superficie gialla sembrava corrugarsi in un ghigno – una strana espressione a metà tra il disprezzo e il divertimento, come se sapesse di essere una caricatura dell’umanità.
“Dickon,” gridò bruscamente, “un altro tizzone per la mia pipa!” Aveva appena finito di parlare che, proprio come prima, ecco un tizzone ardente sopra al tabacco. Tirò una lunga boccata e poi la sbuffò fuori nel fascio di luce del sole mattutino che penetrava faticosamente attraverso l’unico vetro polveroso della finestra del suo cottage. A mamma Rigby di solito piaceva aromatizzare la sua pipa con un tizzone ardente preso da quel particolare angolo di caminetto da cui questo le era stato portato. Ma dove potesse essere quell’angolo di caminetto, o chi le portasse il tizzone da lì – oltre al fatto che l’invisibile messaggero sembrava rispondere al nome di Dickon – non saprei dire.
“Quel pupazzo laggiù,” pensò mamma Rigby, continuando a fissare lo spaventapasseri, “è un lavoro troppo ben fatto per stare tutta l’estate in un campo di mais a spaventare i corvi e i merli. Può fare di meglio. Infatti, ho danzato con qualcuno peggio di lui, quando c’era scarsità di cavalieri, ai nostri convegni nella foresta. E se io gli lasciassi tentare la sorte tra gli altri uomini di paglia e le persone vuote che se ne vanno in giro per il mondo?”
La vecchia strega tirò altre tre o quattro boccate dalla sua pipa e sorrise.
“Ne incontrerà in abbondanza di suoi fratelli ad ogni angolo di strada!” continuò. “Bene, non avevo intenzione di dilettarmi con la stregoneria oggi, se non per accendere la mia pipa, ma sono una strega, e di conseguenza strega resterò, e non serve a niente cercare di sfuggirvi. Farò un uomo del mio spaventapasseri, fosse anche solo per divertimento!”
Mentre borbottava queste parole, mamma Rigby si tolse la pipa di bocca e la infilò nella fessura che stava a rappresentare lo stesso tratto nella faccia di zucca dello spaventapasseri.
“Sbuffa, caro, sbuffa!” diceva la vecchietta. “Continua a sbuffare, bello mio! La tua vita dipende da questo!”
Indubbiamente, era una strana esortazione da rivolgere ad una mera cosa fatta di bastoni, paglia e vecchi abiti, con niente di meglio per testa che un zucca rinsecchita – come sappiamo essere nel caso dello spaventapasseri. Nondimeno, com’è doveroso ricordare, mamma Rigby era una strega di singolare potenza e abilità, e tenendo questo fatto doverosamente presente nella nostra mente, noi non vedremo negli straordinari eventi della nostra storia niente che travalichi i confini della credibilità.
Infatti, questa difficoltà sarà subito superata soltanto se potremo indurci a credere che, non appena la vecchia signora gli ordinò di sbuffare, ecco uscire una zaffata di fumo dalla bocca dello spaventapasseri. Era la più flebile delle zaffate, di sicuro, ma fu seguita da un’altra e poi un’altra, ognuna più netta della precedente. “Sbuffa, sbuffa, tesoruccio mio! Sbuffa, bello mio!” Continuava a ripetere mamma Rigby, con il suo sorriso più accattivante. “Per te, è il soffio della vita, e puoi credermi sulla parola.”
Indubbiamente, quella pipa era stregata. Doveva esserci un incantesimo nel tabacco, oppure nel tizzone ardente che così misteriosamente bruciava su di esso, o nel pungente aroma del fumo che esalava dal trinciato acceso. Il fantoccio, dopo qualche incerto tentativo, alla fine sbuffò una raffica di fumo che andava dal suo angolo buio fino al fascio di luce solare. Qui formò un mulinello mescolandosi ai granelli di polvere. Sembrò uno sforzo convulso, infatti le due o tre boccate successive furono molto più deboli, sebbene il tizzone ardesse ancora e il suo bagliore si riflettesse sulla faccia dello spaventapasseri. La vecchia strega applaudì con le sue mani scheletriche e fece un sorriso di incoraggiamento al suo manufatto.
Vide che il suo incantesimo funzionava alla perfezione. Quella avvizzita faccia gialla, che solo poco prima non era stata per nulla una faccia, aveva già un sottile, fantastico annebbiamento, per così dire a somiglianza d’uomo, che andava e veniva sulla sua superficie, che a volte scompariva del tutto, ma che diventava sempre più evidente alla successiva boccata di fumo. Tutta la figura, similmente, assumeva una sembianza di vita, come quella che attribuiamo alle forme indefinite tra le nuvole e inganniamo un po’ noi stessi trastullandoci con la nostra immaginazione.
Se dovessimo ficcare bene il naso in questa faccenda, si potrebbe dubitare che ci sia stato un vero cambiamento, dopo tutto, nella sordida, consunta, spregevole e mal costruita fattezza dello spaventapasseri, ma che si sia trattato semplicemente di un’illusione spettrale, un gioco ingannevole di luce ed ombra colorato e congegnato in modo tale da illudere gli occhi della maggior parte degli uomini. I miracoli della stregoneria sembrano aver sempre avuto poca consistenza e, comunque, se la precedente spiegazione non ha colto la verità di questa trasformazione, non posso suggerire niente di meglio.
“Bella boccata, mio bel ragazzo!” gridò ancora mamma Rigby. “Avanti, un altro sbuffo ben robusto, e sforzati quanto più possibile. Sbuffa per la tua vita, ti dico! Sbuffa dal profondo del tuo cuore, se hai un cuore e se è profondo. Ben fatto, ancora! Hai tirato quella boccata quasi per il puro piacere di farlo.”
E allora la strega fece cenno allo spaventapasseri di avvicinarsi, mettendoci tanta potenza magnetica nel suo gesto che sembrò quasi inevitabile che quello le ubbidisse, come il mistico richiamo della calamita quando attrae il ferro. “Perché ti nascondi nell’angolo, pigrone?” disse. “Vieni fuori! Hai il mondo davanti a te!”
Parola mia, se questa leggenda non fosse una di quelle che ascoltai sulle ginocchia di mia nonna e che ha trovato posto tra le cose credibili prima che le mie capacità di giudizio infantili potessero analizzarne la veridicità, mi chiedo se avrei la faccia di raccontarvela.
Obbedendo all’ordine di mamma Rigby e allungando il braccio come per toccare la sua mano tesa, il fantoccio fece un passo avanti – una specie di balzo saltellante più che un passo – quindi barcollò e quasi perse l’equilibrio. Cosa poteva aspettasi la strega? Dopo tutto, non era altro che uno spaventapasseri su due bastoni. Ma quella vecchia arpia ostinata lo guardò storto e gli fece cenno di avanzare e scagliò l’energia della sua volontà in modo così potente a quel misero assortimento di legno marcio, paglia ammuffita e abiti cenciosi, che quello fu costretto a mostrarsi uomo a dispetto della realtà delle cose. Così avanzò verso il fascio di luce. Lì si fermò, povero diavolo di un marchingegno che altro non era! - con addosso soltanto la sottilissima veste dell’umana somiglianza, attraverso cui ben si vedeva il legnoso, traballante, incongruo, sbiadito, lacero, inutile assortimento di cui era fatto, pronto ad afflosciarsi sul pavimento in un mucchio disordinato, essendo conscio della propria indegnità a stare eretto.
Devo confessare la verità? Al suo attuale punto di realizzazione, lo spaventapasseri mi ricorda certi personaggi privi di carattere e male abbozzati, composti di materiali eterogenei, usati per la millesima volta e mai degni di essere usati, con cui alcuni romanzieri (ed io, senza dubbio, fra di loro) hanno sovrappopolato il mondo della narrativav.
Ma quella spietata vecchia megera iniziò ad arrabbiarsi e a rivelare la sua diabolica natura (simile alla testa di un serpente che le sbucasse dal petto sibilando), di fronte al comportamento pusillanime della cosa che si era data pena di mettere insieme.
“Fuma, disgraziato!” gridò rabbiosamente. “Fuma, fuma, fuma, tu cosa di paglia e vacuità! Tu un cencio o due! Tu borsa per il pranzo! Tu testa di zucca! Tu nullità! Dove posso trovare un nome abbastanza vile da affibbiarti? Fuma, dico, e insieme al fumo aspira la tua fantastica vita! Altrimenti ti strapperò di bocca la pipa e ti getterò nel posto da cui viene questo tizzone ardente.” Minacciato in questo modo, l’infelice spaventapasseri non poté fare altro che fumare per salvare la pellaccia. Vista la necessità, pertanto, si diede da fare energicamente con la pipa e sbuffò raffiche di tabacco così abbondanti che la piccola cucina del cottage divenne tutta un vapore. L’unico fascio di luce si faceva strada a fatica in quella nebbia e riusciva a riflettere solo imperfettamente l’immagine del vetro rotto e polveroso della finestra sulla parete opposta.
Mamma Rigby, intanto, con un braccio scuro piegato sul fianco e l’altro allungato verso lo spaventapasseri, si stagliava tristemente nell’oscurità, con il portamento e l’espressione di quando soleva scagliare un gravoso incubo sulle sue vittime e rimanere presso il letto per godere della loro agonia. Tremante di paura, questo povero spaventapasseri sbuffava.
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Ma i suoi sforzi, va riconosciuto, servirono ad uno scopo eccellente, perché ad ogni sbuffo il fantoccio perdeva sempre più la sua confusa e sconcertante inconsistenza e assumeva una maggiore densità. I suoi stessi abiti, inoltre, parteciparono a questo magico cambiamento, e brillarono con il lustro delle cose nuove, e i sapienti ricami dorati, che tanto tempo fa erano stati strappati via, scintillarono ancora. E, mezzo nascosto tra il fumo, un volto giallo rivolse i suoi occhi inespressivi verso mamma Rigby.
Alla fine la vecchia strega serrò il pugno e lo agitò verso il fantoccio. Non che fosse realmente arrabbiata, ma agendo semplicemente secondo il principio – forse non vero, o vero solo in parte, tuttavia l’unico di cui mamma Rigby potesse essere ritenuta all’altezza – che le nature deboli e pigre, essendo incapaci di una più nobile ispirazione, dovrebbero essere stimolate dalla paura. Ma ecco il momento cruciale. Se avesse fallito in quello che adesso cercava di portare a termine, era suo spietato proposito disperdere quel misero simulacro nei suoi elementi originali.
“Hai l’aspetto di un uomo,” disse severamente. “Che tu abbia anche l’eco e la parodia di una voce! Ti ordino di parlare!”
Lo spaventapasseri rantolò, si sforzò e alla fine emise un mormorio che era talmente fuso con il suo respiro fatto di fumo che si poteva a malapena capire se era davvero una voce o soltanto uno sbuffo di tabacco. Alcuni narratori di questa leggenda sostengono la tesi che le evocazioni di mamma Rigby e la sua feroce volontà avessero rinchiuso uno spirito familiare in quella sagoma e che quella fosse la sua voce.
“Madre,” mormorò la povera voce soffocata, “non essere così tremenda con me! Io vorrei parlare, ma non avendo cervello, cosa posso dire?”
“Tu puoi parlare, caro, non è così?” gridò mamma Rigby, sciogliendo la sua espressione feroce in un sorriso. “E cosa dirai, mi chiedi! Sul serio! Non appartieni forse alla confraternita delle teste vuote, e chiedi a me cosa devi dire? Dirai un’infinità di cose e ripetendole un’infinità di volte, non avrai ancora detto niente! Non aver paura, ti dico. Quando farai il tuo ingresso nel mondo (dove ho intenzione di spedirti seduta stante) non ti mancheranno gli argomenti di conversazione. Parla. Ma sì, gorgoglierai come acqua di gora, se lo vorrai. Hai abbastanza cervello per questo, ne sono convinta.”
“Al tuo servizio, madre,” rispose quella sagoma. “Ben detto, bello mio,” rispose mamma Rigby. “Hai parlato da par tuo, senza dire niente. Avrai a disposizione un centinaio di queste frasi fatte, e altre cinquecento per buona misura. E adesso, carino, mi sono data tanta pena per te e tu sei così bello che, parola mia, ti amo molto più di ogni altro pupazzo di strega al mondo, e ne ho fatti di ogni specie – creta, cera, paglia, bastoni, nebbia notturna, nebbia mattutina, nebbia marina e fumo di camino. Ma tu sei proprio il migliore. Così fai attenzione a quello che ti dico."
“Sì, gentile madre,” disse lo spaventapasseri, “con tutto il cuore!”
“Con tutto il cuore!” gridò la vecchia strega, mettendo le mani sui fianchi e ridendo a crepapelle. “Hai un modo di parlare così garbato. Con tutto il cuore! E hai messo la mano sul lato sinistro del panciotto come se davvero ne avessi uno!”
Così adesso, messa di buon umore dal suo fantastico marchingegno, mamma Rigby disse allo spaventapasseri che doveva andare a recitare la sua parte nel gran mondo, dove nemmeno uno su cento, affermò, era dotato di una sostanza più concreta della sua.
E, affinché potesse andare a testa alta di fronte ai migliori di loro, lo dotò, all’istante, di un’incalcolabile ricchezza. Consisteva in parte di una miniera d’oro nell’Eldorado, diecimila azioni di una bolla speculativa, mezzo milione di acri di vigna nel polo nord, un castello in aria, e uno chateau in Spagna, insieme a tutte le rendite e i guadagni che ne derivavano. Inoltre gli cedette la mercanzia di una certa nave, carica di sale di Cadice, che lei stessa, grazie alle sue arti negromantiche, aveva fatto affondare, dieci anni prima, nella parte più profonda dell’oceano centrale. Se il sale non si era sciolto e poteva essere portato al mercato, gli avrebbe fatto guadagnare qualche bel soldino fra i pescatori. Affinché non mancasse di contante, gli diede un soldino di rame della zecca di Birminghamvi, dal momento che quella era tutta la moneta che aveva in tasca, insieme ad un bel po’ di ottone che gli applicò sulla fronte, rendendolo così più giallo che mai. “Solamente con quell’ottone,” disse mamma Rigby, “potresti farti strada nel mondo. Baciami, carino mio! Ho fatto del mio meglio per te.”
Inoltre, affinché l’avventuriero non mancasse di alcun eventuale vantaggio per iniziare bene la sua vita, questa eccellente vecchia signora gli diede qualcosa con cui presentarsi ad un certo magistrato, membro del consiglio cittadino, mercante e membro anziano della chiesa (queste quattro funzioni costituivano un solo uomo) che era in cima alla società della vicina metropoli. Si trattava né più né meno che di una singola parola che mamma Rigby sussurrò allo spaventapasseri e che lo spaventapasseri doveva sussurrare all’orecchio del mercante.
“Anche se il vecchio ha la gotta, vedrai come correrà a mettersi al tuo servizio, una volta che gli avrai sussurrato questa parola nell’orecchio,” Disse la vecchia strega. “Mamma Rigby conosce l’onorevole giudice Gookin, e l’onorevole giudice conosce mamma Rigby.” A questo punto la strega accostò la sua faccia rugosa a quella del fantoccio, con una irrefrenabile risata di piacere, che la scuoteva tutta, al pensiero di ciò che stava per rivelargli.
“L’onorevole mastro Gookin,” sussurrò, “ha per figlia una bella ragazza. E ascoltami, cucciolo mio! Tu hai un bel difuori e un cervello abbastanza buono. Sì, un cervello abbastanza buono. Lo apprezzerai di più quando conoscerai meglio quello degli altri. Ora, con il tuo difuori e il tuo didentro, sei l’uomo giusto per conquistare il cuore di una ragazza. Non dubitarne mai! Ti assicuro che sarà così. Affronta la questione con faccia tosta, sospira, sorridi, sventola il tuo cappello, metti avanti la gamba come un maestro di danza, porta la tua mano destra sulla sinistra del tuo panciotto e la bella Polly Gookin è tua!”
Tutto questo mentre la nuova creatura aveva continuato ad aspirare ed espirare la vaporosa fragranza della sua pipa, ed ora sembrava continuare questa occupazione sia per il piacere che gli dava sia perché era una condizione essenziale per la sua esistenza. Era meraviglioso vedere quanto fosse estremamente umano il suo comportamento. I suoi occhi (perché sembrava possederne un paio) erano rivolti su mamma Rgby e al momento opportuno annuiva o scuoteva la testa.
Né gli mancavano le parole adatte all’occasione: “Veramente! Davvero! Tene ne prego, dimmelo! È impossibile! Parola mia! Assolutamente no! Ah!Oh! Ehm!” E altre parole tanto importanti da richiedere l’attenzione, la curiosità, il consenso o il dissenso da parte di chi ascoltava. Perfino chi fosse stato presente e avesse assistito alla costruzione dello spaventapasseri, avrebbe a stento resistito alla convinzione che comprendesse perfettamente i furbi consigli che la vecchia strega gli riversava nel suo orecchio contraffatto.
Quanto più diligentemente applicava le sue labbra alla pipa, tanto più la sua sembianza umana diventava reale, la sua espressione più sagace, i suoi gesti e movimenti più naturali, la sua voce più distinta. I suoi abiti, inoltre, brillavano tanto più intensamente di una magnificenza illusoria. La stessa pipa, in cui bruciava l’incantesimo di tutte queste meraviglie, smise di sembrare un pezzo di terraglia annerita dal fumo e divenne una pipa di schiumavii, con il fornello dipinto e il bocchino di ambra.
Si deve capire che, comunque, la vita di questa illusione, dal momento che sembrava coincidere con il fumo della pipa, sarebbe finita nello stesso momento in cui il tabacco si sarebbe ridotto in cenere. Ma l’arpia previde questa difficoltà.
“Reggi la pipa, tesoro mio,” disse, “mentre te la riempio di nuovo.” Era penoso vedere come quel fine gentiluomo gradualmente ridiventasse uno spaventapasseri mentre mamma Rigby scuoteva via la cenere dalla pipa e procedeva a rifornirla dalla sua tabacchiera.
“Dickon,” gridò con la sua voce stridula, “un altro tizzone per questa pipa!” Nemmeno l’aveva detto che una rossa scintilla di fuoco già brillava nel fornello della pipa e lo spaventapasseri, senza attendere l’ordine della strega, si mise il cannello in bocca e fece alcuni brevi tiri convulsi che, comunque, divennero subito regolari e tranquilli.
“Ora, tesoro del mio cuore,” disse mamma Rigby, “qualunque cosa ti succeda, attaccati alla pipa. La tua vita è lì dentro, e questo, almeno, lo sai bene, anche se non sai niente altro. Attaccati alla pipa, ti dico. Fuma, sbuffa, fai una bella nuvoletta e dì alla gente, se ti fanno domande, che è solo per la tua salute e che il medico ti ha ordinato di fare così. E, caro, quando vedrai che la pipa si sta consumando, appartati in un angolo e (prima riempiti di fumo) grida forte, ‘Dickon, una nuova pipata di tabacco!’ e, ‘Dickon, un altro tizzone per la mia pipa!’ e rimettila nella tua boccuccia il più presto possibile. Altrimenti, invece di un galante gentiluomo con un abito dai merletti dorati, non sarai altro che un guazzabuglio di bastoni e vestiti sbrindellati, una borsa di stracci e una zucca avvizzita! Adesso parti, mio tesoro, e che la buona sorte ti accompagni!”
“Non temere, madre,” disse quella sagoma con voce ferma ed emettendo un congruo sbuffo di fumo, “prospererò, posto che un uomo onesto ed un gentiluomo lo possano!”
“Oh, tu mi farai morire!” gridò la vecchia strega, torcendosi dalle risate. “Ben detto. Posto che un uomo onesto ed un gentiluomo lo possano! Reciti la tua parte alla perfezione. Vai avanti così, e scommetterò su di te, come uomo in carne ed ossa, con un cervello e quello che chiamano cuore, e tutto quello che un uomo dovrebbe avere, contro ogni altra cosa su due gambe. Mi ritengo una strega migliore di ieri, per amor tuo. Non ti ho fatto io? e sfido ogni altra strega del New England a farne un altro simile! Tieni, porta il mio bastone con te!” Il bastone, sebbene fosse soltanto un pezzo di legno di quercia, prese immediatamente l’aspetto di un bastone da passeggio con una testa d’oro.
“In quella testa d’oro c’è tanto buon senso quanto nella tua, “ disse mamma Rigby, “e ti guiderà dritto alla casa dell’onorevole mastro Gookin. Va’, piccolo mio, mio caro, mio adorato, mio tesoro; e se qualcuno ti chiede come ti chiami, tu rispondi Testadipiuma. Perché hai una piuma sul tuo cappello e ho ficcato una manciata di piume nel cavo della tua testa, e poi la tua parrucca è di un modello chiamato Testadipiuma – così che Testadipiuma sia il tuo nome!”
E, uscendo dal cottage, Testadipiuma si incamminò coraggiosamente verso la città. Mamma Rigby rimase sulla soglia di casa, compiaciuta nel vedere come i raggi del sole brillassero su di lui - come se tutta la sua magnificenza fosse reale - e come fumasse la sua pipa con diligenza e affetto, e come fosse elegante la sua camminata, a dispetto di una leggera rigidità delle sue gambe. Lo guardò finché non fu fuori dalla sua visuale, e gettò sul suo pupillo una benedizione di strega quando una curva della strada lo rubò ai suoi occhi.
Di buon mattino, quando la strada principale della vicina città era proprio all’acme della vita e dell’attività, uno straniero dalla distinta figura fu visto sul marciapiede. Il suo portamento come i suoi abiti rivelavano niente altro che nobiltà. Indossava una giacca color prugna riccamente ricamata, un panciotto di costoso velluto, magnificamente ornato da fogliame dorato, un paio di splendide braghe scarlatte, e le più fini e lucenti paia di calze di seta bianca. La testa era coperta da una parrucca, incipriata e acconciata così graziosamente che sarebbe stato un sacrilegio scompigliarla con un cappello, e pertanto (ed era un cappello con merletti dorati, completato da una candida piuma), lo portava sotto il braccio. Sul petto della sua giacca riluceva una stella. Maneggiava il suo bastone da passeggio dalla testa dorata con una grazia disinvolta, tipica di un fine gentiluomo di quell’epoca; e per dare il miglior tocco finale possibile al suo armamentario, aveva volant di merletto ai polsi che certificavano sufficientemente quanto oziose e aristocratiche dovevano essere le mani che celavano a metà. Un dettaglio rimarchevole nell’armamentario di questo brillante personaggio, che teneva nella mano sinistra, era una fantastica pipa con un fornello squisitamente dipinto e un bocchino d’ambra. La portava alla bocca ogni cinque o sei passi e inalava una profonda boccata di fumo che, dopo essere rimasta per un momento nei polmoni, si poteva vedere uscire in graziosi vortici dalla bocca e dalle narici.
Come si può ben immaginare, la strada era tutta in agitazione per scoprire il nome dello straniero.
“È un grande nobiluomo, non c’è dubbio,” disse uno del posto. “Vedi la stella sul suo petto?”
“Sì, è troppo brillante per passare inosservata.” disse un altro. “Sì, deve essere un nobiluomo, come lei dice. Ma con quale mezzo, crede, sua signoria può aver viaggiato per mare o per terra fino qui? Non ci sono state navi dal vecchio continente per tutto lo scorso mese, e se fosse arrivato via terra dal sud, mi dica dove sono i suoi servi e la sua carrozza?”
“Non ha bisogno di carrozza e di servi per provare il suo rango,” affermò un terzo. “Se fosse venuto tra noi vestito di stracci, la nobiltà avrebbe brillato da un buco nel gomito. Non ho mai visto una tale dignità di aspetto. Nelle sue vene scorre l’antico sangue normanno, ve lo garantisco.”
“E così un turco,” rispose il suo amico. “Ma, a mio giudizio, questo straniero è stato educato alla corte francese, e lì ha imparato l’educazione e le maniere aggraziate, che nessuno conosce bene come la nobiltà di Francia.”
“Direi piuttosto che è un olandese, o uno dei vostri nobili tedeschi,” disse un altro cittadino. “Gli uomini di quei paesi hanno sempre una pipa in bocca. L’andatura, poi! Uno spettatore grossolano potrebbe considerarla rigida – potrebbe dire che è saltellante – ma, ai miei occhi, possiede un’ineffabile maestà, e deve essere stata acquisita dalla costante osservazione del portamento del Grande Sovrano. Il carattere dello straniero e la sua carica sono abbastanza evidenti. È un ambasciatore francese, venuto a trattare coi nostri governanti la cessione del Canadaviii.”
“Più probabilmente uno spagnolo,” disse un altro, “e da qui il suo colorito giallo; o, più probabilmente, è dell’Avana, o di qualche porto dei possedimenti spagnoli, e viene ad investigare sugli atti di pirateria con cui si pensa che il nostro governo sia connivente. Quei coloni in Perù e in Messico hanno la pelle gialla come l’oro che scavano dalle loro miniere.”
“Giallo o no,” gridò una signora, “è un bell’uomo! Così alto, così magro, un volto così fine e nobile, con un naso così ben modellato, e quella delicata espressione della bocca! E, santo cielo, come brilla la sua stella! Di certo sprigiona fiamme!”
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ordine della giarrettiera |
“Anche i suoi occhi, bella signora,” disse lo straniero, con un inchino e uno svolazzo della pipa, perché stava passando proprio in quel momento. “Sul mio onore, mi hanno quasi abbagliato.”
“C’è mai stato un complimento così originale e squisito?” mormorò la signora in un’estasi di piacere.
Tra la generale ammirazione suscitata dalla comparsa dello straniero, c’erano solo due voci a dissentire. Una era quella di un impertinente cagnaccio che, dopo essersi messo alle calcagna di quella brillante figura e averlo annusato, mise la coda tra le gambe e si rintanò nel cortile del padrone, emettendo esecrabili guaiti. L’altra era quella di un bimbetto, che si mise ad urlare a pieni polmoni, e balbettò alcune frasi incomprensibili riguardo ad una zucca.
Nel mentre, Testadipiuma proseguì il suo cammino lungo la strada. Ad eccezione delle poche parole galanti per la signora e, ogni tanto, un lieve inchino della testa in risposta alle profonde reverenze dei passanti, sembrava completamente assorbito dalla sua pipa. Non c’era bisogno di ulteriori prove del suo rango e della sua importanza oltre alla perfetta equanimità con cui si comportava, mentre la curiosità e l’ammirazione della città intorno a lui cresceva fino a diventare clamore.
Con un codazzo di gente dietro di lui, finalmente raggiunse la dimora dell’onorevole giudice Gookin, attraversò il cancello, salì i gradini dell’ingresso principale e bussò. Nel frattempo, prima di ricevere risposta, lo straniero fu visto scuotere la cenere dalla sua pipa.
“Cosa ha detto con quella voce stridula?” chiese uno degli spettatori.
“Non so,” rispose il suo amico. “Ma il sole mi abbaglia stranamente gli occhi. Improvvisamente, come appare annebbiato e offuscato sua signoria! Perbacco, cosa mi succede?”
“La cosa eccezionale è,” disse un altro, “che la sua pipa, che solo un istante fa era spenta, sia di nuovo accesa e con il più rosso dei tizzoni che abbia mai visto. C’è qualcosa di misterioso in quello straniero. Che sbuffo di fumo era quello! Hai detto che era annebbiato e offuscato? Guarda, mentre si volta la stella sul suo petto è tutta in fiamme.”
“Lo è, davvero,” disse il suo amico, “e per poco non abbaglia la bella Polly Gookin, che vedo sbirciare dalla finestra della camera.”
In quel momento la porta venne aperta, così Testadipiuma si voltò verso la folla e piegò maestosamente il suo corpo come un grande uomo che prenda atto della riverenza delle persone più umili, e sparì dentro la casa.
Sul suo viso c’era un sorriso alquanto misterioso, che forse sarebbe meglio definire un ghigno o una smorfia, ma in mezzo a tutta la folla che lo osservava, non un solo individuo sembrava possedere sufficiente perspicacia per scoprire il carattere illusorio dello straniero, ad eccezione di un bimbetto ed un cagnaccio.
A questo punto, la nostra leggenda perde qualcosa della sua continuità e, saltando le spiegazioni preliminari tra Testadipiuma e il mercante, va alla ricerca della bella Polly Gookin. Era una damigella dalla figura morbida e rotonda, con capelli chiari e occhi blu, e un bel viso roseo, che non sembrava né troppo furbo né troppo sciocco. Questa giovane donna aveva visto di sfuggita il brillante straniero mentre era sulla soglia di casa e aveva immediatamente indossato una cuffia di merletto, un filo di perle, il suo scialle più elegante e il suo più rigido corsetto di damasco per prepararsi all’incontro.
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Attribuito a Thomas Gainsborough |
Correndo dalla camera al salotto, da allora prese ad osservarsi nel grande specchio e a provare delle graziose pose – ora un sorriso, ora una cerimoniosa dignità di aspetto, ora un sorriso più dolce dell’altro, baciandosi anche la mano, scuotendo la testa e agitando il suo ventaglio, mentre nello specchio una fanciulla virtuale ripeteva ogni gesto e faceva tutte le sciocchezze che faceva Polly, ma senza che lei se ne vergognasse. In breve, fu la mancanza di talento della bella Polly piuttosto che la mancanza di volontà se non riuscì ad essere un completo artificio come l’illustre Testadipima, e quando intaccò la propria innocenza in questo modo, il fantasma della strega poté ben sperare di conquistarla.
Appena Polly sentì avvicinarsi i passi gottosi di suo padre alla porta del salotto, accompagnati dal rigido calpestio delle scarpe a tacco alto di Testadipiuma, si sedette dritta e, con fare innocente, iniziò a gorgheggiare una canzone. “Polly, figliola!” gridò il vecchio mercante. “Vieni qui, bambina.”
Quando aprì la porta, l’aspetto di mastro Gookin era incerto e agitato.
“Questo gentiluomo,” continuò, presentando lo straniero, “è il cavaliere Testadipiuma - oh, mi scusi, lord Testadipiuma – che mi ha portato un ricordino da parte di una mia vecchia amica. Fai i tuoi ossequi a sua signoria, figlia, e onoralo come merita il suo rango.”
Dopo queste poche parole di presentazione, l’onorevole magistrato lasciò immediatamente la stanza. Ma, perfino in quel breve momento, se la bella Polly avesse dato una sbirciata a suo padre invece di dedicarsi completamente al suo brillante ospite, si sarebbe accorta che qualcosa non andava. Il vecchio era nervoso, irrequieto e molto pallido. Con l’intendo di fare un sorriso di cortesia, aveva deformato il volto in un sorriso elettrizzato che, quando Testadipiuma si girò di spalle, trasformò in uno sguardo accigliato, scuotendo il pugno e battendo il suo piede gottoso allo stesso tempo, una scortesia che portò con sé la sua punizione.
A dire il vero, pare che la parola di presentazione di mamma Rigby, qualunque fosse, avesse operato molto più sui timori del mercante che sulle sue buone intenzioni. Per di più, essendo un uomo con un senso dell’osservazione eccezionalmente acuto, aveva notato che le figure dipinte sul fornello della pipa di Testadipiuma si muovevano. Guardando più da vicino, si convinse che queste figure erano un gruppo di piccoli demoni, ognuno opportunamente dotato di corna e coda, che danzavano mano nella mano tutto intorno al fornello della pipa, con mosse di diabolico divertimento.
Come a confermare i suoi sospetti, mentre mastro Gookin accompagnava il suo ospite dalla sua stanza privata al salotto lungo un oscuro corridoio, la stella sul petto di Testa di piuma aveva sprigionato delle vere fiamme e proiettato un bagliore sfavillante sulle pareti, il soffitto e il pavimento. Con tali sinistri presagi che si manifestavano da ogni parte, non c’è da meravigliarsi del fatto che il mercante doveva aver intuito che stava affidando sua figlia ad un conoscente poco raccomandabile. In cuor suo, maledisse la suadente eleganza dei modi di Testadipiuma, infatti questo brillante personaggio si inchinava, sorrideva, metteva la mano sul cuore, inalava una lunga boccata dalla sua pipa e arricchiva l’atmosfera con gli effluvi di un sospiro fragrante e visibile.
Ben volentieri il povero mastro Gookin avrebbe gettato il suo pericoloso ospite in strada, ma dentro di lui c’era qualcosa che glielo impediva e lo terrorizzava. Questo rispettabile vecchio gentiluomo, temiamo, in un precedente periodo della sua vita, aveva dato solenne impegno o qualcos’altro al principio del male, e forse ora doveva riscattarlo con il sacrificio di sua figlia.
Si dava il caso che la porta del salotto fosse in parte di vetro oscurato da una tenda di seta le cui pieghe pendevano un po’ di lato. Il mercante era talmente interessato ad assistere a quello che stava per succedere tra la bella Polly e il galante Testdipiuma che, dopo aver lasciato la stanza, non poté in nessun modo trattenersi dallo sbirciare attraverso la fessura della tenda. Ma non c’era niente di miracoloso da vedere, niente – eccetto le sciocchezze precedentemente notate – ad avallare l’idea di un pericolo soprannaturale che incombeva sulla bella Polly.
Era vero che lo straniero era evidentemente un uomo fatto e finito, pratico del mondo, sistematico e sicuro di sé, pertanto il tipo di persona a cui un genitore non dovrebbe affidare una innocente fanciulla senza la dovuta attenzione alle conseguenze.
Il valente magistrato, che era stato a contatto con ogni livello e genere di umanità, non poté fare a meno di notare che tutti i movimenti e i gesti del distinto Testadipiuma arrivavano al momento opportuno; niente in lui era stato lasciato rozzo o grossolano; una ben assimilata aderenza alle convenzioni sociali si era completamente fusa con la sua essenza e lo aveva trasformato in un capolavoro.
Forse era questa peculiarità che gli attribuiva una specie di aria spettrale e di soggezione. È l’effetto di tutto ciò che è completamente e perfettamente artificioso, in forma umana, che la persona fa su di noi come qualcosa di irreale e che ha a malapena sostanza sufficiente a proiettare un’ombra sul pavimento. Per quello che riguardava Testadipiuma, produceva un’impressione confusa, bizzarra e fantastica, come se la sua vita e il suo essere fossero simili al fumo che usciva vorticando dalla sua pipa.
Ma la bella Polly Gookin non si sentiva così. La coppia stava ora passeggiando nella stanza: Testadipiuma con la sua elegante andatura e il suo non meno elegante ghigno, la ragazza con la sua naturale grazia donnesca, appena toccata, ma non sciupata, da un modo di fare leggermente affettato, che sembrava ispirato dalla perfetta artificiosità del suo compagno.
Più la conversazione durava, più la bella Polly ne rimaneva affascinata, finché, entro il primo quarto d’ora (come notò il vecchio magistrato sul suo orologio), stava evidentemente iniziando ad innamorarsi. Né ci sarebbe stato bisogno di alcuna stregoneria per conquistarla così in fretta: il cuore della povera ragazza, forse, era così ardente che la scioglieva con il suo calore che si riverberava dalle vuote sembianze di un amante.
Non importa quello che dicesse Testadipiuma, le sue parole trovavano profondità e risonanza nelle orecchie di lei; non importa cosa facesse, le sue azioni erano eroiche agli occhi di lei. E a questo punto si deve supporre che ci fosse un acceso rossore sulle guance di Polly, un tenero sorriso sulla sua bocca, e una liquida dolcezza nel suo sguardo, mentre la stella continuava a scintillare sul petto di Testadipiuma e i piccoli demoni correvano di gran carriera tutto intorno al fornello della pipa.
O bella Polly Gookin, perché questi demoni dovevano gioire così sfrenatamente per il fatto che il cuore di una sciocca fanciulla stava per per essere donato ad un’ombra! È una disgrazia così insolita, un trionfo così raro?
Dopo un po’ Testadipiuma si fermò, e assumendo una posa imponente, sembrò invitare la bella ragazza ad osservare la sua figura e a non resistergli più a lungo, se ne era capace. La sua stella, i suoi ricami, le sue fibbie brillarono in quell’istante con indicibile splendore, i pittoreschi colori del suo abbigliamento assunsero sfumature più decise, ci fu un luccichio e un lustro in tutta la sua persona a testimoniare la perfetta magia di maniere ben ordinate.
La fanciulla sollevò gli occhi e gli permise di indugiare sul suo compagno con uno sguardo timido e ammirato. Poi, come se fosse desiderosa di giudicare quale valore potesse avere la sua semplice avvenenza accanto a tanto splendore, diede un’occhiata allo specchio lungo fino ai piedi davanti al quale erano venuti a trovarsi.
Quello era uno dei vetri più sinceri al mondo e incapace di adulazione. Appena l’immagine riflessa lì dentro incontrò gli occhi di Polly, lei gridò, si ritrasse dal fianco dello straniero, lo guardò per un momento con disperato sgomento e cadde svenuta sul pavimento. Anche Testadipiuma aveva guardato nello specchio e ci vide, non la scintillante beffa della sua apparenza, ma il ritratto della sordida accozzaglia che lo componeva, denudata da ogni stregoneria.
Il misero simulacro! Abbiamo quasi pietà di lui. Alzò le braccia con un’espressione di disperazione che andava oltre ogni sua precedente manifestazione tesa a rivendicare il suo diritto ad essere considerato umano, perché forse era l’unica volta in cui un’illusione si era vista e si era pienamente riconosciuta come tale, da quando questa così spesso vuota e ingannevole vita dei mortali aveva iniziato il suo corso.
Mamma Rigby era seduta accanto al focolare della cucina al tramonto di questa giornata cruciale, e aveva appena scosso via la cenere di una nuova pipata, quando sentì un calpestio frettoloso di passi umani simile al clangore di bastoni o lo sbattere di ossa secche.
“Ah!” pensò la vecchia strega, “che passo è questo? Lo scheletro di chi è uscito adesso dalla tomba, mi chiedo?”
Una figura irruppe di gran carriera attraverso la porta del cottage. Era Testadipiuma! La sua pipa era ancora accesa, la stella ancora fiammeggiava sul suo petto, i ricami brillavano ancora sui suoi abiti, né aveva perso, in alcuna misura o maniera che potesse essere stimata, l’aspetto che lo assimilava alla nostra confraternita di umani. Eppure, in un modo impossibile da descrivere (come nel caso di tutto ciò che ci ha ingannato quando viene finalmente scoperto), la misera realtà si percepiva sotto l’abile artificio.
“Cosa è andato storto?” chiese la strega. “Quell’ipocrita piagnone ha gettato il mio tesoro fuori dalla porta? Quel cattivo! Gli manderò venti diavoli a tormentarlo finché non ti offrirà sua figlia in ginocchio!”
“No, madre,” disse Testadipiuma con aria infelice, “Non è stato questo.”
“La ragazza ha disprezzato il mio tesoro?” chiese mamma Rigby, mentre i suoi occhi feroci brillavano come due tizzoni del Tofet. “Le coprirò il volto di brufoli! Il naso sarà rosso come il carbone della mia pipa! I denti davanti le cadranno! Fra una settimana non sarà degna di averti!”
“Lasciala stare, madre,” rispose il povero Testadipiuma, “la ragazza era quasi conquistata. E penso che un bacio dalle sue dolci labbra mi avrebbe potuto rendere completamente umano. Ma,” aggiunse dopo una breve pausa e un gemito di auto disprezzo, “Mi sono visto, madre! Mi sono visto per la miserabile, cenciosa cosa che sono! Non voglio più esistere!”
Strappandosi la pipa di bocca, la gettò con tutta la sua forza contro il caminetto e in quello stesso istante si afflosciò sul pavimento, un’accozzaglia di paglia e abiti sbrindellati, con dei bastoni che sporgevano dal mucchio e una zucca rinsecchita nel mezzo. I buchi degli occhi erano spenti, ma l’apertura rozzamente scavata, che poco prima era stata una bocca, sembrava ancora curvarsi in un largo sorriso disperato, ed era ancora umana. “Poveraccio!” esclamò mamma Rigby, con uno sguardo addolorato a ciò che restava del suo sfortunato marchingegno.
“Mio povero, caro, grazioso Testadipiuma! Ci sono migliaia e migliaia di bellimbusti e ciarlatani nel mondo, fatti proprio di una tale accozzaglia di ciarpame logoro, abbandonato e inutile come era lui! Tuttavia godono di buona considerazione e non si vedono mai per quello che sono. E perché il mio povero pupazzo dovrebbe essere l’unico a conoscere sé stesso e a perire per questo?”
Mentre bisbigliava queste parole, la strega aveva di nuovo caricato la pipa e teneva il cannello tra le dita, come se non sapesse decidere se metterlo nella sua bocca o in quella di Testadipiuma.
“Povero Testadipiuma!” continuò. “Potrei facilmente dargli un’altra possibilità e mandarlo via di nuovo domani. Ma no, i suoi sentimenti sono troppo delicati, la sua sensibilità troppo profonda. Sembra avere troppo cuore per darsi da fare per il proprio vantaggio in un mondo così vuoto e spietato. Bene, bene! Alla fine ne farò uno spaventapasseri. È un’occupazione innocente e utile e si adatterà a pennello al mio tesoro, e se ognuno dei suoi confratelli umani ne avesse una altrettanto appropriata, sarebbe la cosa migliore per l’umanità, e per quanto riguarda la pipa, ne ho bisogno più di lui.”
Così dicendo, mamma Rigby mise il cannello tra le labbra. “Dickon!” gridò, con la sua voce acuta e stridula, “un altro tizzone per la mia pipa!”
FINE
iCorreggiato: arnese formato da due bastoni (legati con una solida cordicella o con una correggia di cuoio), l'uno dei quali si impugna facendo ruotare l'altro e mandandolo a percuotere cereali da battere o legumi secchi da sgranare, distesi sull'aia.
iiLouisbourg è una comunità non incorporata canadese nella Nuova Scozia. L'esercito francese fondò la fortezza di Louisbourg e il suo porto marino fortificato sul lato sudovest nel 1713, dandogli il nome in onore di Luigi XIV.
iii Louis le Grand o Luigi XIV, detto anche il re sole, Regnò per 72 anni e 110 giorni, dal 1643, quando aveva meno di cinque anni, fino alla morte nel 1715, quando ne aveva quasi 77.
iv Il powwow è un raduno di nativi del Nord America. La parola deriva da powwaw, che nella lingua della tribù dei Narragansett significa "leader spirituale". Un powwow moderno è un tipo specifico di evento in cui la gente si incontra per danzare, cantare, socializzare e onorare la cultura dei nativi americani.
vÈ un commento di metaletteratura che contribuisce a rendere la creazione di Testadipiuma una metafora della creazione letteraria.
viDal 1794 fino al 2003, le monete in circolazione in Gran Bretagna erano fabbricate nel Jewellery Quarter presso la Birmingham Mint, la più antica zecca indipendente del mondo, che ancora oggi continua a produrre medaglie e monete commemorative.
viiUna pipa di schiuma è una pipa realizzata in sepiolite, un minerale noto anche come "schiuma di mare" o, in tedesco, Meerschaum, che si trova principalmente nel Mar Nero. Essendo un materiale poroso, una pipa di schiuma rende il fumo dolce e fresco.
viii Alla fine della guerra dei sette anni 1756 – 1763, la Francia perse il Canada e dipendenze, alcune delle Antille, il Senegal e l’India a vantaggio dell’Inghilterra.
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