sabato 20 dicembre 2014

La lotteria cinese


         Buon Natale e felice anno nuovo


Per farvi gli auguri di Natale ho scritto questa breve storia ispirandomi ad un famoso racconto di Mathesen Button, Button, e più precisamente alla versione apparsa nella famosa serie televisiva The twilight Zone, a cui Mathesen contribuì con diversi lavori, anche se non apprezzò le variazioni apportate all'originale.
L'idea di partenza è quella del 'Paradosso del Mandarino' (di cui avevo già parlato nell'introduzione al racconto di Arnold Bennett  Un Mandarino per Vera del 23-07-2013) e le conseguenti implicazioni morali: come potremmo reagire se messi  alla prova? e fino ache punto ci conosciamo veramente?

 

 

La lotteria cinese




Era un afoso pomeriggio d'agosto e Alice, stanca e sudata, stava tornando a casa con un carico di buste della spesa quasi esagerato per una ragazza minuta come lei. Ancora una volta senza macchina: suo marito Piero ci stava lavorando da due giorni, nei ritagli di tempo. Tanto lui sapeva aggiustare un po' di tutto e poi, un meccanico sarebbe stato troppo caro e, forse, anche sprecato, per quella vecchia carcassa che prima o poi l'avrebbe lasciata a piedi per sempre. Soldi per una nuova non ce n'erano, con quello che guadagnava Piero nell'impresa di pulizie riuscivano a mala pena a tirare avanti. Da quando lei aveva perso il lavoro al bar, quello era l'unico stipendio su cui potevano contare. Ogni tanto, i loro genitori li aiutavano con le bollette, ma quello era il massimo che potessero fare. Fortuna che il discount non era poi tanto lontano. Davanti a lei c'erano gli otto piani di un casermone popolare della periferia industriale della città. Industriale... una volta. Tutto intorno tanti altri palazzoni altrettanto brutti e anonimi ospitavano un'umanità eterogenea e multietnica, come testimoniavano le parabole che occhieggiavano dai balconi. Alice si diresse verso il garage nella speranza che il marito fosse riuscito a riparare il guasto.
Ciao, Alice.” Dal tono di voce esitante e imbarazzato, capì subito che le cose non andavano bene. Anche se erano sposati solo da due anni, era una vita che conosceva quel ragazzone grande e grosso e i suoi timidi occhi azzurri non avevano segreti per lei. 

lunedì 27 ottobre 2014

La Macchina si ferma



LA MACCHINA INFERNALE





The Machine Stops di E. M. Forster, fu pubblicato per la prima volta nel 1909 sulla Oxford and Cambridge Review e in seguito nell’antologia The Eternal Moment, ben prima delle più celebri produzioni di Huxley e Orwell (rispettivamente Brave New World del 1932 e 1984 del 1948)

Nella prefazione alle sue Collected Short Stories (1947), Forster scrisse che "The Machine Stops is a reaction to one of the earlier heavens of H. G. Wells." Sebbene non tutte le storie di Wells fossero ottimistiche rispetto al futuro, con questo racconto Forster dava voce alle sue preoccupazioni riguardo alla dipendenza dell'uomo dalla macchina. Certo ci sorprende che a descrivere con tanto anticipo un mondo in balia della tecnologia sia lo scrittore inglese Edward Morgan Forster, conosciuto e celebrato per i romanzi Passaggio in India, Camera con vista, Maurice al cui successo ha contribuito anche la trasposizione cinematografica.


Nel racconto Forster crea un universo cyberpunk in puro stile vittoriano portando alle estreme conseguenze la tecnologia ottocentesca: telefono, cinema, telegrafo, posta pneumatica, dirigibili – gli aeroplani erano agli albori – grammofono. Egli immagina un'umanità ridotta ad uno stato larvale che, come in un moderno inferno dantesco, è costretta a vivere in enormi città sotterranee in piccole celle esagonali ed è tenuta in vita dalla Macchina, che provvede a tutti i bisogni delle persone fino a sfociare in una vera e propria religione La macchina,” esclamavano, “ci nutre e ci veste e ci dà una casa; grazie a lei possiamo parlarci, grazie a lei possiamo vederci, in lei è custodita la nostra essenza. La Macchina è amica delle idee e nemica della superstizione: la Macchina è onnipotente, eterna, benedetta sia la Macchina.”

E' un universo claustrofobico che ha perso ogni contatto con la natura e vive di idee surrogate da altre idee, generando una sorta di babele culturale, dove l'unica verità è quella della Macchina. La storia non è più raccontata “come accadde, né come avrebbero voluto che fosse accaduta, ma come avrebbe dovuto accadere, se avesse avuto luogo nei giorni della Macchina.”

La principale occupazione delle persone è parlare agli altri per scambiarsi idee attraverso gli “speaking tubes” - telefoni - e i “cinematophoes” - piastre rotonde in cui possono sentire e vedere i loro interlocutori, antenati dei moderni tablets, trasformando così le loro stanze in reali “chat rooms”. Tutto sotto lo stretto controllo dalla Macchina: “Noi abbiamo creato la Macchina affinché ubbidisse al nostro volere ma noi ora non riusciamo a farle eseguire i nostri ordini... La Macchina procede ma non verso la nostra meta. Noi esistiamo solo come globuli sanguigni che scorrono nelle sue arterie, e se lei potesse funzionare senza di noi ci lascerebbe morire.”
 
L'unico contatto tra esseri umani avviene attraverso la Macchina, il contatto diretto, sia pure tra madre e figlio, fa paura. Solo un attimo prima della catstrofe finale i due protagonisti avranno la forza di cercarsi e di abbracciarsi. Oggi questo fenomeno ha un nome preciso: "Hikikomori" - un termine giapponese che significa letteralmente "stare in disparte" e che riguarda soprattutto i giovani, che rifiutano il confronto con la realtà per rifugiarsi nel mondo virtuale, proprio come i protagonisti di questo racconto visionario.

Anche la globalizzazione è un altro fenomeno previsto da Forster, come degenerazione del sistema: Perché andare a Pechino quando questa era proprio uguale a Shrewsbury? Perché ritornare a Shrewsbury quando tutto era uguale a Pechino?”

Ma l'aspetto più inquietante è che l'umanità si è volutamente consegnata alla Macchina dopo aver perso la sua sfida per soggiogare la natura: “Ma l'umanità, nel suo desiderio di benessere, aveva superato sé stessa. Aveva sfruttato le ricchezze della natura troppo oltre. In silenzio e con compiacimento, stava affondando nella decadenza, e la parola progresso aveva finito col significare il progresso della Macchina.”

Se ci stupisce il fatto che Forster abbia anticipato di sessanta anni Internet, non meno precisa è la sua visione di una società allo stremo che rinuncia volutamente alle sue prerogative per essere protetta da sé stessa, prevedendo quel perverso trade off tra diritti dei cittadini e più sicurezza, più lavoro, più benessere che sta snaturando e indebolendo le moderne democrazie.
 
 




💥Libri consigliati:
 
Edward Morgan Forster, La macchina si ferma,
trad. di Maria Valentini, Portaparole, 2012, pp. 156, euro 16

Butler Samuel, Erewhon
1975, XXII-237 p., brossura, 6 ed. Adelphi (collana Piccola biblioteca Adelphi)
Traduttore Demby L. D.

Rampini Federico: Rete padrona. Amazon, Apple, Google & co. Il volto oscuro della rivoluzione digitale, Feltrinelli (collana Fuochi), 2014, 278 p

 
👌Film consigliati:
 
Metropolis – diretto da Fritz Lang, 1927
La fuga di Logan – (Logan's Run) 1976, diretto da Michael Anderson,
L'uomo che fuggì dal futuro - (THX 1138) 1971, diretto da George Lucas,
L'esercito delle 12 scimmie - (12 Monkeys) 1995, diretto da Terry Gilliam









La Macchina si ferma.

E. M. Forster
(1909)




                                      Ugo Pozzo - 1925






L'aeronave

Immaginate, se potete, una piccola stanza, di forma esagonale, come la cella di una ape. Non è illuminata né da finestre né da lampade, eppure è pervasa da una delicata luminescenza. Non ci sono aperture per la ventilazione, eppure l'aria è fresca. Non ci sono strumenti musicali, eppure nel momento in cui inizia questa mia meditazione, la stanza vibra di suoni melodiosi. Al centro c'è una poltrona con affianco un leggio, e questi sono tutti i mobili. E nella poltrona siede un ammasso di carne fasciata, una donna alta circa un metro e mezzo, con il volto bianco come un fungo. E' a lei che appartiene la stanza.

Un campanello elettrico suonò.

La donna toccò un interruttore e la musica cessò.

Suppongo che devo vedere chi è,” pensò, e mise in movimento la sedia. La sedia, come la musica, era azionata da un macchinario e rullò sull'altro lato della stanza dove il campanello continuava a suonare inopportunamente.

Chi è?” chiese. La sua voce erra irritata, perché era stata interrotta spesso da quando la musica era iniziata. Conosceva diverse migliaia di persone, sotto certi aspetti i rapporti umani erano migliorati enormemente. Ma quando portò il ricevitore all'orecchio, il suo volto bianco si increspò in un sorriso e disse: “Benissimo. Parliamo, ora mi isolo. Non mi aspetto che accada niente di importante per i prossimi cinque minuti. Perché posso darti al massimo cinque minuti, Kuno1. Poi devo tenere la mia conferenza su “La musica durante il periodo australiano.” Toccò la manopola per l'isolamento, così che nessun altro potesse parlare con lei. Poi toccò il dispositivo per l'illuminazione e la piccola stanza fu sommersa dalle tenebre.

lunedì 28 luglio 2014

Il padrone di Moxon


 Una partita a scacchi

Il Padrone di Moxon (Moxon's Master) è un racconto breve dello scrittore americano Ambrose Bierce (1842, Ohio, Stati Uniti - 1914, Chihuahua, Messico), pubblicato la prima volta nel 1893 nella raccolta Can Such Things Be?. Bierce fu scrittore, giornalista e aforista statunitense, tra i più caustici della San Francisco a cavallo tra il 1850 e i primi anni del XX secolo, al punto da meritarsi il soprannome di “Bitter Bierce”. Viene ricordato soprattutto per il suo Dizionario del diavolo, dove, sotto l'innocua veste di lessicografo, mette alla berlina la società del suo tempo. I suoi racconti brevi sono considerati tra i migliori del XIX secolo, soprattutto quelli sulla guerra di secessione come An Occurrence at Owl Creek Bridge (Accadde al ponte di Owl Creek), A Horseman in the Sky (Un cavaliere nel cielo) ampiamente antologizzati. I suoi racconti fantastici anticiparono lo stile grottesco che sarebbe diventato un vero e proprio genere letterario nel XX secolo. La sua fine fu degna dei suoi migliori racconti soprannaturali: scomparve in una nuvola di polvere durante una battaglia in Messico dove era andato per seguire le vicende della rivoluzione di Pancho Villa.


Il padrone di Moxon, (tradotto anche come Il signore di Moxon o La creatura di Moxon) è un racconto breve ma ricco di suggestioni. Protagonisti sono Moxon, inventore e filosofo dilettante, e la sua creatura meccanica: un automa giocatore di scacchi. Lo spunto narrativo parte dal saggio di E. A. Poe Il giocatore di scacchi di Maelzel (Maelzel's Chess Player,1836) in cui lo scrittore smaschera un falso automa scacchista detto Il Turco che era diventato famoso in Europa e negli Stati Uniti. Ma “Bitter Bierce” manipola la materia a suo modo. Come si intuisce dal titolo, egli mette in guardia gli uomini del suo tempo contro la tirannia di una macchina tanto simile all'uomo da ereditarne anche il suo lato oscuro (ricordate HAL 9000 in 2001: Odissea nello spazio?). La prima parte del racconto si svolge sotto forma di dialogo quasi-platonico tra Moxon e il narratore sulla natura dell'intelligenza e sul concetto di vita, che Moxon interpreta in maniera meccanicistica, sulla scia di quel pensiero positivista che faceva coincidere il progresso dell'umanità con quello scientifico-tecnologico, senza spazio per la spiritualità, riducendo l'uomo a “macchina” vivente. E del resto egli mette in dubbio la stessa idea di progresso, il suo “Turco” è un ibrido mostruoso, sul volto impassibile sono dipinte fattezze umane, ma il corpo è quello di un gorilla, con arti asimmetrici dalla presa mortale, simbolo di una regressione ad uno stadio puramente istintivo, dove vige la logica del più forte. Egli sembra portare alle estreme conseguenze le teorie del filosofo inglese Herbert Spencer, padre del darwinismo sociale che predicava “The survival of the fittest”: in un mondo dove non c'è più spazio per lo spirito, chi è il più adatto a sopravvivere, l'uomo o la macchina?
Testi correlati:
Dizionario del diavolo - Bierce Ambrose, 2010, Guanda € 13,00
Tutti i racconti. Vol. 1- 2 - Bierce Ambrose, 2006, Fanucci
Io, robot - Asimov Isaac, 2003, Mondadori
2001: Odissea nello spazio - Clarke Arthur C., 2000, Longanesi






IL PADRONE DI MOXON

di
Ambrose Bierce








Dici sul serio...? Credi veramente che una macchina possa pensare?”
Non ebbi una risposta immediata; apparentemente Moxon era impegnato con i tizzoni nel focolare, toccandoli abilmente qua e là con l'attizzatoio finché quelli diedero un senso alla sua attenzione con una fiamma più brillante. Per diverse settimane avevo osservato in lui la crescente abitudine di rispondere in ritardo anche alle domande più semplici e comuni. Questo atteggiamento, tuttavia, era dovuto più alla preoccupazione che alla cautela: si sarebbe detto che “aveva in mente qualcosa.”
Dopo un po' disse:
Che cos'è una “macchina”? Questa parola è stata definita in diversi modi. Ecco la definizione di un popolare dizionario: “Qualunque strumento o apparato, grazie al quale l'energia viene impiegata e resa operativa, o viene ottenuto un preciso effetto.” Bene, allora, l'uomo non è forse una macchina? E ammetterai che pensa... o pensa di pensare.”
Se non desideri rispondere alla mia domanda,” dissi, in maniera piuttosto irritata, “perché non lo dici...? tutto quello che dici è solo per sviare il discorso. Sai fin troppo bene che quando dico “macchina” io non intendo l'uomo, ma qualcosa che l'uomo ha costruito e controlla.”
Quando non ne è controllato,” disse, alzandosi improvvisamente e guardando fuori dalla finestra, da dove non si vedeva niente a causa dell'oscurità di una notte tempestosa. Un momento dopo si girò e con un sorriso disse: “Ti chiedo scusa, non volevo essere evasivo. Consideravo quella del dizionario un'ignara testimonianza dell'umo e tuttavia suggestiva e degna di essere discussa. Posso dare abbastanza facilmente una risposta diretta alla tua domanda: sono convinto che una macchina possa pensare al lavoro che sta facendo.”

venerdì 20 giugno 2014

IL LADRO DI CADAVERI

 Non dire gatto...


Robert Lous Stevenson scrisse The Body Snatcher (Il ladro di cadaveri) nel 1881. Originalmente doveva far parte di una serie di racconti del terrore, o “crawlers” come preferiva chiamarli Stevenson, insieme a Janet la storta e I Merry Men, raccolti sotto il titolo THE BLACK MAN AND OTHER TALES. The Cornhill Magazine, però, rifiutò di pubblicarlo “the tale being horrid." Quando infine nel 1884 apparve nel Pall Mall Christmas number, fu reclamizzato in maniera così terrificante, che la polizia londinese ne soppresse i poster pubblicitari.

La vicenda prende le mosse da avvenimenti storici a cui si fa riferimento nel racconto: l'impiccagione del serial killer William Burke avvenuta a Edimburgo nel gennaio del 1829. Burke, insieme al suo complice William Hare – tutti e due emigrati in Scozia dall'Irlanda - furono accusati di aver ucciso 17 persone allo scopo di venderne i corpi agli anatomisti, in particolare al dottor Robert Knox. Hare scampò alla forca testimoniando contro il suo complice, mentre il dottor Knox non fu incriminato perché negò sempre di conoscere l'esatta provenienza di quei corpi, ma la sua brillante carriera fu distrutta dallo scandalo che ne conseguì. La risonanza di quest'avvenimento fu tale che nel 1832 il Parlamento si vide costretto ad emanare l'Anatomy Act per modificare la legge esistente che assegnava alle università solo i cadaveri delle esecuzioni dei criminali.
Da questi fatti deriva il termine Burking che originalmente significava commerciare cadaveri con gli anatomisti, o soffocare a morte la vittima.

Protagonisti di questo breve racconto sono due giovani e brillanti medici, Fettes e Macfarlane, assistenti di un famoso anatomista, indicato solo con l'iniziale del suo nome, K (per Knox?), a cui i due procurano corpi (subjects nel testo) da sezionare durante le lezioni di anatomia all'università di Edimburgo, comprandoli dai famigerati Resurrection Men (come venivano ironicamente soprannominati i trafugatori di salme all'epoca) o andando essi stessi a profanare i cimiteri di campagna quando la 'materia prima' scarseggiava. Come si può ben intuire l'argomento è già orrido in sé, e Stevenson non si fa scrupolo di aggiungere elementi raccapriccianti e grotteschi insieme, come ad esempio lo smembramento del cadavere di Gray, ucciso da Macfarlane perché non rivelasse i loro traffici illeciti, ad opera degli zelanti e ignari studenti di anatomia, episodio che sarà poi all'origine della spettrale scena finale, dove i due lestofanti, di ritorno da una delle loro blasfeme scorribande, vedranno le loro colpe prendere letteralmente forma sotto i loro occhi.


Fu fatto un film nel 1945 La iena - L'uomo di mezzanotte, diretto da Robert Wise, ed interpretato da Bela Lugosi e Boris Karloff.

Burke & Hare - Ladri di cadaveri è un film liberamente basato sul caso storico, con Simon Pegg come Burke e Andy Serkis come Hare, diretto da John Landis, e rilasciato nel Regno Unito il 29 ottobre 2010. In Italia è stato proiettato per la prima volta il 25 febbraio 2011.




IL LADRO DI CADAVERI
Robert Louis Stevenson






Tutte le sere dell'anno, nella saletta del George a Debenham1 sedevamo noi quattro: l'impresario di pompe funebri, l'albergatore, Fettes e io. A volte eravamo di più, ma vento o pioggia, neve o gelo, noi quattro eravamo sprofondati nelle nostre personali poltrone. Fettes era un vecchio scozzese ubriacone, evidentemente uno che aveva studiato e che possedeva delle proprietà, dal momento che viveva senza far niente. Era arrivato a Debenham anni addietro, quando era ancora giovane, e per il solo fatto che aveva continuato a viverci ne era diventato cittadino d'adozione. Il suo mantello di cammello blu era un monumento locale, come il campanile della chiesa. Il suo posto nella saletta dell'hotel George, la sua assenza dalla chiesa, i suoi deprecabili vizi da crapulone, erano tutte cose risapute a Debenham. Aveva delle vaghe opinioni radicali e delle fluttuanti infedeltà, che tirava fuori di tanto in tanto ed enfatizzava colpendo il tavolo con mano tremante. Beveva rum, cinque bicchieri regolarmente ogni sera, e per la maggior parte delle sue visite notturne al George rimaneva seduto, con il bicchiere nella mano destra, in uno stato di malinconica saturazione alcolica. Lo chiamavamo il Dottore, perché si riteneva che avesse una particolare conoscenza della medicina, ed era risaputo che, per una bevuta, poteva mettere a posto una frattura o ridurre una lussazione, ma oltre a questi vaghi particolari, non conoscevamo altro del suo carattere e dei suoi precedenti.

domenica 1 giugno 2014

IL PIEDIPIATTI FANTASMA



Guardia e ladro


Sinclair Lewis (Sauk Centre, Minnesota, 7 febbraio 1885 – Roma, 10 gennaio 1951) è stato il primo scrittore americano ad essere insignito del premio Nobel nel 1930. Fu autore prolifico, e molti suoi racconti e romanzi furono portati sul grande schermo. Come tanti scrittori della sua generazione, viaggiò molto in Europa e Parigi, dove la così detta Lost Generation poteva sentirsi libera dal puritanesimo americano, fu la sua seconda patria. Nei suoi racconti si interessò alle classi più deboli, ed ebbe una visione critica della società statunitense e dei suoi valori capitalistici, e per questo molti suoi scritti furono sottoposti a censura, emblematico il suo romanzo Babbit (1922).
Dei suoi personaggi adotta non solo il punto di vista, ma anche il linguaggio, e il suo stile comico e satirico evita che le situazioni degenerino nel patetico.
Pur avendo cercato molto, non ho trovato nessuna traduzione italiana dei suoi scritti, ecco perché vi propongo con piacere questa piccola storia ambientata nella provincia americana negli anni della Grande Guerra. Protagonista è il vecchio poliziotto Don Dorgan, burbero dal cuore d'oro che “aveva l'immenso dono di amare la gente, tutta la gente” al punto di farsi messaggero del contrastato amore fra Polo, figlio di un fantino italiano, e Effie, figlia di un ebreo tedesco. I due giovani diventano così una sorta di Giulietta e Romeo della piccola provincia americana dove i contrasti fra i diversi gruppi etnici e religiosi erano ancora forti e divisivi. Ma è anche una storia di emarginati: quegli anziani soli che la società isola e dimentica, proprio come capita al vecchio Dorgan, che una volta andato in pensione, diventa il fantasma di sé stesso, e saranno proprio l'amore per gli altri e l'orgoglio per il suo lavoro a dargli la forza di reagire.

The Ghost Patrol apparve nella rivista The Red Book Magazine nel giugno del 1917. Nel 1923 dal racconto fu tratto un film muto diretto da Nat Ross, protagonisti Bessie Love e Ralph Graves. Il film, prodotto e distribuito dalla Universal Pictures, è andato perso. 





IL PIEDIPIATTI FANTASMA
Sinclair Lewis


Charlot poliziotto, 1917

Donald Patrick Dorgan aveva prestato sevizio per ventiquattro anni nelle forze di polizia di Northernapolis, e durante tutto quel periodo, meno cinque anni, aveva pattugliato la zona di Forest Park. Don Dorgan avrebbe potuto essere sergente, o perfino capitano, ma al quartier generale avevano subito capito che aveva un debole per Forest Park. Perché di là veniva la sua giovane moglie, e là aveva costruito la loro casetta, là era morta sua moglie e là era stata seppellita. Era stato un così grande sollievo nella ridda delle politiche del dipartimento avere un uomo soddisfatto del suo lavoro, che i pezzi grossi erano contenti di Dorgan e lo lasciavano là dove era, anno dopo anno, a pattugliare Forest Park.
Perché Don Pat Dorgan aveva l'immenso dono di amare la gente, tutta la gente. Molto prima che a Northernapolis si fosse sentito parlare di criminologia, Dorgan era convinto che il dovere di un poliziotto con i guanti e il cuore puliti era quello di fare in modo che non ci fosse bisogno di arrestare la gente. Discuteva con gli ubriachi per convincerli a nascondersi in un vicolo a smaltire la sbornia dormendo. Quando li arrestava era perché stavano tranquillamente barcollando verso casa con l'intenzione di picchiare le loro beneamate consorti. Qualunque vagabondo poteva ricevere da Dorgan un nichelino insieme ad una mappa dei dormitori pubblici. Agli attaccabrighe parlava con calma e li picchiava col manganello dove faceva più male ma meno danni. Lungo il suo percorso, i ragazzini potevano giocare a baseball, a patto che non rompessero i vetri o si piazzassero davanti alle macchine. La tasca della sua giubba era una miniera, là erano nascosti non solo i suoi sandwich per lo spuntino notturno, il suo revolver e le manette e un inserto a fumetti, ma anche un sacchetto di caramelle colorate e una palla di gomma rossa.

sabato 26 aprile 2014

Una Bottiglia di Perrier

Com'è dolce la vita all'ombra delle palme


Edith Wharton (New York, 24 gennaio 1862 – Saint-Brice-sous-Forêt, 11 agosto 1937), è stata la prima scrittrice statunitense a ricevere il premio Pulitzer nel 1921 per il suo romanzo più famoso L'età dell'innocenza, portato al cinema da Martin Scorzese nel 1993. Il romanzo è ambientato nell'alta società New Yorkese del primo Novecento, di cui l'autrice ben tratteggia caratteristiche, limiti e contraddizioni. E non poteva essere diversamente, dal momento che la sua famiglia, i Newbold Jones, era una delle più ricche e potenti di New York.
Trascorse gran parte della sua vita in Francia, dove si era trasferita nel 1906 per allontanarsi dal marito, il ricco banchiere di Boston Edward Wharton, e dai suoi problemi mentali. Qui continuò la sua attività letteraria, e viaggiò in tutto il mediterraneo: fu la prima donna a poter visitare il Monte Athos in Grecia, e a visitare un harem in Marocco, e su questa esperienza di viaggio scrive il libro In Morocco, che è anche un endorsment alla politica colonialista della Francia, vista come baluardo della cultura occidentale e della religione cristiana. Morì in Francia a causa di un di infarto all’età di settantacinque anni.

Il racconto che vi propongo, A Bottle of Perrier (Una bottiglia di Perrier) è ambientato in un’oasi desertica ai confini con il Marocco. Apparve la prima volta sul The Saturday Evening Post nel 1926 con il titolo “A Bottle of Evian,” e fu pubblicato nel volume Certain People, 1930, con il titolo A Bottle o Perrier.
Protagonista della storia è il giovane Medford, archeologo della scuola americana di Atene, che va in visita ad un suo più anziano collega, Henry Almodham, archeologo inglese che da anni vive nel deserto in un antico edificio “a metà tra la fortezza cristiana e il palazzo arabo”

 Quando il giovane arriva, scopre che il suo ospite si è allontanato “...invitato improvvisamente da un capo tribù suo amico a visitare alcune rovine inesplorate più a sud” come gli viene annunciato da Gosling, il compassato cameriere di Almodham, a capo di uno stuolo di servi arabi, tutti dediti al comfort del loro padrone. Affascinato dal mistero di quel posto dove “lo spasmodico agitarsi dell'uomo non aveva sensoe dalla selvaggia bellezza del deserto, Medford decide di fermarsi per aspettare il ritorno del suo ospite. E la vita sembra dolce all'ombra delle palme fruscianti che ombreggiano il cortile di quell'edificio labirintico. Al centro del cortile, e della storia, c'è la cisterna, l'unica fonte di acqua del castello. Ed è proprio con l'acqua che sorgono i primi problemi, dal momento che quella della cisterna, con l'avanzare della stagione secca, incomincia a non essere più buona. Anche le riserve di acqua minerale, che tanto avevano impressionato il giovane, “Perrier nel deserto!”, alla fine risultano esaurite, a causa della calura dei giorni precedenti, e la prossima carovana di rifornimenti arriverà solo la settimana successiva. Su suggerimento di Medford, l'acqua della cisterna viene bollita, e tutto sembra filare per il meglio. Pian piano il giovane, abbattendo le barriere sociali che sembrano perdere senso in quel luogo, instaura un rapporto confidenziale con il maggiordomo che gli rivela la natura egoistica del suo padrone, “quando è qui ha bisogno di me per la sua persona, e quando è via ha bisogno di me per controllare gli altri.Sempre così, da quando Almodham lo ha portato là dodici anni prima, senza poter mai andare via “incatenato qui come il suo cane da guardia.” I giorni passano, ma Almodham non si fa vedere, l'attesa riserva di Perrier non arriva, cosa che suscita una reazione particolarmente isterica nel maggiordomo, con stupore del giovane americano. Intanto, a causa del caldo, l'acqua della cisterna è sempre più disgustosa e il suo cattivo odore invade tutto il cortile, rompendo l'incanto iniziale e il ritorno alla realtà sarà violento e drammatico.


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I fantasmi di Edith Wharton
Trad. Balestra Gianfranca, 1993, Bulzoni
€ 13,17


Storie di fantasmi
Wharton Edith, 2008, Joybook
€ 5,87

 



UNA BOTTIGLIA DI PERRIER
Edith Wharton








Due giorni a combattere su piste insidose in un vecchio macinino ben intenzionato ma asmatico, e altri due giorni di viaggio su un cavallo a nolo dal temperamanto scontroso, avevano indotto il giovane Medford, della scuola americana di archeologia di Atene, a chiedersi come mai il suo eccentrico amico inglese, Henry Almodham, avesse scelto di vivere nel deserto.



Adesso capiva.



lunedì 10 febbraio 2014

LE PORTE DELLA PERCEZIONE



La porta nel muro (The Door in the Wall) è un racconto breve di H. G.Wells, pubblicato per la prima volta nel 1911 nella raccolta intitolata The Door in the Wall, and Other Stories.

Protagonista della storia è Lionel Wallace, uomo politico brillante e ambizioso che muore in circostanze poco chiare alla vigilia del suo quarantesimo compleanno. La storia è narrata dal suo antico compagno di scuola Redmond (reliable narrator), che riporta al lettore le confidenze ricevute tre mesi prima dal suo amico durante una cena a quattr'occhi, in cui Wallace (unreliable narrator), sotto forma di un lungo flashback, rivela di aver perso ogni interesse in quello che fa a causa di una preoccupazione che lo ossessiona: “Io sono ossessionato. Ossessionato da qualcosa – che toglie al mondo ogni luce e mi riempie di un desiderio inappagabile...” Quella ossessione ha radici lontane e risale alla sua prima infanzia. Il bambino, orfano di madre, affidato da un padre severo e assente alle cure poco amorevoli di bambinaie e governanti, quando aveva poco più di cinque anni era sfuggito alla sorveglianza degli adulti e vagando per gli squallidi sobborghi della città si era ritrovato davanti ad una misteriosa porta verde in un muro bianco. Cedendo ad un richiamo irresistibile, aveva varcato quella porta per ritrovarsi in un giardino incantato di una bellezza ultraterrena: i fiori erano spontanei, non c'erano erbacce, la luce aveva un riflesso di eternità e perfino gli animali più feroci erano docili e socievoli. In quel giardino non c'era posto per il serpente. Per la prima volta il bambino è felice, lontano dalla ferrea disciplina paterna e dalla bruttezza del mondo esterno. Egli sente di appartenere a quel luogo: “Nella mia mente c'era la profonda sensazione di essere a casa. In un primo momento gli aveva fatto da guida una fanciulla bionda, affettuosa e gioiosa, forse la madre che gli era sempre mancata. E soprattutto vi aveva trovato dei compagni di gioco che per un momento avevano alleviato la sua solitudine. Poi era arrivata una donna bruna e severa, dallo sguardo pieno di tristezza, perché consapevole che il bambino avrebbe dovuto lasciare il giardino incantato e ritornare alla vita di tutti i giorni. La donna lo aveva separato dai suoi amici e attraverso le pagine viventi di un libro magico gli aveva fatto rivivere la storia della sua vita, proprio come in un film, fino al momento in cui il bambino si era rivisto davanti alla porta nel muro. A questo punto la magia era finita ed egli si era trovato di nuovo nel mondo reale. Al dolore per la perdita del giardino incantato si aggiunsero anche l'incomprensione del padre e dei suoi famigliari che non credettero al suo racconto e lo punirono perché troppo “fantasioso”. Col passare del tempo Wallace incominciò a dimenticare il giardino e i suoi meravigliosi abitanti, adeguandosi sempre più al mondo circostante e al modo di pensare del padre, di cui finalmente riceverà il plauso e la stima. Si imbatté altre cinque volte nella porta verde senza mai oltrepassarla, da adolescente perché troppo preso dagli impegni scolastici, da adulto perché troppo preso dalla sua vita sentimentale e personale, ma soprattutto perché troppo impegnato a costruire la sua brillante carriera politica, a cui ha sacrificato tutto, anche la meravigliosa visione del giardino incantato. Ma proprio quando ha ormai raggiunto il successo inseguito per tutta la vita, si rende conto che l'unica cosa veramente importante per lui è quella perduta felicità a cui aveva avuto accesso attraverso la porta verde “Tre volte in un anno la porta si è offerta a me – la porta che conduce alla pace, alla gioia, ad una bellezza inimmaginabile, ad una dolcezza che nessun uomo sulla terra conosce. E l'ho rifiutata, Redmond, e se ne è andata... Così rivela all'incredulo Redmond che ogni notte vaga per la città alla ricerca di quel muro e di quella porta. Il mattino dopo Redmond pensa che l'amico lo abbia preso in giro, ma poi il tono sincero di quelle confidenze gli fanno sorgere il dubbio che, in realtà “quei ricordi, in qualche modo, evocavano, proponevano, suggerivano – non saprei che termmine usare – esperienze altrimenti impossibili da raccontare. E' sicuro che il suo amico fosse sincero, ma non sa dire se “ Egli vide davvero o credette di vedere, se egli veramente possedeva un inestimabile privilegio o era la vittima di un sogno fantastico. Tre mesi dopo questa incredibile confessione i giornali riportano la morte dell'importante uomo politico avvenuta in circostanze poco chiare: Wallace ha per errore oltrepassato una porticina verde che serviva da ingresso agli operai che stavano ampliando la linea ferroviaria di East Kensington, precipitando in un pozzo di collegamento. Questo è ciò che pensa la gente comune, ma Wallace apparteneva a quella categoria speciale che “sono i sognatori, questi uomini di visione e immaginazione” e Redmond si chiede “Ma lui ha visto le cose allo stesso modo?


Con questo interrogativo termina quella che è, a ragione, considerata una delle migliori short story di Wells, in cui l'autore ripropone l'eterno dissidio fra ragione e immaginazione, ma in realtà gli spunti di questo racconto sono molteplici.



Individuo e società: Wallace è definito un “sognatore” che grazie alla sua immaginazione ha il potere di evocare visioni di mondi meravigliosi, ma perché decide di rinunciare a questo “potere” che avrebbe potuto fare di lui un artista o un letterato? Le ragioni vanno trovate nel contesto culturale, sociale e morale di quel particolare periodo storico. Siamo alla fine del periodo edoardiano, che va dalla morte della reggina Vittoria (1901) alla morte di suo figlio Edoardo VII (1911). E' il periodo della Bella Epoque, Edoardo porta nella severa società vittoriana un tocco di eleganza e di gioia di vivere mutuate dal continente e in particolare dalla Francia. Perché se Londra è il cuore di un impero sconfinato, Parigi è la capitale culturale del mondo occidentale. Ma la middle class inglese è ancora legata a quei valori di decoro, dovere e sacrificio che avevano dominato durante tutto il periodo vittoriano e così ben rappresentate dal padre del protagonista. Wallace sente il “peso” del suo ruolo sociale, sente che seguire le sue visioni sarebbe come “tradire” i valori in cui è stato cresciuto dal padre e che pure gli hanno procurato tanta sofferenza. Ancora brucia in lui il ricordo delle punizioni subite in famiglia quando ha cercato di condividere con loro il suo meraviglioso segreto. E così mette il suo genio al servizio della sua carriera, gira le spalle alla porta nel muro, ma questo genera dentro di lui un conflitto che lo consuma e gli preclude ogni felicità, fino alla tragedia finale.



Declino del positivismo: Lo scrittore attraverso la figura di Wallace, rivendica i diritti del singolo a seguire i propri sogni, ad avere una visione autonoma e personale della realtà. L'età edoardiana è un'epoca di sviluppo tecnologico sempre più veloce, come possiamo osservare anche in questo racconto: nell'adolescenza Wallace si muove in carrozza e col treno, nell'età adulta con la macchina, le notizie vengono comunicate in tempo reale attraverso il telefono, il libro magico della donna bruna ci ricorda la scoperta del cinematografo (1895). Il pensiero filosofico dominante è il positivismo che fa coincidere il progresso della società con il progresso della scienza, al concetto di qualità viene sostituito quello della quantità, è la società di massa a scapito del singolo, delle sue istanze, dei suoi sogni e dei suoi desideri. Ma quando il racconto è pubblicato questo modello è stato già messo in crisi dalla psicoanalisi di Freud (1900) che rimette l'individuo al centro dell'attenzione, mentre la fisica newtoniana, che è alla base del pensiero scientifico ottocentesco, è superato dalla fisica quantistica (1900) e dalla relatività di Einstein (1905). Le antiche certezze si vanno sgretolando e Wells, che è anche uno scienziato, ne è ben consapevole. Fra pochi anni lo stesso assetto politico dell'Europa sarà stravolto dalla prima guerra mondiale, che secondo Wells avrebbe dovuto essere l'ultima.

Società industriale vs. natura: La porta nel muro sembra essere un punto di cesura tra la “ugliness” della società industriale e la bellezza della natura e dell'arte. Non a caso, infatti, la porta verde compare per la prima volta in un contesto urbano povero, degradato e caotico. La rivoluzione industriale ha creato delle città tentacolari, dove prima c'era la campagna, ora sorgono squallidi slums. Nel giardino di Wallace, invece, regna la bellezza e l'armonia fra uomo, natura e arte. E in tutta questa perfezione la gente non può che essere felice e amorevole. Certo una visione utopistica dell'uomo e del suo rapporto con la natura, ma necessaria all'economia del racconto, per spiegare quanto grande sia il rimpianto di Wallace, che grazie alle sue capacità di sognatore era riuscito ad andare oltre il muro del materialismo trionfante.

L'eredità del romanticismo: nel racconto ritroviamo molte tematiche ereditate dal romanticismo. La scoperta dell'infanzia come età fondamentale per la formazione dell'adulto: “The Child is father of the Man” asseriva Wordsworth (My heart leaps up...). La contrapposizione immaginazione/ragione “What is now proved was once only imagined.” (William Blake, The Marriage of Heaven and Hell (1790-93). Proverbs of Hell), la visione idealizzata del bambino, che non ancora corrotto dalla società degli adulti, conserva intatte le sua capacità visionarie, destinate a scomparire nell'età adulta: “The things which I have seen I now can see no more.” (Wordsworth, Ode all'immortalità). Al contrario, Wallace conserva le sue capacità visionarie, ma crescendo le rinnega, per omologarsi al modo di pensare comune, intimorito dalla reazione violenta e repressiva degli adulti, finché la metamorfosi è completata ed egli diventa un uomo di successo. “If the doors of perception were cleansed every thing would appear to man as it is, Infinite.” diceva William Blake in uno dei suoi proverbi più famosi (The Marriage of Heaven and Hell). Se Wallace avesse avuto il coraggio di purificare le porte della percezione da ogni pregiudizio, egli sarebbe stato capace di usare la forza dell'immaginazione per spalancare le porte dell'universo: “La conoscenza è limitata, l'immaginazione abbraccia il mondo.” (Albert Einstein)




Background letterario: Il tema del giardino segreto o dell'isola incantata è un tema caro alla letteratura per l'infanzia del primo novecento, il più famoso è sicuramente Peter Pan e la sua isola che non c'è, capolavoro di James Barrie. Il personaggio di Peter ebbe un lunga elaborazione. La prima versione va sotto il titolo di Peter Pan nei giardini di Kensington, tratto da The Little White Bird (1902). Nel 1904 c'è l'edizione teatrale sotto il titolo di Peter Pan, o il ragazzo che non voleva crescere. Questa storia fu poi adattata, ingrandita e trasformata da Barrie in un romanzo pubblicato nel 1911 con il titolo Peter e Wendy, poi Peter Pan e Wendy e infine semplicemente Peter Pan.

Meno conosciuto, forse, ma non meno bello è Il giardino segreto (1910) di Frances Hodgson Burnett, la stesa autrice di Piccolo lord.
























































































     La porta nel muro
          H.G. Wells (1911)

                                                    

                                La porta verde – Giorgio Kienerk, 1920?

                                                            
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Durante una serata di confidenze, meno di tre mesi fa, Lionel Wallace mi raccontò la storia della porta nel muro. E quella volta pensai che, per quello che lo riguardava, fosse una storia vera. Me la raccontò con tanta sincera convinzione che non potei far altro che credergli.  Ma la mattina,  nel mio appartamento, mi svegliai in un diverso stato d'animo e, mentre ero a letto e mi ritornava alla mente tutto quello che mi aveva detto, considerai quella storia francamente incredibile, una volta spogliata del fascino della sua voce sincera e pacata, senza la luce avvolgente della lampada velata e la penombra che circondava lui e i piacevoli oggetti brillanti sul tavolo: le posate e i bicchieri e la tovaglia della cena che avevamo condiviso e che formavano un piccolo mondo splendente separato dalla realtà quotidiana. “Era tutto una mistificazione!” mi dissi, e aggiunsi: “E come l'ha congegnata bene...! E' l'ultima persona al mondo che avrei  ritenuto capace di una cosa del genere.”