mercoledì 13 aprile 2022

La strada illuminata dalla luna

 

 

Destini incrociati

 



La strada illuminata dalla luna (The Moonlit Road) è un racconto breve, una ghost story dello scrittore americano Ambrose Bierce (1842-1914). Fu pubblicato nel 1907 nella rivista Cosmopolitan, con le illustrazioni di Charles B. Falls.

La storia è divisa in tre parti, ognuna delle quali riporta le testimonianze sull’omicidio di Julia Hetman da tre diversi punti di vista. La prima dichiarazione è quella di Joel Hetman, Jr., suo figlio. Segue quella di un certo Caspar Grattan, un uomo che potrebbe essere suo marito. Infine, abbiamo la testimonianza di Julia stessa, attraverso la medium Bayrolles.

La narrazione è in prima persona, e ognuno di loro si approccia in maniera diretta con il lettore, senza nessuna ‘cornice’ ad inquadrare le loro testimonianze in un prima e un dopo. Tutto fluisce in uno spazio senza tempo che è quello della memoria, per sua natura labile e inaffidabile. Ogni testimonianza costituisce un tassello della storia, che sta al lettore ricomporre, senza tuttavia poter giungere ad una conclusione certa. Vi sono sospetti inconfessabili, come quelli del figlio, ‘rimasto doppiamente abbandonato,’ dopo la morte violenta della madre e la sparizione del padre.

Del secondo testimone non è certa nemmeno l’identità: il nome se lo è dato da solo, dopo aver perso la memoria. Della sua vita, a cui ha deciso di mettere fine con la morte, ricorda solo gli ultimi venti anni: il prima è solo un lungo rimorso per il delitto tremendo che ha commesso e per il fantasma che lo perseguita nei suoi incubi.

Lultima a parlare ‘attraverso un’intelligenza balbettante, quella della medium, è la vittima stessa, che ci appare ancora più ignara degli altri sulla verità della sua stessa morte. I morti, infatti, possono solo ricordare, ‘non conoscono nuove verità’: il suo delitto avvenne al buio, perciò non ha mai conosciuto il suo assassino. Essi possono attraversare il confine che li separa dai vivi solo se sospinti da una forte passione: l’amore o l’odio. Ed è proprio l’amore per i suoi a rompere ‘quel sortilegio di morte’ e a renderla visibile al marito, su quella strada illuminata dalla luna che sembra essere l’unico filo conduttore di tutta la vicenda. Ma la reazione del marito non è quella da lei sperata: ‘ristabilire il legame interrotto tra i vivi e i morti.’ Egli se ne fugge via terrorizzato, tra lo sconcerto del figlio e il dolore senza fine della moglie.

 

🎥Tra cinema e letteratura:

"The Moonlit Road" ispirò la storia dello scrittore giapponese Ryunosuke Akutagawa (1892 - 1927) intitolata "Yabu no naka" ("Nel bosco"), che a sua volta fornì la strutura narrativa per il memorabile film di Akira Kurosawa, Rashomon, 1950.







La strada illuminata dalla luna

di Ambrose Bierce





1. Dichiarazione di Joel Hetman, Jr.

Sono il più sfortunato degli uomini. Ricco, rispettato, ben istruito e di buona salute – con molti altri vantaggi solitamente apprezzati da coloro che li possiedono e ambiti da coloro che non li hanno – a volte penso che sarei meno infelice se mi fossero stati negati, perché allora il contrasto fra la mia vita interiore e quella esteriore non avrebbe continuamente richiesto una dolorosa attenzione. Nelle ristrettezze della privazione e nella necessità di industriarmi avrei a volte potuto dimenticare l’oscuro segreto che sfugge sempre alle congetture che comporta.

Sono l’unico figlio di Joel and Julia Hetman. Il primo era un agiato gentiluomo di campagna, l’altra una donna bella e raffinata a cui egli era appassionatamente legato da quello che io ora so essere stata una devozione gelosa ed esigente. La casa di famiglia era a poche miglia da Nashville, Tennessee, una residenza ampia, costruita in modo irregolare, senza un particolare stile architettonico, alquanto distante dalla strada, circondata da un parco di alberi ed arbusti.

Al tempo di cui scrivo avevo diciannove anni ed ero studente a Yale. Un giorno ricevetti un telegramma da mio padre di una tale urgenza che, in ottemperanza alla sua inspiegata richiesta, partii immediatamente per casa. Alla stazione di Nashville un lontano parente mi attendeva per spiegarmi il motivo della mia convocazione: mia madre era stata barbaramente assassinata – perché e da chi, nessuno riusciva a fare supposizioni, ma le circostanze erano queste.

Mio padre era andato a Nashville, con l’intenzione di tornare il pomeriggio seguente. Qualcosa gli impedì di realizzare l’affare che aveva tra le mani, così ritornò la notte stessa, arrivando poco prima dell’alba. Nella deposizione davanti al magistrato spiegò che, non avendo la chiave e non volendo disturbare il sonno della servitù, si era portato sul retro della casa, senza nessuna precisa intenzione. Mentre girava l’angolo dell’edificio, sentì un rumore, come di una porta chiusa piano, e nelle tenebre vide, in maniera indistinta, la figura di un uomo, che immediatamente sparì tra gli alberi del parco.

Nella convinzione che l’intruso fosse qualcuno che avesse visitato in segreto una cameriera, ci fu un precipitoso inseguimento e una breve ispezione delle vicinanze, ma essendosi rivelati infruttuosi, mio padre entrò dalla porta schiusa e salì le scale che conducevano alla camera di mia madre. La porta era aperta e, muovendosi al buio più completo, cadde lungo disteso su di un oggetto ingombrante che si trovava sul pavimento. Posso risparmiarmi i dettagli: era la mia povera madre, morta strangolata da mani umane.

Dalla casa non era stato portato via niente, la servitù non aveva sentito nessun rumore, ed eccetto quei tremendi segni di dita sulla gola della donna morta – mio Dio! potessi dimenticarmene! - non si trovò mai alcuna traccia dell’assassino.

Interruppi i miei studi e rimasi accanto a mio padre che, naturalmente, era profondamente cambiato. Era sempre stato di umore calmo e taciturno, ma ora era caduto in uno stato di prostrazione così profondo che nulla poteva mantenere viva la sua attenzione, tuttavia qualunque cosa – un rumore di passi, l’improvviso chiudersi di una porta – suscitava in lui uno sporadico interesse: la si sarebbe potuta definire ansia. Ad ogni minima sollecitazione improvvisa dei sensi era solito trasalire visibilmente e a volte impallidiva, poi ricadeva in una malinconica apatia più profonda di prima.

Credo che fosse diventato quello che si suole chiamare un “fascio di nervi.” Quanto a me, ero più giovane di adesso – e questo vuol dire molto. La gioventù è quella terra felice in cui c’è un balsamo per ogni ferita. Ah, potessi ancora vivere in quella terra incantata! Non avendo dimestichezza col dolore, non sapevo come valutare la mia perdita, non riuscivo a stimare correttamente la forza di quel colpo.

Una notte, pochi mesi dopo quel terribile avvenimento, io e mio padre tornavamo a casa dalla città. La luna piena si era levata sull’orizzonte, ad oriente, da circa tre ore: tutto il paesaggio aveva la solenne quiete di una notte d’estate, gli unici suoni erano quelli dei nostri passi e, in lontananza, l’incessante musica dei grilli. Le ombre nere degli alberi si stagliavano oblique sulla strada che, nei brevi tratti illuminati, emanava un pallido bagliore spettrale.

Mentre ci avvicinavamo al cancello della nostra abitazione, la cui facciata era in ombra e senza nessuna luce, mio padre improvvisamente si fermò e mi afferrò il braccio, dicendo, con un filo di voce:

Dio! Dio! Cos’è quello?”

Non sento niente,” risposi.

Ma guarda… guarda! disse, puntando il dito verso la strada, proprio davanti a noi.

Dissi: “Non c’è niente là. Venite, padre, entriamo… non state bene.”

Mi aveva lasciato il braccio ed era rimasto rigido ed immobile al centro della strada illuminata, con lo sguardo fisso di chi ha perso la ragione. La sua faccia, sotto la luce lunare, mostrava un pallore e una fissità incredibilmente angoscianti. Lo tirai dolcemente per la manica, ma era completamente dimentico della mia esistenza. Subito iniziò ad indietreggiare, passo dopo passo, senza distogliere gli occhi, nemmeno per un istante, da ciò che vedeva, o pensava di vedere. Mi voltai a metà per seguirlo, ma non seppi decidermi. Non ricordo alcun sentimento di paura, a meno che un gelo improvviso non ne fosse la manifestazione fisica. Era come se un vento ghiacciato mi avesse sfiorato il viso ed avesse avvolto il mio corpo dalla testa ai piedi: lo sentivo agitarsi tra i miei capelli.

Proprio in quel momento la mia attenzione fu attirata da una luce che uscì improvvisamente da una finestra del piano superiore della casa: una delle cameriere, svegliata da non si sa quale misteriosa premonizione maligna e obbedendo ad un impulso che non fu mai in grado di definire, aveva acceso una lampada. Quando mi voltai per cercare mio padre, era sparito e, riguardo al suo destino, in tutti gli anni che sono trascorsi nessuna voce dal regno dell’ignoto ha superato il confine della congettura.

2. Dichiarazione di Caspar Grattan

Oggi si dice che sia vivo, domani, qui in questa stanza, giacerà una forma insensata d’argilla che troppo a lungo sono stato io. Se qualcuno solleverà il lenzuolo dalla faccia di quella spiacevole cosa sarà solo per gratificare una mera curiosità morbosa. Qualcuno, senza dubbio, si spingerà oltre e chiederà, “Chi era?” In questo scritto fornisco l’unica risposta di cui sono capace - Caspar Grattan. Certamente questo dovrebbe essere sufficiente. Questo nome ha servito i miei piccoli bisogni per più di venti anni di una vita non so quanto lunga. In verità, me lo sono dato da solo, ma mancandomene un altro, ne avevo il diritto. A questo mondo bisogna avere un nome: evita le confusioni, anche quando non stabilisce un’identità. Alcuni, tuttavia, vengono identificati con i numeri, ma anche questi mi sembrano distinzioni inadeguate.

Un giorno, per esempio, stavo camminando lungo la strada di una città, lontana da qui, quando incontrai due uomini in uniforme, uno dei quali, quasi fermandosi a guardarmi in faccia con curiosità, disse al suo collega, ‘Quell’uomo rassomiglia a 767.’ Qualcosa in quel numero mi sembrò familiare e orribile. Spinto da un impulso incontrollabile, saltai in una strada laterale e corsi, finché caddi esausto in un sentiero di campagna.

Chiunque dovesse rinvenire questo foglio, devo pregarlo di avere un po’ di considerazione. Questa non è la storia della mia vita: mi è negata la necessaria conoscenza per scriverne. Questo è solo il resoconto di ricordi frammentari e apparentemente slegati, alcuni dei quali chiari e in sequenza come come perline su di un filo. Altri remoti e strani, con le caratteristiche dei sogni cremisii con intervalli bianchi e neri – fuochi di strega che bruciano silenziosi e rossi in una vasta desolazione.

Fermo sulle rive dell’eternità, mi volto per un ultimo sguardo verso terra lungo la strada da cui sono venuto. Ci sono venti anni di orme molto nette, le impronte di piedi sanguinanti. Avanzano attraverso povertà e dolore, tortuose ed esitanti, come di qualcuno che barcolla sotto un pesante fardello…

Remoto, solitario, melanconico, lentoii.

Ah, la profezia del poeta su di me – quanto ammirevole, quanto terribilmente ammirevole!

Indietro, oltre l’inizio di questa via dolorosa – questa epica della sofferenza con episodi di peccato – non vedo niente chiaramente, esce fuori da una nuvola. So che dura solo venti anni, tuttavia sono un uomo vecchio.

Nessuno ricorda la propria nascita, bisogna che ci venga raccontata. Ma con me è stato diverso: la vita mi è arrivata a piene mani e mi ha dotato di tutte le mie facoltà e dei miei poteri. Dell’esistenza precedente non ne so più degli altri, perché tutti hanno segnali balbettanti che possono essere ricordi e possono essere sogni. So solo che la mia prima consapevolezza fu della maturità nel corpo e nella mente – una consapevolezza accettata senza sorpresa o congetture. Mi trovai semplicemente a camminare in una foresta, mezzo vestito, con i piedi dolenti, incredibilmente stanco e affamato. Vedendo una fattoria, mi fermai e chiesi del cibo, che mi fu dato da uno che chiese il mio nome. Non lo sapevo, tuttavia sapevo che tutti hanno un nome. Con grande imbarazzo, me ne andai e, sopravvenendo la notte, mi stesi giù nella foresta e dormii.

Il giorno successivo entrai in una grande città di cui non dirò il nome. Né riferirò altri episodi di questa vita che sta per finire, una vita di vagabondaggi, sempre e dovunque perseguitata dal senso oppressivo di un crimine a punizione di un torto e di un terrore a punizione del crimine. Vediamo se riesco a trasformarlo in un racconto.

Mi sembra che una tempo vivessi vicino ad una grande città, prospero proprietario di piantagioni, sposato ad una donna che amavo e di cui non avevo fiducia. Avevamo, a volte mi sembra, un figlio, un giovane brillante e di belle speranze. La sua è sempre una figura vaga, mai chiaramente delineata, e spesso del tutto esclusa da questo ritratto.

Una sfortunata sera mi accadde di mettere alla prova la fedeltà di mia moglie in un modo grossolano e banale, ben noto a chiunque abbia dimestichezza con la cronaca e i romanzi. Andai in città, dicendo a mia moglie che sarei stato assente fino al pomeriggio seguente. Invece, ritornai prima dell’alba e andai sul retro della casa, col proposito di entrare da una porta che avevo segretamente manomesso così che sembrasse chiusa a chiave, ma in realtà non lo era.

Mentre mi avvicinavo, sentii che veniva aperta e chiusa piano piano, e vidi un uomo allontanarsi furtivamente nell’oscurità. Con in cuore il desiderio di uccidere, gli corsi dietro, ma era svanito senza nemmeno la sfortuna di essere identificato. Ora, a volte, mi persuado perfino che non fosse un essere umano.

Reso folle dalla gelosia e dalla rabbia, cieco e bestiale a causa di tutte le passioni elementari di una virilità offesa, entrai in casa e mi lanciai su per le scale fino alla porta della camera di mia moglie. Era chiusa, ma avendo manomesso anche la sua serratura, entrai facilmente e, a dispetto di una fitta oscurità, mi portai velocemente a fianco al suo letto. Le mie mani, cercando a tentoni, mi dissero che, oltre ad essere disfatto, era vuoto.

Sarà giù,” pensai, “e terrorizzata dalla mia venuta, mi ha evitato grazie all’oscurità dell’ingresso.” Allo scopo di andare a cercarla, mi voltai per lasciare la stanza, ma presi la direzione sbagliata… era quella giusta! Il mio piede la urtò, mentre era rannicchiata in un angolo della stanza. Le mie mani furono istantaneamente intorno alla sua gola, a soffocare un urlo, le mie ginocchia furono sul suo corpo che lottava e lì, nell’oscurità, senza una parola di accusa o di rimprovero, la strangolai finché morì! A questo punto, il sogno si interrompe.

Ho scritto con i verbi al passato, ma il presente sarebbe una forma più adatta, perché quella fosca tragedia si replica di continuo nella mia coscienza – di nuovo escogito il mio piano, subisco la conferma dei miei sospetti, riparo al torto. Poi tutto svanisce, e dopo la pioggia batte contro i vetri sudici, o la neve cade sui miei miseri abiti, le ruote sferragliano lungo squallide strade dove la mi vita si svolge in povertà e lavori umili. Se mai c’è il sole non me ne ricordo, se ci sono uccelli non cantano.

C’è un altro sogno, un’altra visione della notte. Mi trovo tra le ombre in una strada illuminata dalla luna. Sono consapevole di un’altra presenza, ma non riesco a determinare correttamente chi sia. Nell’ombra di una grande dimora, percepisco il bagliore di abiti bianchi, poi la figura di una donna mi fronteggia sulla strada – mia moglie assassinata! C’è la morte nel suo viso, ci sono i segni sulla gola. Gli occhi sono fissi nei miei con un’infinita serietà che non è rimprovero, né odio, né qualcosa di meno terribile del riconoscimento. Di fronte a questa tremenda apparizione indietreggio in preda al terrore – un terrore che è su di me mentre scrivo. Non riesco più a formulare correttamente le parole. Guardate! Loro…

Ora sono calmo, ma, sinceramente, non c’è più molto da dire: l’episodio finisce dove è iniziato – nell’oscurità e nel dubbio. Sì, ho di nuovo il controllo di me stesso: ‘il capitano della mia animaiii.’ Ma non è una tregua, è un’altra stadio e fase della espiazione. La mia pena, costante nell’intensità, è mutevole nella forma: una delle sue varianti è la tranquillità. Dopo tutto, è soltanto una condanna a vita. ‘All’inferno per la vita’ - questa è una sciocca pena: il colpevole sceglie la durata del suo castigo. Oggi scade il mio termine.

A ciascuno di voi e a tutti, la pace che non fu mia.

3. Dichiarazione della defunta Julia Hetman, attraverso la medium Bayrolles

Mi ero ritirata presto ed ero caduta quasi immediatamente in un sonno tranquillo, da cui mi svegliai con quell’indefinibile senso di pericolo che è, penso, un’esperienza comune in quell’altra, precedente vita. Ero perfettamente consapevole che non avesse alcun senso, tuttavia questo non lo allontanò da me. Mio marito, Joel Hetman, era via da casa, la servitù dormiva in un’altra ala dell’edificio. Ma queste erano le normali condizioni, non mi avevano mai angosciata. Tuttavia, quello strano terrore divenne così insopportabile che, superando la mia riluttanza a muovermi, mi sedetti e accesi la lampada accanto al letto.

Contrariamente ad ogni mia aspettativa, questo non mi diede alcun sollievo: la luce sembrava piuttosto un pericolo aggiunto, perché, riflettei, sarebbe filtrata sotto la porta, rivelando la mia presenza a qualunque cosa malvagia fosse in agguato là fuori. Voi che siete ancora carne e ossa, soggetti agli orrori dell’immaginazione, pensate quale mostruosa paura deve essere quella che nell’oscurità spinge a cercare riparo dalle entità malevoli della notte. E cioè: precipitarsi verso quartieri prossimi ad un nemico invisibile – la strategia della disperazione!

Spenta la lampada, mi tirai le coperte sulla testa e giacqui tremante e silenziosa, incapace di gridare, dimenticando di pregare. Devo essere rimasta in questo miserevole stato per quelle che voi chiamate ore – da noi non ci sono ore – il tempo non esiste.

Alla fine arrivò – un rumore leggero di passi irregolari lungo le scale! Erano lenti, esitanti, incerti, come di qualcosa che non riuscisse a trovare la strada: era ancor più terrificante per la mia mente sconvolta, come l’avvicinarsi di una malvagità cieca e folle verso cui non c’è appello. Pensai perfino che dovevo aver lasciato accesa la lampada nell’ingresso e che l’avanzare a tentoni di quella creatura era la prova che fosse un mostro della notte.

Questo era sciocco e incoerente con la mia precedente paura della luce, ma che volete? La paura non ha cervello, è un’idiota. La spaventosa testimonianza che fornisce e il vile consiglio che sussurra non vanno insieme. Lo sappiamo bene, noi che siamo passati nel regno del terrore, celati nell’eterno crepuscolo tra le scene delle nostre vite precedenti, invisibili anche a noi stessi, e gli uni agli altri, tuttavia ci nascondiamo infelici in luoghi solitari, desiderando ardentemente di comunicare con coloro che amammo e tuttavia muti e timorosi di loro come loro di noi.

A volte questo ostacolo è rimosso, la legge sospesa: grazie al potere immortale dell’amore o dell’odio, rompiamo l’incantesimo – siamo visti da coloro che vorremmo mettere in guardia, consolare o punire. Non sappiamo qual’è la forma che a loro sembriamo assumere: sappiamo solo che terrorizziamo anche coloro che maggiormente vorremmo confortare e da cui desideriamo ardentemente tenerezza e comprensione.

Perdonate, vi prego, questa digressione irrilevante da parte di chi un tempo fu donna. Voi che ci consultate in questo modo imperfetto – voi che non comprendete. Fate domande sciocche su cose sconosciute e cose proibite. Molto di quello che sappiamo e potremmo esprimere nei nostri discorsi è senza senso per voi. Noi dobbiamo comunicare con voi attraverso un’intelligenza balbettante in quella piccola frazione del nostro linguaggio che anche voi potete parlare. Voi pensate che siamo di un altro mondo. No, non abbiamo conoscenza di altri mondi se non il vostro, anche se per noi è un mondo senza luce del sole, senza calore, senza risate, senza il canto degli uccelli, senza nessuna compagnia. O Dio! Che cosa terribile è essere un fantasma, che si nasconde e trema in un mondo alterato, preda dell’apprensione e della disperazione.

No, non sono morta di paura: la cosa si voltò e andò via. La sentii scendere le scale di corsa, pensai, come se fosse anch’essa in preda ad un’improvviso terrore. Poi mi alzai per cercare aiuto. La mia mano tremante aveva a malapena trovato il pomo della porta, quando – cielo misericordioso! - sentii che ritornava. I suoi passi, mentre risaliva le scale, erano rapidi, pesanti e rumorosi, facevano tremare la casa. Volai a nascondermi in un angolo della parete e mi accoccolai sul pavimento. Cercai di pregare, cercai di chiamare il nome del mio caro marito. Poi sentii spalancare la porta. Ci fu un intervallo di incoscienza, e quando rinvenni sentii intorno al collo una stretta che mi strangolava – sentii le mie braccia battere debolmente contro qualcosa che mi spingeva giù – sentii la lingua cacciarsi tra i denti! E fu allora che passai in questa vita.

No, non ho conoscenza di cosa sia stato. La somma di ciò che sapevamo alla nostra morte è la misura di ciò che sappiamo dopo, di tutto ciò che veniva prima. Di questa esistenza sappiamo molte cose, ma nessuna luce nuova cade sulle sue pagine; tutto quello che possiamo leggere di essa è scritto nella memoria. Qui non ci sono vette di verità che sovrastano il confuso panorama di quell’incerto dominio. Noi abitiamo ancora la valle dell’ombra, nascosti nei suoi luoghi desolati spiando, attraverso rovi e boschetti, i suoi pazzi e maligni abitanti. Come potremmo avere nuova conoscenza di quel passato evanescente?

Quello che sto per raccontare accadde una notte. Sappiamo quando è notte, perché allora voi vi ritirate nelle vostre case e noi possiamo avventurarci fuori dai nostri nascondigli per muoverci senza paura intorno alle nostre vecchie case, guardarci dentro attraverso le finestre, entrare, perfino, e osservare le vostre facce mentre dormite. Avevo indugiato a lungo vicino all’abitazione dove ero stata così crudelmente mutata in quello che sono, come facciamo quando quelli che amiamo oppure odiamo vi rimangono. In vano avevo cercato un metodo per manifestarmi, un modo per far comprendere a mio marito e a mio figlio la mia ininterrotta esistenza, il mio grande amore e la mia toccante pietà. Se dormivano, si vegliavano sempre, oppure, se nella mia disperazione osavo avvicinarli quando erano svegli, volgevano verso di me i terribili occhi dei vivi, allontanandomi dal mio proposito con quegli sguardi che avevo cercato.

Quella notte li avevo cercati senza successo, temendo di trovarli: non erano in nessuna parte della casa, né in giro per il prato illuminato dalla luna. Perché, sebbene sebbene il sole per noi è perso per sempre, la luna, piena o crescente, ci rimane. A volte brilla di notte, a volte di giorno, ma continua a sorgere e tramontare, come nell’altra vita.

Abbandonai il prato e mi mossi nella luce bianca e nel silenzio della strada, senza una meta e addolorata. Improvvisamente, sentii la voce del mio povero marito prorompere in esclamazioni di stupore, insieme a quella di mio figlio che rassicurava e dissuadeva, ed erano fermi lì, all’ombra di un gruppo di alberi – vicini, così vicini! Le loro facce erano rivolte verso di me, gli occhi del più anziano fissi sui miei. Mi vedeva – finalmente, finalmente, mi vedeva! Con questa consapevolezza, il mio terrore svanì come un sogno crudele. L’incantesimo mortale era rotto: l’amore aveva prevalso sulla legge! Pazza di gioia, gridai – devo aver gridato ‘Mi vede, mi vede, capirà!’ Poi, controllandomi, avanzai, sorridendo e consapevole della mia bellezza, per offrirmi alle sue braccia, per confortarlo con tenerezze e, con la mano di mio figlio nella mia, pronunciare parole che avrebbero dovuto ristabilire i legami spezzati tra i vivi e i morti.

Ahimè! Ahimè! Il suo volto sbiancò per la paura, i suoi occhi erano quelli di un animale braccato. Indietreggiò, mentre io avanzavo e, infine, si girò e fuggì nel bosco – in che direzione, non mi è dato sapere.

Al mio povero ragazzo, rimasto doppiamente abbandonato, non sono mai stata capace di impartire un senso della mia presenza. Presto, anche lui dovrà passare in questa vita invisibile e per me sarà perduto per sempre.



FINE

 

i Nella Bibbia sognare il color porpora potrebbe rappresentare spargimento di sangue a simboleggiare una guerra interiore. (Libro dei re 2:5)

ii E’ il verso iniziale della poesia ‘Il Viaggiatore’ (The Traveller) di Oliver Goldsmith, (1728-1774)

iii “I am the master of my fate: I am the captain of my soul.” Il poeta William Ernest Henley (1849–1903) compose questi versi nella sua poesia Invictus, dopo anni di lotta contro una dolorosa tubercolosi ossea. La poesia dà il titolo ad un film su Nelson Mandela, Invictus – L'invincibile, del 2009 diretto da Clint Eastwood.


 

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