Alla
ricerca del Natale perduto
Nella
triste Inghilterra della rivoluzione industriale, che lasciava ai
lavoratori ben
poco
tempo per festeggiare,
il
Natale era un giorno di lavoro come gli altri. Furono
proprio i racconti di Dickens, in particolare A
Chistmas Carol
(1843),
a
riaccendere
la gioia del Natale, che
era una festività in declino da quando Oliver Cromwell,
(vincitore della rivoluzione puritana culminata nel 1649 con la
decapitazione del re) cercò di eradicare le tradizioni natalizie del
medioevo a causa delle loro implicazioni pagane. Infatti, il 25
dicembre coincide con le celebrazioni del solstizio invernale, i
Saturnalia nel mondo latino e Yule nella tradizione nordica.
La tradizione della famiglia riunita intorno all'albero
di Natale, invece, fu
portata dalla Germania in Inghilterra dal Principe Alberto, marito
della regina Vittoria. Altra tradizione importata dal principe
Alberto fu quella dei canti natalizi, che ravvivò la tradizione
medievale dei Waits, gruppi di cantori e musicisti dilettanti che si
esibivano per le strade nel giorno di Natale.
Il nome di
Dickens divenne così strettamente connesso al Natale, che quando
morì una piccola venditrice ambulante chiese: “Mr.
Dickens morto? Allora
anche Papà Natale è morto?”
Dopo
il successo di A
Christmas Carol,
Dicken rispettò
il suo appuntamento con i lettori, pubblicando quasi tutti gli anni
un nuovo racconto natalizio. Nel
1850 pubblicò
A Christmas Tree nella
sua rivista Household
Words.
Il
racconto è stato tradotto in italiano solo nel 1981 e
pubblicato
da Vanni Scheiwiller col marchio «All'insegna del pesce d'oro»,
oggi introvabile, in una preziosa edizione bilingue illustrata dalle
inquietanti
incisioni di Mirando Haz (pseudonimo
di Amedeo Pieragostini), che ben riescono a cogliere il lato più
oscuro e visionario di questo racconto. Racconto
pieno di invenzioni, suggestioni e tocchi di humor nero, sicuramente
uno dei più originali di Dickens, eppure uno dei meno conosciuti,
forse
perché il suo messaggio è meno rassicurante e ottimista di quello
che il
pubblico vittoriano
avrebbe
gradito.
Anche
lo stile della narrazione risulta complesso e sofisticato, una sorta
di reverie che mi ha ricordato la Recherche
di Proust.
Il
racconto inizia nel più convenzionale dei modi: è il giorno di
Natale e il narratore lo ha trascorso insieme ad “un'allegra
compagnia di bambini riuniti intorno a
quel
grazioso giocattolo tedesco, l'albero
di Natale.” Il
narratore guarda l'albero con gli occhi dei bambini, incantati dallo
sfavillio delle luci e dal tripudio di giocattoli appesi ai rami
dell'albero:
“C'era di tutto e di più.” Di
ritorno a casa, i suoi pensieri ritornano indietro:
“Comincio
a ripensare alle cose che tutti noi meglio ricordiamo fra quella
appese ai rami dell'albero di Natale della nostra giovinezza, sul
quale ci siamo arrampicati fino alla vita reale.” Anche
l'albero assume una direzione retrograda: “... perché
scopro che, grazie ad una sua singolare caratteristica, questo albero
sembra stagliarsi giù verso la terra.” E
la luminosa punta dell'albero, riaccende in lui i ricordi della sua
infanzia. Dapprima i giocattoli, naturalmente. Ma i giocattoli appesi
all'albero
della
memoria,
che lancia intorno a sé un'ombra inquietante, nascondevano
anch'essi un lato oscuro; e
così l'acrobata lo fissava
con i suoi infidi
“occhi d'aragosta”, dalla
tabacchiera sbucava
un demoniaco pupazzo in toga nera, che lo perseguitava perfino nei
sogni. Ma la cosa che più lo terrorizzava era una
“spaventosa maschera” che
con
in suoi occhi vacui e i suoi lineamenti immobili evocava
quella
“... remota
suggestione e la paura di quel cambiamento universale che è
destinato a scendere sul volto di tutti noi e renderlo immobile.”
Solo
un profondo conoscitore dell'animo infantile
poteva intuire le profonde malinconie e le oscure paure dei
bambini di fronte ai misteri della vita e della morte.
Ma
sull'albero ci sono anche le favole
care all'infanzia, da Cappuccetto
Rosso alle
Mille e una Notte, e
i toy theatres, (teatrini di carta venduti in appositi kit da
ritagliare e incollare) dove venivano rappresentate storie edificanti
e lacrimevoli che hanno lasciato in eredità all'adulto l'amore per
il teatro vero. Ed
ecco avanzare sull'albero i Waits, con i loro canti natalizi ispirati
al Vangelo. Ed
è nella sequenza di scene ispirate alla vita di Gesù, che il
narratore sembra ritrovare il genuino spirito natalizio, fatto di
amore e carità.
Ma subito dopo al sacro si contrappone il profano dei racconti d'inverno
intorno al focolare “- o
meglio, storie di fantasmi -” E
qui Dickens, che ha spesso usato il soprannaturale nei suoi racconti,
si diverte a fare una lunga casistica delle tipiche situazioni da
ghost stories prendendo bonariamente in giro gli amanti di questo
genere. Ma è Natale, si sa, e anche questo fa parte della
tradizione.
Ora
il racconto volge alla fine, e il narratore scruta tra
i
rami più bassi, mentre
l'albero inizia a svanire. Il
suo pensiero ritorna a “occhi
che io ho amato e che sono volati via per sempre.” Ma
il ricordo della
figura salvifica di Gesù, già evocata dai canti dei Waits, ritorna
ad illuminare il Natale con la luce della speranza, spariscono
le ombre e ritornano i giochi dei bambini intorno all'albero,
“Possano
essere per sempre innocenti e benvenuti, sotto i rami dell'albero di
Natale, che
non ha più ombre
tetre!” E
il narratore stesso, si augura di rivolgersi al Cristo “...col
cuore di un bambino, e con la confidenza e la fiducia di un bambino!”
Ed
è nelle parole del Cristo che Dickens ritrova lo spirito più
genuino del Natale, “Fate
questo in memoria della legge dell'amore e della gentilezza, pietà e
misericordia. Fate questo in memoria di me!”
Un
albero di Natale
di
Charles
Dickens (1850)
Ho
trascorso la sera ad osservare un'allegra compagnia di bambini
riuniti intorno a quel grazioso giocattolo tedesco, l'albero di
Natale. L'albero era piantato al centro di un grande tavolo rotondo e
torreggiava sopra le loro teste. Risplendeva della luce di una
moltitudine di candeline, ed era tutto uno scintillio di oggetti
brillanti. C'erano bambole dalle guance rosa, che facevano capolino
da dietro le grandi foglie verdi, e c'erano dei veri orologi
(quantomeno, le lancette si muovevano e potevano essere caricati
all'infinito) che dondolavano da innumerevoli rami, c'erano tavolini
francesi tirati a lucido, sedie, lettini, armadi, orologi a corda, e
vari altri pezzi di arredamento (tutti di latta, meravigliosamente
costruiti a Wolverhampton), appollaiati tra i rami, come ad
apparecchiare una casa di fata; c'erano omini dai faccioni allegri,
dall'aspetto molto più gradevole di tanti uomini in carne ed ossa e
non c'era da meravigliarsi, perché staccando loro la testa, si
scopriva che erano pieni di di prugne candite; c'erano violini e
tamburi e tamburini; libri, scatole da lavoro, scatole di colori,
scatole di dolciumi, scatole prospettiche e tutti i tipi di scatole;
c'erano ninnoli per le ragazze più grandi, di gran lunga più
brillanti dell'oro e dei gioielli degli adulti; c'erano cestini e
puntaspilli di tutti i tipi; c'erano fucili, spade e stendardi;
c'erano magici girotondi di streghe di cartapesta; c'erano
trottoline, trottole, porta aghi, pulisci penna, bottiglie di sali,
carte di conversazione, porte-bouquet; frutta vera, resa
artificialmente scintillante da involucri dorati; mele, pere e noci
finte, piene zeppe di sorprese; in breve, come sussurrò deliziato un
grazioso bambino di fronte a me a un altro grazioso bambino, suo
amichetto del cuore, “C'era di tutto e di più.” Questa
eterogenea collezione di oggetti bizzarri, che pendeva dall'albero in
grappoli di magica frutta e i cui bagliori riflettevano gli sguardi
luminosi provenienti da ogni parte – alcuni di quegli occhi di
diamante persi in ammirazione arrivavano a malapena al tavolo, mentre
altri si struggevano di timido stupore in braccio alle loro graziose
madri, zie e bambinaie – era una vivida realizzazione delle
fantasie infantili e mi hanno indotto a pensare che gli alberi e
tutte le cose che esistono su questa terra hanno i loro fantastici
ornamenti in quel tempo evocato con tanta nostalgia.